Una pastorale evangelizzatrice si vive in tutti gli aspetti concreti dell’esistenza umana

 

Disponibili a dare la vita... anche nelle piccole cose

 

di Alessandro Martini

 

Il segreto di una pastorale che crei la comunità? Coltivare rapporti autentici con tutti, senza voler imporre ordini, ma amando per primo cercando in tutto la fedeltà al Vangelo. Questo non viene sempre spontaneamente, né perché “abbiamo studiato” le realtà della fede, ma è necessario l’“allenamento” della vita. Ci sono dei periodi, delle situazioni o degli ambiti dove questo allenamento diviene particolarmente intenso. 

 

Pastorale alla ricerca della volontà di Dio

Ho iniziato la mia prima esperienza pastorale come viceparroco ed è durata ben 11 anni, fino al settembre 2010. In tutti questi anni nella stessa città, non ho fatto altro che cercare la volontà di Dio. Quando riuscivo a farlo bene e subito, collocando ogni cosa nelle mani del Padre, scoprivo poi, con mia sorpresa, che quei problemi che mi sembravano importanti e che non avevo potuto affrontare si erano risolti.

Spesso mi rimaneva poco tempo per preparare i discorsi da fare ai vari gruppi o alla comunità, ma accadeva sempre il "date e vi sarà dato". Ad esempio, durante l’incontro ogni lunedì con altri sacerdoti con i quali viviamo una profonda comunione, trattavamo un certo tema, e subito mi accorgevo che era proprio ciò che avevano bisogno di sentirsi dire quelli di questo o quel gruppo. La stessa cosa mi capitava negli incontri formativi per il clero previsti dalla diocesi. Io davo il mio tempo a Gesù nell’attendere con carità le persone e Lui “mi preparava” i temi di cui dovevo parlare. Avevo la chiara impressione che Dio col suo Amore guidasse la mia pastorale.

Un giorno ero preoccupato perché dovevo prenotare la casa per un campeggio, ma c’era da spendere tempo per ascoltare fino in fondo una persona. Subito dopo il prete che gestisce la casa mi ha telefonato di sua iniziativa e il problema era risolto!

 

Curare anzitutto i rapporti

Ho dedicato quasi tutte le mie giornate a contatti con le persone: le famiglie nelle loro case, i giovani in parrocchia e fuori, i collaboratori nelle attività pastorali, spendendo tempo ed energie soprattutto nell’ascolto.

Ogni tanto dovevo preparare coppie di fidanzati che per motivi di lavoro non potevano inserirsi nei corsi istituzionali: bisognava prendere appuntamenti adeguandomi alle ore in cui loro erano disponibili. Ho cercato di adattarmi in modo che sentissero l’amore concreto della Chiesa. Essi hanno corrisposto puntualmente e, se davo loro da leggere un testo biblico o altro compito, lo facevano volentieri. In un caso una persona aveva i turni di lavoro in orari diversi per ogni settimana e, appena ne veniva a conoscenza, subito mi telefonava per non perdere il nostro incontro.

A volte dei giovani si sono riavvicinati a Dio con la confessione, perché ho cercato di avere con loro un contatto di persona o per telefono. Avevo sentito dentro quella che mi sembrava una spinta dello Spirito e l’ho ascoltata.

Mi capita spesso che, se ho letto una cosa interessante, non passano 2-3 giorni che qualcuno ha bisogno di sentirsela dire. Dio mi aveva preparato quella cosa non tanto per arricchire la mia cultura, ma perché era utile per quella determinata persona.

Ho contribuito alla nascita di un gruppo di separati o divorziati, seguito da anni. Il mio sforzo è sempre stato quello di far sperimentare loro l’amore di Dio nella situazione dolorosa in cui vivono. Succedeva con frequenza che, in questi incontri, si sperimentava la presenza di Dio. Come quella volta in cui parlavamo dei figli e subito dopo una mamma ha detto di aver capito che lei inconsciamente finora aveva messo i suoi figli contro l’ex marito e che adesso doveva cambiare. Un’altra ha detto che quella sera aveva visto i frutti del suo amore per i figli, dei quali uno in particolare per anni l’aveva un po’ rifiutata; questi frutti li scopriva proprio adesso senza averli mai notati prima.

In ogni incontro le persone rilevavano quanto era stato importante per loro avere qualcuno con cui condividere quell’ansia o quella preoccupazione o quel disagio. Alla luce di questa condivisione fatta nell’amore reciproco, le cose apparivano diverse. Sono molti, infatti, i cambiamenti avvenuti in questo gruppo: c’è fiducia, speranza, senso di appartenenza alla comunità.

 

La celebrazione dei matrimoni

Ho benedetto tanti matrimoni. Normalmente, come sappiamo, in queste occasioni tanta gente viene in chiesa non per spirito di fede, per incontrarsi con Gesù, ma per una consuetudine sociale. Gli invitati arrivano come minimo con mezz’ora di ritardo. E spesso la chiesa diventa una piazza, dove ognuno si sente libero di chiacchierare a voce alta: spesso è un vero baccano. Il momento dell’entrata prima dello sposo e poi della sposa è un po’ confusionario: gente che urla o batte le mani o corre su e giù nella chiesa. I fotografi poi fanno perdere decine e decine di minuti con i loro lampeggi, alle volte disturbando per cercare le posizioni più favorevoli.

Sempre ho procurato di non spaventarmi di fronte a queste cose, cercando di amare le persone. Durante l’ingresso li lascio fare un po’: marce nuziali, saluti, abbracci, applausi. Io resto in un angolo a pregare e aspetto sereno che tutto sia finito. Quando anche la sposa è entrata e si sono salutati, hanno fatto le foto, quando li vedo tutti un po’ più calmi, dopo aver aspettato ancora qualche secondo, entro anch’io, per ultimo, in silenzio, con calma, sorridente, senza giudicare, ma con dentro di me quel Dio col quale ho parlato di loro durante la grande confusione. Saluto tutti con amore ad uno ad uno: gli sposi, i genitori, anche i fotografi. Poi, pian piano, cominciamo a pregare. Sono tutto rivolto a Dio che sento presentissimo. Avendo pregato fino a quel momento, non sono nervoso, ma calmo, pronto a trascinare con me nel raccoglimento la variegata assemblea. Inizio la celebrazione e piano piano si crea un clima di grande silenzio, di attenzione, di ascolto. Nell’omelia parlo di Gesù, del suo amore, della sua accoglienza verso tutti, della sua proposta di una vita meravigliosa. Le parole toccano i cuori. Ogni volta ci sono alcuni che dopo la cerimonia vengono a ringraziare, perché durante la celebrazione hanno sentito dentro qualcosa di particolare.

 

Quattro mesi a Loppiano

Dopo quegli 11 anni sono stato nominato parroco. Il vescovo, prima di affidarmi la parrocchia, mi ha dato l’opportunità di trascorrere quattro mesi nella cittadella di Loppiano, nel Centro di formazione alla spiritualità di comunione per noi sacerdoti diocesani. Qui mi sono trovato con una ventina di sacerdoti e seminaristi venuti da tante parti del mondo per vivere un’esperienza evangelica di comunione.

In questa scuola di vita tutto si fa in unità: pregare, meditare insieme, lezioni molto ricche di approfondimento teologico, biblico, pastorale nei più diversi ambiti, lavorare in giardino, in cucina, lavare i pavimenti, tradurre in varie lingue, insegnare l’italiano, giocare a calcio…

Questo non limitarsi alle attività tipiche del prete e fare tanti altri lavori normali, come ha fatto per trent’anni Gesù a Nazareth, fa di questo corso una vera scuola integrale. Lavorare ad esempio la domenica alla mensa, assieme magari a religiosi di diverse congregazione e a dei laici vergini e sposati che condividono questa esperienza nella cittadella, per accogliere con un bel pranzo i visitatori di Loppiano sempre così numerosi, apparecchiare e poi fino alle ore 16 o 17 lavare le pentole, i piatti, ecc… La mole di cose da lavare è talmente tanta che non puoi fare il tuo lavoro da solo, ma in unità con gli altri, a volte fermandoti se vedi che uno vicino a te rimane congestionato. Si deve lavorare a corpo, perché uno da solo ci metterebbe tre giorni. È solo un particolare delle attività che svolgiamo, ma per me era nuovo ed è stato un bell’insegnamento.

 

Il clericalismo va in frantumi

Il solo fatto di lavorare dal lunedì al venerdì nel reparto di verniciatura di falegnameria, mi ha fatto apprezzare in un modo diverso il sabato e la domenica, come fa la mia gente in parrocchia. Nel lavoro la maggior parte delle cose bisogna farle in due o più persone. Le tue mani devono lavorare sincronizzate con le mani degli altri. Si lavora bene quando non c’é bisogno più di parole per capire quale gesto è necessario in ogni momento, per fare la tua parte favorendo la parte che deve fare l’altro. L’unità è necessaria per il lavoro.

Per lavorare nell’artigianato (verniciatura, lisciatura, lavorazione del legno) è stato necessario imparare a usare bene la vista, l’udito e il tatto e a dosare la forza muscolare, altrimenti si rischia di rovinare i pezzi o i macchinari e di creare guai. L’artigianato è una scuola di attenzione e delicatezza, caratteristiche fondamentali nella vita, specialmente nella vita di un prete.

Tra noi sacerdoti all’inizio non era facile comunicare a motivo della lingua. Ad esempio quando è arrivato Yvon del Madagascar, che parlava solo francese, per comunicare con lui dovevo tradurre dall’italiano all’inglese e Peter degli Stati Uniti dall’inglese al francese. Era laborioso, ma lo faccevamo con tutta la fraternità possibile e ci siamo capiti perfettamente.

In alcune cose ho dovuto superarmi un po’, come quando mi è toccato cucinare. Noi viviamo anche con delle cose che arrivano “dalla Provvidenza”, che ci offrono gratuitamente, e quindi non si può sempre programmare tutto. E poi una cosa è fare una ricetta teoricamente, altra cosa è realizzarla praticamente. Ma l’amore dei fratelli mi ha aiutato ad imparare.

La Messa quotidiana ha acquistato un sapore diverso. Ad esempio offrire il lavoro al momento dell’offertorio è una cosa molto più concreta quando ti fa male la schiena perché hai passato la mattinata chinato a zappare la terra o a levigare un legno.

Il fatto di fare i lavori di casa sempre insieme mi ha aiutato a superare il pressapochismo. Certe cose le avevo sempre fatte ma, confrontandomi con il fratello, ho scoperto che c’è un modo migliore di farle e degli errori da correggere. Non basta fare il bene, bisogna farlo bene.

 

Nelle piccole cose, affinare la vita evangelica

Col tempo, nella vita in casa o nel luogo di lavoro incontri le stesse persone tutti i giorni. Ed è naturale che ti nascano piccoli giudizi, paure, timori di essere giudicato o di non essere all’altezza, impressioni di non essere accettato o di aver commesso degli errori nei confronti degli altri, constatazioni di piccoli gesti che sono mancanze di carità, e scopri i difetti del carattere tuo e altrui...

Tutte cose che avrebbero potuto pregiudicare un rapporto di donazione totalmente libera e incondizionata. E allora il mio esercizio è stato quello di cancellare questi pensieri ad uno ad uno non appena sorgono e di donarmi a quella persona con la semplicità di un bambino, senza ma e senza se.

Una cosa che ho cercato di fare in officina era imparare i nomi di tutti, salutarli quando la cosa non li disturbava, sorridere sempre, anche con chi non sembra corrispondere. Fare un buon lavoro è importante, ma anche i rapporti sono importanti, e se si costruiscono durano più a lungo di un mobile per la cameretta di un bambino.

È stata importante l’umiltà: imparare da tutti, chiedere spiegazioni ulteriori quando non ero sicuro di aver capito bene, l’attenzione a fare le cose con cura. Bisognava capire quando era importante essere seri e quando scherzare un po’ serviva per distendere l’ambiente. Quando era bene lavorare in silenzio per essere concentrati e quando era possibile dialogare.

Bisognava essere sempre pronti ad ascoltare, essere laboriosi, fare le cose con un certo ritmo, altrimenti tutto si bloccava, perché tu non avevi ancora finito il tuo pezzo. Veramente il lavoro manuale è stato una scuola di vita.

Da un bel po’ di tempo avevo nella mia regione un mio grappolo di persone che in qualche modo sono state toccate dall’ideale dell’unità e che cerco di seguire tutt’ora. Venendo però a questo corso, ho avuto meno tempo per avere contatto con loro e accompagnarli. Ma l’episodio che racconto mi ha fatto capire che, se tu non riesci ad andare da loro, sono loro che vengono a te. Se sei nella volontà di Dio, anche se questo comporta di non riuscire a fare cose importanti, non bisogna preoccuparsi perchè ci pensa Dio a farle.

Un lunedì, diversamente dal solito, siamo andati in chiesa prima delle altre volte per recitare il rosario per la salute di Nicolas, uno di noi che era molto malato. Mentre pregavo si inginocchia vicino a me una persona appunto di quelle con le quali manteniamo rapporti da tanto: Luciano. Che sorpresa! Mi aveva mandato un SMS due giorni prima da Assisi dove era andato per “ricaricarsi spiritualmente”.

È arrivato proprio il giorno di un convegno a Loppiano sulla comunione tra i carismi nella Chiesa oggi. Tra i relatori c’era Maria Voce, conosciuta come Emmaus, l’attuale presidente del Movimento dei focolari, che ad Assisi alloggiava nella stanza accanto a lui.

"Ma tu sei a Loppiano?”, mi ha chiesto quando l’ho chiamato. “Sì”. “E dov’è?”. “A tre km dal casello di Incisa”. Nel viaggio di ritorno ha visto il cartello “Incisa” e ha deciso di passare a salutarmi.

Solo che io avevo il cellulare spento e quindi non ha potuto avvertirmi. È venuto a cercarmi in chiesa nell’unico giorno in cui io ero arrivato in anticipo, ha parcheggiato davanti al furgone che io guidavo, e tante altre piccole circostanze mi hanno fatto pensare che questa breve visita è stata pensata da Dio.

Era un dolore perchè dal 2006 lui e i nostri amici Mario e Bruno non avevano più voluto saperrne del Movimento dei focolari. Ed io avevo rispettato ovviamente questa loro scelta. Adesso Luciano è qui e partecipa ad un incontro, dove l’Ideale dell’unità viene annunciato, vede il bellissimo spettacolo su Chiara Luce Badano, e mi comunica che desidera tornare, portando con sé anche gli altri due nostri amici.

Uno dei grandi pericoli per un prete in parrocchia è quello di vivere seguendo i propri progetti, pensando di fare grandi cose e non percepire i piani di Dio. Qui ho imparato a cercare di fare meglio anche le piccole cose. Questi lavori umili mi hanno aiutato a cercare di vivere sempre per Dio e a trovarlo in tutto.

 

Non dare cose sacre, ma dare Dio

Spesso ho fatto il proposito di voler amare il prossimo, ma poi è bastata una frase che ha ferito un po’ il mio orgoglio per perdere la pace. Adesso mi accorgo quanto mi abbia fatto bene questa convivenza quotidiana con persone che appartengono a culture diverse dalla mia. È stato un esercizio continuo del cercare di entrare nell’altro che sente, pensa e reagisce diversamente da me. Adesso che mi ritrovo a contatto con persone della mia cultura, mi scopro più paziente

Nelle Messe alla Theotokos, la chiesa della cittadella di Loppiano, insieme con tutti i suoi abitanti, mi sono proprio gustato l’Eucarestia come la gustavo da laico, prima di entrare in seminario. Infatti l’Eucarestia correva il rischio per me di diventare soprattuto un momento in cui dare qualcosa alla gente. Questa esperienza mi ha stampato nell’anima che prima di tutto devo lasciarmi incontrare da Gesù in mezzo a noi, da Gesù-Parola e da Gesù-Eucarestia. Così alla gente non darò qualcosa, ma Qualcuno.

Mi hanno fatto bene questi pochi mesi, perché ho riscoperto il sacerdozio regale di ogni cristiano che dev’essere alla base del mio sacerdozio ministeriale. Il lavoro manuale mi ha fatto capire di più la vita della mia gente. Ho compreso un po’ che cos’è il weekend e il lunedì per loro. Ho capito di più che cosa significa testimoniare la fede sul luogo del lavoro.

E soprattutto, adesso, mi accorgo che vedo dal punto di vista dei laici certe rigidità che io ho avuto fino ad ora come prete – e che spero di riuscire a mettere da parte. Quante volte il mio ruolo di sacerdote, che giudica e valuta le persone, mi ha impedito di amare veramente. Prima lo avvertivo appena, ora lo vedo più chiaramente e vado a fare il parroco con la grazia di vedermi un po’ con gli occhi della gente.

Alessandro Martini