Editoriale

La Chiesa cresce «per attrazione»

Che ci sia bisogno di una nuova evangelizzazione non lo si era mai affermato con una tale centralità e ampiezza nella Chiesa cattolica. Basterebbero a rilevarlo due eventi: la creazione da parte di Benedetto XVI del Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione (settembre 2010) e la sua convocazione della XIII Assemblea ordinaria del Sinodo dei Vescovi sul tema “La nuova evangelizzazione per la trasmissione della fede cristiana” (ottobre 2012).

È noto che il primo a usare il termine “nuova evangelizzazione” è stato Giovanni Paolo II. La sua frase più conosciuta e citata - presa da un discorso rivolto ai vescovi dell’America Latina - è quella dove manifesta che essa dev’essere «nuova nel suo ardore, nei suoi metodi, nelle sue espressioni».

Molto si è detto da allora su questi aspetti che fanno “nuova” l’evangelizzazione. Significativi a riguardo i Lineamenta per il prossimo Sinodo che sono stati pubblicati nel marzo scorso. In essi, si sottolinea, ad esempio, «il coraggio di osare sentieri nuovi, di fronte alle mutate condizioni» (n. 5), la necessità di uno «stile audace» e di «saper leggere e decifrare i nuovi scenari che in questi ultimi decenni sono venuti creandosi dentro la storia umana per abitarli e trasformarli in luoghi di testimonianza e di annuncio del Vangelo» (n. 6), del bisogno di mostrare che «la prospettiva cristiana illumina in modo inedito i grandi problemi della storia» (n. 7).

Come fare, però, ad acquisire tutte le qualità necessarie a una tale evangelizzazione? Tutti sappiamo per esperienza quanto sia difficile abbinare, contemporaneamente, entusiasmo e idee creative, esperienza profonda del Vangelo e linguaggio adeguato per trasmetterla, audacia di aprire sentieri nuovi e sapienza che evita di rompere la comunione nella Chiesa, programmazione ispirata dallo Spirito e applicazione efficace, capacità d’individuare i segni dei tempi e di discernere in essi i segni di Dio, saper cogliere le esigenze legittime e positive che ci sono anche dietro a comportamenti dell’umanità che ci appaiono deficienti o sbagliati e insieme trovare le nuove categorie e sintesi a cui essi ci chiamano, e via discorrendo.

Evidentemente non basta il desiderio di evangelizzare con ardore, metodi ed espressioni rinnovati. Sono caratteristiche che non possiamo procurarci semplicemente perché lo vogliamo, e tanto meno trasmetterle ad altri soltanto predicandole e enunciandole. Quante volte lo si sperimenta, spesso in modo sofferto e lacerante.

C’è un’espressione del documento finale della V Conferenza generale dell’Episcopato latinoamericano ad Aparecida, particolarmente bella e realistica: «La Chiesa cresce non per proselitismo ma “per attrazione”» (n. 159).

C’è però da domandarsi: Perché oggi tante volte la Chiesa e le comunità cristiane non “attraggono”? Sarà dovuto alla cecità e disonestà di coloro che la guardano da fuori? È innegabile che il male, pur “estremo” (per usare l’espressione di Hanna Arendt), costituisce una possibilità sempre in agguato nella condizione umana. Tuttavia, quando avvertiamo che porzioni sempre più consistenti dell’umanità non riescono più a credere in certe immagini di Dio che presentiamo e provano disaffezione nei riguardi della Chiesa, non dovremmo piuttosto – come suggeriscono gli stessi Lineamenta per il Sinodo dei Vescovi – domandarci prima di tutto che cos’è in noi che “non attrae”?

Il testo appena citato del documento di Aparecida, così continua: «La Chiesa “attrae” quando vive in comunione, giacché i discepoli di Gesù saranno riconosciuti se si ameranno gli uni gli altri come Lui ci ha amati (cf Rm 12, 4-13; Gv 13, 34)».

Infatti questi sono gli insegnamenti più manifestamente “missionari” di Gesù, in particolare nel cosiddetto mandato missionario del IV Vangelo, dal momento che ci ha assicurato che dall’amarci come lui ci ha amato ci riconosceranno come discepoli suoi (cf Gv 13, 35), e ha chiesto al Padre di farci partecipare della stessa comunione che costituisce la vita di Dio «affinché il mondo creda» (Gv 17, 21.23).

Certamente non è sufficiente dire “bisogna amare” per risolvere tutti i problemi dell’umanità e dell’evangelizzazione, dato che l’amore evangelico può essere vissuto in molti modi e dev’essere sempre concreto e sapiente, non solo a livello ecclesiale ma anche sociale e culturale.

Inoltre, quell’amore che arriva a esprimersi in una dinamica comunionale-trinitaria, è una categoria teologica e antropologica, oltre che un’esperienza, verso cui lo Spirito soffia oggi fortemente ma per concretizzare la quale in modo adeguato ai tempi c’è ancora molto cammino da percorrere.

Ben sapendo che non si tratta di una tecnica umana ma di dono di Dio, siamo chiamati a crescere nel modo più lucido ed efficace possibile verso questa comunione agapica. Convinti che in ciò si trova non soltanto il cuore del Vangelo e il senso più profondo e umanizzante dell’esistenza, ma anche l’humus, la precondizione, che moltiplica e potenzia le nostre possibilità di riuscire a trovare le strade più “attraenti”, più rispettose della dignità umana e consone con il disegno di Dio, anche nell’evangelizzazione.

In questa direzione, si muove il contenuto del presente numero, a partire dalla spiritualità di comunione e in dialogo con diversi carismi del nostro tempo. Nel suo piccolo, vuole presentarsi come contributo e sensibilizzazione verso la tematica così ben esposta nei Lineamenta del prossimo Sinodo dei vescovi.

E. C.