Chiesa e Media in Europa

 

Occorre un discernimento

 

di Manuel Bru

 

L’autore, docente di comunicazione e giornalista, valorizzando le competenze acquisite in ambito accademico e nella pastorale, mostra l’urgenza di un maggiore protagonismo delle comunità cristiane nella cultura che sta disegnando l’era digitale. Invita ad inserirvisi con l’impegno che mostrano coloro che vogliono rispondere alla chiamata della missio ad gentes in paesi lontani. Voler annunciare il Vangelo con la vita e la parola in questo “mondo” significa impararne, anche con fatica, la lingua, gli usi e la cultura propri.

Le mie sono riflessioni a voce alta che partono dall’inquietudine intellettuale derivante dalla mia docenza universitaria in Opinione Pubblica ed Etica della Comunicazione; dalla mia esperienza nell’ambito della pastorale dei media e dall’esercizio del giornalismo nei mezzi di comunicazione ecclesiali; dal mio costante desiderio di “chiarificare” queste domande partendo dalla freschezza della vita del Vangelo che il carisma dell’unità rende attraente e vitale.

 

I presupposti

Tanto gli aspetti del linguaggio mediatico (in transizione dall’audiovisivo ai new media di rete e mobilità) che sono facilmente deducibili (immediatezza, multi-sensorialità e globalità) quanto quelli che è più impegnativo riscontrare (transitorietà, superficialità ed irrazionalità) condizionano sostanzialmente la trasmissione culturale.

Il messaggio cristiano, capace nella sua essenza di accogliere ed illuminare in profondità ogni costruzione e ricostruzione culturale, potrebbe non solo essere trasmesso ma anche essere efficace per rivalutare la nuova cultura mediatica. Questa è una sfida molto più importante che il solo uso dei mezzi di comunicazione sociale come supporti per ripetere un messaggio con le stesse categorie in crisi dell’Europa secolarizzata. E farlo con codici linguistici inattendibili e incomprensibili per i nuovi media di trasmissione culturale. Se Paolo VI nell’Evangelii nuntiandi invitò ad accettare la sfida dei nuovi supporti mediatici, Giovanni Paolo II nella Redemptoris missio ha evidenziato la sfida dei nuovi linguaggi e della nuova cultura mediatica.

La Chiesa vive questa situazione con perplessità: non vuole (e dovremmo riconoscere che in un certo modo non può) staccarsi dal suo tradizionale impianto culturale, abituata ad occupare una posizione dominante (anche se ha smesso di averla da molto tempo). Alla Chiesa costa, logicamente, avventurarsi in un discernimento necessariamente rischioso nel dovere tenere il passo con l’uso dei nuovi media che comporta adottare nuovi codici, nuovi ritmi, nuovi formati comunicativi.

 

Il bivio

Da un lato, e in modo crescente, la Chiesa sta prendendo sempre più sul serio questa sfida con una visione più ampia e coinvolgente dell’evangelizzazione del mondo dei media, sia in ambiti pastorali che in aspetti tematici di luce evangelica.

È ovvio che l’evangelizzazione del mondo dei media si iscrive nella Nuova Evangelizzazione, rappresentando uno dei cinque grandi “areopaghi” delle nostre società della vecchia Europa (quello della comunicazione, unito alla politica, all’economia, alla cultura, e alla scienza) e che integrarla, farne tesoro, ma non strumentalizzarla.

Vengono in rilievo oggi una serie di priorità:

- dalla riflessione etica sull’uso dei media (di emittenti e di recettori) alla riflessione etica sulla struttura mediatica (imprenditoriale, politica, educativa, ecc.);

- dal riduzionismo tematico (informazione religiosa e discorso pastorale) all’evangelizzazione-umanizzazione di tutti gli ambiti dell’informazione e dell’opinione giornalistica;

- dal dar fiducia solo ai mezzi di comunicazione sociale propri della Chiesa (presenza ed identità), al dar sempre più valore alla testimonianza delle nuove forme di comunicazione sociale più ‘per l’uomo’ in tutti i tipi di media (fermento – lievito e rigenerazione).

D’altra parte, in direzioni a volte contrapposte, si osservano modi insufficienti di affrontare questa realtà:

- si soccombe, schiacciati di fronte alla tentazione del fascino acritico dei media, magnificando le espressioni puntuali ed effimere del cambiamento, o entrando nella logica del mercato mediatico senza altro criterio di quello del successo facile;

- si cade nella tentazione di trincerarsi nelle sicurezze passate: vecchi ardori, vecchi linguaggi, vecchi metodi (anacronistici) e alla fine vecchi progetti;

- si lascia prevalere la paura di una sana pluralità, quando la sfiducia nella vera comunione (unità nella pluralità) porta sfiducia nello sviluppo di un’opinione pubblica ecclesiale. Mentre questa non dovrebbe essere né l’ambito di un’uniformità apologetica, né l’ambito di una sistematica critica (o autocritica) manichea, ma il luogo di un plurale ed arricchente dibattito che, a partire dalla comunione, si trasforma in discernimento comune.

 

Le proposte

Non bisogna avere paura né dei media, né dei loro linguaggi, né della nuova cultura che disegnano. È necessario sostituire alla paura e al ripiegamento il dialogo sincero ed attento e il discernimento acuto che, superando il relativismo e l’individualismo, sappia salvare gli aspetti profetici dei nuovi metodi di costruzione del pensiero.

Bisognerebbe riconoscere con umiltà che dobbiamo imparare questi nuovi linguaggi, con lo stesso interesse e rispetto col quale i missionari ad gentes imparano le lingue e le culture degli indigeni, scoprendo i loro valori, attivando una comunicazione empatica almeno per – parafrasando Benedetto XVI – non dare, per quanto possibile, risposta a domande che nessuno si fa e che nessuno ci fa.

Bisognerebbe d’altra parte promuovere, mirando più concretamente all’ambito comunicativo:

strutture mediatiche più umane, affinché gli ambiti della comunicazione si trasformino in ambiti di incontro;    
professionisti della comunicazione con maggiore senso della loro responsabilità sociale;
utenti dei media più critici ma anche più partecipativi.

Bisognerebbe, allora, promuovere anche un giornalismo (comunicazione informativa o interpretativa dell’attualità) con un volto umano, vero, propositivo, con “obiettiva soggettività” e impegnato con chi “non ha voce”.

E infine, promuovere anche la trasparenza nella comunicazione della Chiesa, che non è riuscita finora a mostrare con semplicità i frutti del Vangelo vissuto, con tutte le risorse professionali ed estetiche in voga in ogni tempo.

Ma altresì il non aver vergogna quando è il momento di trasmettere, anche attraverso i media ed i loro nuovi linguaggi, la misericordia di Dio che abita in una Chiesa che riconosca e chieda perdono dei suoi peccati.

 

Manuel Bru