L’evangelizzazione esige l’incarnazione della Parola di Dio
nelle realtà umane di ogni tempo

 

Spunti per un profilo mariano della nuova evangelizzazione

 

di mons. Giuseppe Petrocchi

 

L’autore, partendo dall’Incarnazione del Verbo, realtà fondante della nostra fede, tratta il tema della nuova evangelizzazione con grande chiarezza e profondità. Nel cammino dell’evangelizzazione la figura di Maria, che continua in quella della Chiesa, non è accessoria, ma centrale, originante e costitutiva: è lei che, per opera dello Spirito, dà “carne” alla Parola – un principio importante non soltanto dal punto di vista teologico, ma anche carico di conseguenze per la vita e l’azione della Chiesa.

Questo intervento ha avuto una prima formulazione orale nella relazione da me tenuta ad un convegno, a carattere spirituale e pastorale, che ha raccolto un gruppo di Vescovi, provenienti da diverse nazioni. Si tratta di appunti incompleti e appena abbozzati, che attendono una versione più sviluppata ed organica. Ne presento ora una prima stesura scritta, in forma essenzialmente schematica, in attesa di un testo più ampio e articolato, che mi riservo di pubblicare in una fase successiva e in altra sede.

– La conversazione tocca il tema della evangelizzazione, come “’incarnazione” della Parola nell’ambito ecclesiale e negli spazi, spesso “desertificati”, della cultura e della società del nostro tempo.

– Il mio intento non è quello di dare soluzioni teologiche o di tracciare percorsi pastorali, ma quello di aprire alcuni “varchi tematici” idonei a suscitare domande: domande non “problematiche”, ma “produttive”. La “domanda problematica”, infatti, nasce da una indigenza, perciò la ricerca è tesa a ottenere ciò che manca; mentre la  “domanda produttiva” nasce da una pienezza, quindi la ricerca è mirata a valorizzare ciò che si ha. Esempio della prima: sperimento una precarietà economica e mi chiedo, “cosa fare per procurarmi i beni di cui manco?”. Esempio della seconda: “dispongo di risorse preziose”, perciò mi domando “come investirle?”.

Siccome si parla di “incarnazione” vorrei brevemente sostare su questo mistero, individuandone le dinamiche essenziali; infatti ogni altro processo, che ad esso “per analogia” si richiama, ne ripropone i tratti fondamentali.

1) Verbum caro

·      Nel mistero del “Verbum caro factum” (il Verbo si è fatto carne) si registra una asimmetria ontologica radicale:

il “Verbum” è increato, la “caro” creata; il “Verbum” è infinito, la “caro” finita; il “Verbum” è eterno, la “caro” temporale; il “Verbum” è universale, la “caro” particolare; il “Verbum” è necessario, la “caro” contingente; il “Verbum” è assoluto, la “caro” relativa; il “Verbum” è immutabile, la “caro” sempre in divenire. Lo scarto, sul piano metafisico, è incolmabile.

Dalla fede sappiamo che nell’incarnazione il Verbo resta Verbo, senza diminuzione alcuna, la “caro” resta “caro” senza alterazione: afferma sant’Agostino: «Il Verbo, che è infinito, si è fatto finito, senza cessare di essere infinito. Il Verbo, che è Dio, ha assunto un corpo di carne per essere uomo»[1].

·          Gesù assumendo la “caro”, entra nella nostra condizione storica, caratterizzata dalla fragilità.

Si fa in tutto uno di noi, fuorché nel peccato. Perciò viene tra noi con una “caro” immacolata (dunque diversa dalla nostra), ma tuttavia simile alla nostra, perché segnata dalla stessa condizione di debolezza.

Scrive von Balthasar: la Parola che era “presso Dio” ed essa stessa era “Dio”, è divenuta «non semplicemente “uomo” (il che è certo sottinteso, perché “carne” nell’Antico Testamento sta a indicare l’uomo concreto, temporaneo e caduco), bensì caro, sárx, carne, il che mette al centro la fragilità, la caducità e soprattutto la mortalità dell’uomo. Il fatto che nell’affermazione stia al centro il corpo – caro cardo salutis (la carne è il cardine della salvezza) –, è il nucleo centrale di verità della “cristologia del Lógos-sárx”del cristianesimo primitivo»[2].

·      Dio avrebbe potuto salvare l’umanità con un atto d’onnipotenza, “dall’esterno”, ha, invece, deciso di percorrere un’altra strada, quella del farsi “uno di noi” e quindi “uno con noi”.

Se lo avesse voluto, il Verbo avrebbe potuto manifestarsi e agire, per la nostra redenzione, seguendo altri percorsi: rimanendo, però, “solo” Verbo, senza “compromettersi” con noi entrando, come Uomo-Dio, nella nostra storia. Invece il Signore, per attuare il suo disegno di salvezza, non si limita ad agire “sulla” umanità (con interventi dall’Alto), e neppure si contenta di passare “attraverso” l’umanità (adottando “mediazioni ministeriali”, come nel caso dei profeti): ma la assume fino in fondo, facendosi partecipe della nostra sorte e venendo ad abitare in mezzo a noi (cf Gv 1,14).

Questa scelta è irreversibile: traccia, così, una strada che diventa “necessaria”, non in senso metafisico ma secondo l’economia della redenzione. Essa è “la via salutis” percorsa da Dio: “alia non datur”. Bisogna, perciò, seguire quella traiettoria o si resta fuori dal dinamismo della grazia. Di qui l’assioma teologico: «Ciò che non è assunto, non è sanato; ciò che è unito con Dio, è anche salvato»[3].

·      Ciò sfora la logica solo umana.

«Che l’infinito si sia fatto finito, che l’Eterno sia entrato nel tempo, che l’Amore sussistente sia passato all’opposto di sé scegliendo la contingenza della condizione umana, accogliendo in sé il peccato, l’abbandono e la morte, tutto questo costituisce il novum assoluto dell’incarnazione del Verbo, “paradosso” per la mistica non-cristiana e per la filosofia»[4].

·         L’incarnazione, che comporta una “kenosi”, si rapporta costitutivamente alla pasqua: quindi alla morte e alla risurrezione.

Secondo sant’Agostino, «alla incarnazione appartiene la sua passione»[5]. «Perciò si può dire che “la tradizione sia occidentale sia orientale definisce in modo unanime e conforme alla Scrittura il senso dell’incarnazione, come assunzione non della creaturalità in quanto tale, ma del concreto destino umano sottoposto alla ‘maledizione’ del peccato e alla prima e seconda morte. In conseguenza l’incarnazione non ha altra finalità che la croce”. È quanto luminosamente ha affermato san Leone Magno: “È disceso in mezzo a noi, non solo per assumere la sostanza, ma anche la condizione della natura peccatrice; il motivo della nascita del Figlio di Dio non è stato altro che quello di poter essere affisso alla croce”»[6].

·      Ogni processo di incarnazione, perciò, non potrà mai essere pensato e vissuto come una “marcia trionfale” o come “strategia di conquista”, perché porta sempre indelebilmente impresso il segno della croce gloriosa: di conseguenza ha sempre una “matrice” pasquale.

«Ciò che è accaduto nel capo, deve anche accadere nelle membra: incarnazione, morte e risurrezione; questo sta a significare radicamento, distacco e trasformazione. Non c’è vita cristiana autentica che non sia sottomessa a questo triplice ritmo»[7]. Incarnazione e pasqua, dunque, rappresentano momenti non solo successivi, ma anche teologicamente inclusi e co-presenti l’uno nell’altro.

·      Quella che il Verbo assume è “caro” antropologicamente e culturalmente determinata.

Il “paradosso teandrico” sta proprio nell’accettazione incondizionata della situazione creaturale, per la quale vale l’assioma «omnis determinatio est negatio» (ogni determinazione comporta una negazione). Infatti Gesù è nato in Palestina, e non in altri luoghi della terra; è un semita, perciò non appartiene ad altre stirpi; si esprime in aramaico, e non in altre lingue; fa sua la cultura ebraica, dunque non utilizza quella di altri popoli. Insomma: accetta di stare “lì” (in “quel” luogo, e non in altri), di vivere “allora” (in “quel” tempo, e non in altre epoche), di essere “così” (identificato con la “sua” gente, dunque non con altre etnie). Davvero il Verbo – che è di natura divina – entrando nei limiti della “caro” ha “spogliato se stesso” (cf Fil 2, 7): ma è proprio passando attraverso questo “abbassamento” (quindi, accettando fino in fondo l’“umiliazione” del farsi servo (cf Fil 2, 8) e correndo senza privilegi il “rischio” di essere, in quanto uomo, “come” noi) che rende efficace per l’intera umanità l’opera della salvezza.

·      Ma quando la “caro” è assunta dal Verbo, avviene il prodigio:

il particolare diventa capace di comunicare l’Universale; il contingente, l’Assoluto; il relativo, il Necessario; il finito, l’Infinito; il tempo, l’Eternità; l’umano, il Divino; la creatura, il Creatore. Si inaugura, così, la dinamica sacramentale.

·      “Verbum caro factum est, in Maria”...

Il Verbo non si dà la sua carne “ex nihilo”, ma la assume “in” Maria e “da” Maria. Per cui davvero Gesù è Figlio di Dio ma anche figlio “di” Maria. Sta qui il mistero della Theotokos (Madre di Dio). Maria ci mette il “suo”, ma nel “suo” di Maria dimora il Tutto di Dio.

·         “… per Spiritum” (per opera dello Spirito Santo).

Come si sa, lo Spirito è l’Unità sussistente che procede dal Padre e dal Figlio: la loro Comunione sostanziale.

·          Questa linea redentiva, tracciata da Dio, ricompare – nei suoi dinamismi essenziali – in ogni “tipologia” di “incarnazione” che si realizza “nella” Chiesa e “attraverso” la Chiesa.

Di conseguenza, ogni processo di “incarnazione” – perché sia autentico ed integrale – deve presentare la interazione comunionale e sinergica di queste tre “Soggettività”: il Verbo, Maria, lo Spirito.

2) Alcune applicazioni all’evangelizzazione

È vero che il nostro intelletto deve mobilitare tutte le sue risorse per comprendere la Parola, come anche è certo che non cesserà mai di esplorare l’infinito orizzonte della Verità che ci è stata trasmessa. Da qui, l’impegno a conoscere sempre di più e sempre meglio l’inesauribile deposito della rivelazione, che dovrà sempre caratterizzare la vita e l’azione della Chiesa, fino all’ultimo giorno.

·                    In questa prospettiva, la Parola, consegnata “alla” Chiesa, deve essere custodita “nella” Chiesa con fedeltà totale, e “dalla” Chiesa va donata per intero (senza restrizioni, diminuzioni, alterazioni o indebite aggiunte) “per” la salvezza del mondo.

Tuttavia, se si restasse incanalati su un approccio prevalentemente “cognitivo”, si correrebbe il rischio dell’intellettualismo e del verbalismo.

·                    Il “Verbo” (cioè la Parola), anche oggi, “nella” Chiesa e “attraverso” la Chiesa, deve – per analogia – continuare a farsi “caro”:

cioè diventare vita, opere, cultura, per trasformare la mente, il cuore, le relazioni, le attività degli uomini e così cambiare la storia, rendendola conforme al piano di Dio.

Tuttavia la “caro” ecclesiale ed umana (attraverso cui la Parola assume una fisionomia storica “nella” vita della comunità cristiana e sociale), pur “rivestita” dei limiti creaturali ed esistenziali, deve risultare “idonea” ad esprimere correttamente la realtà del “Verbo”, rendendo così efficace la sua missione: quella di comunicare – in parole e in opere – la salvezza in luoghi, tempi, culture e contesti sociali particolari e diversi.

Perciò la dinamica “teandrica” (cioè, divino-umana) va rispettata integralmente e riproposta con fedeltà. Le tentazioni, sempre ricorrenti, sono quelle di “adattare”, per difetto, il “Verbo” alla “caro” (in questo caso la Parola non viene trasmessa bene e per intero); o di adottare una “caro” non-congrua (cioè “inadatta” a questo fine); oppure di aggirare o eliminare la “mediazione” della “caro” (il che porta ad un esito di stampo “gnostico” e al rifiuto – di fatto, anche se non ammesso – della logica della “sacramentalità”).

La situazione risulta drammatica quando il processo di “incarnazione” della Parola non conduce a produrre una realtà tutta “divina” e veramente “umana”, ma esprime un esito scadente, suscitando un frutto in cui si perde il divino e si tradisce l’umano.

·      La figura di Maria, come si è detto, è essenziale – “allora”, come oggi – perché il “Verbo si faccia carne”.

Infatti, per disposizione divina, senza Maria non si dà incarnazione: senza il suo “sì” il Verbo resta solo Verbo, e la “caro” resta solo “caro”.

Come è noto, la vocazione di Maria è, in qualche modo, ri-presentata e prolungata “nella” e “dalla” Chiesa, di cui la Vergine di Nazaret è icona, prototipo, madre e maestra.

Di conseguenza, l’evangelizzazione, per essere autentica ed incisiva, deve essere, a pieno titolo, un’opera-Chiesa (sia la comunità, sia chi agisce “al singolare”, deve annunciare la Parola “come” Chiesa e “con” la Chiesa). Ed è, in particolare, la Chiesa “sub specie Mariae”che va resa presente ed operante. Pertanto, se si vuole promuovere una seria evangelizzazione, occorre spendersi perché la Chiesa sia sempre più Chiesa, e attui, con fedeltà ed efficacia, anche il suo “profilo mariano”: nel pensare, nel sentire, nell’agire.

Nella misura in cui i credenti, come le comunità, attueranno la loro “dimensione mariana”, la Parola si farà “carne” “in” loro, “tra” loro e “intorno” a loro.Così l’opera dell’evangelizzazione risulterà in sintonia con la volontà di Dio e porterà frutti abbondanti: frutti che rimangono (cf Gv 15, 1-17).

·                    Lo Spirito Santo, è il “terzo necessario”, perché il Verbo si faccia carne in Maria.

Egli è lo Spirito di Comunione: Lui che, nel seno verginale di Maria, sigilla “l’unità” della natura divina e della natura umana nella persona del Verbo (“unione ipostatica”); ed è Lui che sancisce l’unità tra la “caro” del Verbo e l’intera umanità[8].

Non c’è unità (evangelica ed umana) senza lo Spirito, e dove lo Spirito opera lì fiorisce l’unità. Perciò, non c’è vera evangelizzazione se lo Spirito non la muove e non la anima con il suo soffio. Infatti l’evangelizzazione tende alla comunione e la comunione è l’anima della evangelizzazione. Per questo «solo una chiesa comunione può essere soggetto credibile della evangelizzazione” (ETC, 27).

Si sa che la Parola proviene “dalla” comunione trinitaria; è donata “alla” Chiesa-comunione (perché la custodisca, la viva e l’annunci); è proclamata “per” suscitare la comunione universale («che tutti siano una cosa sola» – Gv 17, 21). Per questo, la Parola può essere autenticamente ascoltata, compresa, attuata e trasmessa solo in comunione: in comunione con la Chiesa (e con il magistero dei suoi Pastori) e in comunione con i fratelli. Vale allora anche per l’accoglienza-annuncio della Parola il precetto evangelico contenuto in Mt 5, 23-24 – normalmente applicato all’Eucaristia – che, forse, si potrebbe applicare anche così: «se ti avvicini all’altare della Parola e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualcosa contro di te, lascia ciò che ti appresti a compiere e va’ prima a riconciliarti con tuo fratello e poi torna, per aprire con amore il tuo cuore all’ascolto della Parola».

È meglio, perciò, astenersi dal compiere una evangelizzazione “stonata”, in attesa di ristabilire la dovuta comunione evangelica, piuttosto che avventurarsi – pur animati da nobili propositi – su sentieri sbagliati: infatti, il bene va fatto bene, poiché il bene fatto male, fa male.

L’evangelizzazione, dunque, va pensata e attuata “nella” Chiesa, “con” la Chiesa e “come” Chiesa, “affinché” il mondo sia salvato dalla Verità che libera: avendo una specifica attenzione a vivere alla scuola e con lo stile di Maria.

La Madre del Signore, infatti, «Donna vestita di sole» (Ap 12, 1), è la Stella della nuova evangelizzazione, che da Lei deve apprendere itinerari, contenuti e metodi per donare agli uomini di oggi la luce e la grazia della Parola-fatta-carne. Infatti, «narra il Vangelo che una stella guidò i Magi fino a Gerusalemme e poi a Betlemme. Le antiche profezie paragonavano il Messia venturo ad un astro celeste. Anche a Maria è stato attribuito questo emblema: se Cristo è la stella che porta a Dio, Maria è la stella che porta a Gesù»[9].

mons. Giuseppe Petrocchi



[1] Sant’Agostino, cit. in G. Marchesi, La cristologia trinitaria di  H. U. von Balthasar, Queriniana, Brescia 1997, 336.

[2] Ibid., 329.

[3] San Gregorio di Nazianzo, Epistola CI, Patrologia Greca, Migne, 37, 181s.

[4] G. Marchesi, cit., 337.

[5] Sant’Agostino, Sermo 22, 1, 1.

[6] G. Marchesi, La cristologia trinitaria di  H. U. von Balthasar, cit., 369.

[7] Ibid., 370.

[8] Infatti, «con l’incarnazione il Figlio di Dio si è unito in certo modo a ogni uomo. Ha lavorato con mani d’uomo, ha pensato con mente d’uomo, ha agito con volontà d’uomo, ha amato con cuore d’uomo» (GS 2).

[9] Giovanni Paolo II, Angelus dell’Epifania, Piazza S. Pietro, 6 gennaio 2003, in L’Osservatore Romano, 7-8 gennaio 2003, 8.