La prossimità di Dio e l’esercizio della libertà

Elezione e grazia

di Piero Coda

Pubblichiamo questa lezione magistrale (svolta in piazza!) pronunziata nel Festival della Filosofia di Modena, che nel 2010 è stato dedicato al tema della “Fortuna”. Si tratta dell’ultima riflessione, in ordine cronologico, sul rapporto tra la libertà di Dio e la libertà umana che l’Autore, consapevole di quanto sia un tema decisivo per il mondo d’oggi e per il futuro del cristianesimo, viene sviluppando da anni attraverso numerosi suoi saggi[1].

 

Fortuna o grazia?

È senz’altro suggestivo e dà molto a pensare l’accostamento tra “fortuna” e “grazia”, týche e cháris: due parole gravide di risonanze, di umana – felice o tragica – esperienza, e di collettiva – piagata o trasfigurata – vicenda della storia.

Sì, certo, si potrebbe a tutta prima e con dovizia di svolgimenti, sondare e illustrare il nesso tra le due. La fortuna, týche, essendo ciò che inaspettatamente e senza merito personalmente mi tocca, tra mille altri; ed essendo la grazia, cháris, ciò che proprio così mi è concesso: un dono, un di più, in virtù del quale l’esistenza è salvata e si apre a nuove e gratificanti espressioni.

La grazia, dunque, può esser vista come la ragione (immotivata) e il frutto (inatteso) della fortuna. Ma appesa a che cosa e da che cosa originata e, nella sua assoluta imprevedibilità, da che cosa regolata?

Non a caso, la mitologia, nella sua versione popolare, raffigura týche sotto la sembianze di quella dea bendata che, senza vedere: e cioè senza voluta intenzione e senza ponderato discernimento, distribuisce a destra e a manca, secondo un criterio che resta nascosto e tale ha da restare, i tocchi della sua grazia. Con ciò rimarcando la gratuità indecifrabile del destino a ciascuno assegnato.

La týche, in verità, risvegliando l’uomo ad afferrare, pronto e deciso, la buona sorte o a conformarsi, rassegnato e impassibile, alla cattiva, vincola la sua libertà all’esecuzione di un percorso che resta avvolto nell’abisso di ciò che è già da sempre e per sempre de-ciso, e cioè separato e distaccato dall’origine, ma solo per ritornarvi dopo breve e pre-determinato tragitto. «Volentem ducunt fata, nolentem trahunt»: i fati guidano chi si sottomette e invece trascinano chi non lo fa – sentenzia lapidaria la sapienza classica.

Uno spiraglio, nel mistero compatto e indecifrabile della grazia che decide della fortuna, si apre nell’esperienza condotta prima da Israele e poi da Gesù. Tanto da dischiudere, poco a poco e poi tutto d’un tratto, un orizzonte imprevedibile, entro il quale viene riscritta da cima a fondo la dialettica di fortuna e grazia, di destino e libertà. In forma né pacificata né pacificante, è chiaro: ma senz’altro intensa, rischiarante e provocante.

È la traccia di questo spiraglio che intendo sondare, sollecitato dal tema che mi è stato proposto – “elezione e grazia” – e dal contesto entro il quale si colloca. Un’affermazione – anch’essa concernente l’esperienza del vedere, com’è nell’immagine della dea bendata – condensa in una figura l’esperienza biblica. È Dio, il Signore, che parla e dice all’uomo: «Ti custodirò come la pupilla dei miei occhi» (cf. Dt 32, 10). L’occhio del Divino, in questa figura, non è più bendato nel distribuire il bene e il male, la buona e la cattiva sorte; ma guarda all’uomo per custodirlo come ciò che ha di più intimo e prezioso: come quando, per proteggere la pupilla dalla ferita della luce abbagliante del sole o da quella imprevista di un corpo contundente, si calano le palpebre sugli occhi.

Ma cosa c’è dietro e cosa si offre dentro quest’esperienza di avvertirsi e sapersi così guardati e custoditi? Di quale “elezione” si tratta e che cosa diventa “grazia” in questo orizzonte? e che ne è, in esso, del destino e della libertà dell’uomo?

 

Destino o libertà?

Il nostro pensiero corre subito all’apostolo Paolo e a quel formidabile testo che è la lettera ai Romani, sul quale si è concentrata – a ragione – l’attenzione di tanti, lungo la storia: da Agostino a Lutero a Karl Barth. È in questa lettera, infatti, che è tracciato a lettere indelebili il manifesto della grazia, a partire dall’evento di Gesù il Cristo, crocifisso e risorto. Ma per arrivarci e intenderne il significato, occorre prima, sia pur rapidamente, dare uno sguardo a ciò che precede propiziando quell’esplosione dell’esperienza della grazia in Cristo, di cui Paolo è testimone e annunciatore.

Ritorniamo, perciò, almeno per un attimo, al versetto del Salmo prima richiamato. Tutto prende il via dal fatto che l’antico Israele sperimenta lo sguardo benevolente (ed esigente) di Dio, il Signore. Dal momento in cui egli, il Signore, ode il grido di dolore a lui rivolto da Israele in terra d’Egitto e “scende” per liberarlo. Certamente, vi è un’elezione gratuita e immotivata, all’origine di ciò, elezione che Egli, il Signore, ha fatto del suo popolo e che verrà sigillata con un patto sul monte Oreb (cf Deut 4, 32-40).

 

Si tratta di un atto gratuito di elezione, ma al tempo stesso di un atto dimostrativo che vuol risvegliare ed educare alla coscienza condivisa, al di là delle frontiere etniche e religiose, d’esser tutti guardati da questo sguardo. Così si esprime il Salmo 32:

«Dal luogo della sua dimora

il Signore scruta tutti gli abitanti della terra,

lui che, solo, ha plasmato il loro cuore e comprende tutte le loro opere».

 

La Bibbia ebraica privilegia un termine per evocare questo peculiare atteggiamento di Dio nei riguardi dell’uomo: hen, che la versione greca dei LXX traduce appunto, per lo più, con cháris, grazia. Di che si tratta? Soprattutto due sono i contenuti che intende veicolare: da un lato, e originariamente, benevolenza, nel significato sorgivo di voler il bene dell’altro guardando a lui con simpatia e senz’invidia; dall’altro, in seconda battuta, misericordia, capacità cioè di avere un cuore tenero che sa comprendere e perdonare.

Nel nugolo di vocaboli che cercano di esprimere l’esperienza della benevolenza e della misericordia divina ve n’è poi un altro estremamente suggestivo e pregnante: rahamim. Deriva da rehem, grembo, utero. Ha perciò una connotazione femminile e materna e allude al rapporto viscerale che una madre ha con il frutto del suo grembo. Tanto che la traduzione che in lingua italiana rende l’ebraico rahamin è quel “viscere di misericordia” che ascoltiamo nella celebrazione della liturgia e che rimanda, insieme, all’atteggiamento di benevolenza e di perdono e alla sua radice e ragione: l’amore viscerale, appunto, di una madre per il proprio figlio.

Appurato ciò, dobbiamo però fissare almeno due considerazioni.

a) La prima. La percezione e la semantica ebraica della grazia in sé include una polarità originaria e quasi inestricabile, almeno a prima vista: perché misericordia vuol dire qualcosa di diverso da benevolenza.

Benevolenza, infatti, come abbiamo detto, indica il voler il bene dell’altro ed è qualcosa che connota per sé l’identità e l’agire del Dio il cui nome è Signore: e cioè «Io sono e sarò con te». Egli, dunque, vuole il bene, e solo il bene dell’altro. Ciò risuona nella maniera più chiara e maestosa nella prima pagina della Bibbia, quella della creazione. Il «sia la luce», con tutto ciò che ne segue, pronunciato da Dio, è un atto libero, gratuito, benevolo che trova riscontro nella costatazione che Dio fa a proposito dell’effetto del suo agire: «E Dio vide che era cosa buona», costatazione che dice insieme stupore e compiacimento e che diventa, nel caso della creazione dell’uomo e della donna: «E Dio vide che era cosa molto buona».

La misericordia indica, invece, da parte di Dio, l’ostinata volontà di andare al di là del ritardo e della parzialità della risposta dell’uomo alla sua benevolenza, anzi di ricominciare per propria iniziativa il rapporto quand’esso è interrotto o tradito o rifiutato. In altri termini, la misericordia intensifica l’intenzionalità gratuita e relazionale della benevolenza – il per-dono rivela l’inesauribilità libera e prodiga del dono. Nel perdono e per mezzo del perdono, addirittura, Dio dona più di quanto aveva dato e promesso. La misericordia, in una parola, rende tangibile, da un lato, quello di Dio, l’eccesso che è promesso nella benevolenza, e, dall’altro, quello dell’uomo, la misura di libertà responsoriale e responsabile che ciò correlativamente implica e promuove.

b) La seconda considerazione che s’impone concerne un’altra, formidabile antinomia che l’esperienza e la semantica ebraica della grazia per sé esibisce e provoca: quella che s’instaura, nel prodursi stesso dell’evento di grazia accolto da Israele, tra la particolarità dell’elezione e l’universalità dello sguardo di Dio, espresso, ad esempio, nella formidabile pagina genesiaca della creazione prima ricordata.

Questa antinomia, che non può non creare delle acute tensioni, è tuttavia progressivamente percepita come insuperabile: nel senso che i due poli della particolarità e dell’universalità della grazia vanno sempre tenuti insieme, costi quel che costi, per non adulterare rovinosamente il significato di imperdibile novità che l’irruzione di Dio provoca nell’esperienza e nella storia degli uomini. Così, ad esempio, se l’idea dell’elezione viene a costituire, nel libro del Deuteronomio, il principio insindacabile cui è appesa la grazia mostrata da Dio nei confronti di Israele, i profeti – da Amos a Geremia – non amano parlare di elezione, perché temono che questa idea venga intesa come «garanzia automatica di salvezza» (V. Fusco) provocando il rinchiudersi nel cerchio di quell’esclusività che implica l’esclusione di altri.

 

Gratuità di Dio in Gesù

È con questa senz’altro ricca, ma internamente persino antinomica eredità, che fa i conti la teologia dell’apostolo Paolo. Il concetto di cháris – che è assente nei vangeli sinottici, se si eccettua qualche ricorrenza in Luca, mentre nel vangelo di Giovanni è presente soltanto nel prologo (1, 14-17) – è in Paolo decisamente centrale, venendo ad esprimere al meglio il significato e la dinamica dell’evento di salvezza che, da Dio, si è gratuitamente e paradossalmente prodotto in Gesù Cristo a favore degli uomini (così H. Conzelmann).

Il fatto sul quale occorre dunque concentrare l’attenzione è precisamente la percezione e l’interpretazione che Paolo offre, nella logica della grazia e dell’elezione, dell’evento di Gesù, crocifisso e risorto, riconosciuto nella fede come Cristo e Signore. Da qui attingeranno a piene mani la teologia e la spiritualità cristiana, nelle loro molteplici e anche tra loro aspramente dialettiche espressioni. È per questo motivo che mi pare essenziale soffermarmi sulla dottrina paolina, eventualmente evidenziandone la virtualità e le tensioni che saranno successivamente dispiegate dalla pluralità della tradizione cristiana.

Ma, prima di eseguire questo compito, è necessario porsi una domanda pregiudiziale: la dottrina paolina sulla grazia in Gesù Cristo quale riscontro ha nel kerigma e nel ministero di Gesù stesso? La questione è discriminante e chiederebbe adeguato svolgimento. Mi limito, per necessità, a una considerazione che mi pare fondamentale.

Il lessico ebraico tradizionale, a lui anteriore, che descrive la grazia del Signore, e cioè la sua benevolenza e la sua misericordia, è senz’altro presente nella predicazione e nella prassi di Gesù. Basti pensare al modo di riferire in forma esclusiva l’attributo della bontà a Dio e a Dio soltanto che è tipico di Gesù: «Perché mi chiami buono? – egli risponde a quel tale che gli corre incontro, per domandargli la via da seguire per avere la vita eterna –. Nessuno è buono, se non Dio solo» (Mc 10, 18). O all’incondizionata elargizione di perdono, a nome e per autorità di Dio, di cui egli si fa interprete in mille incontri e situazioni del suo ministero («Ti sono perdonati i peccati», Mc 2, 5). Ma la cosa decisiva è che Gesù interpreta se stesso e la sua missione nei termini dell’avvento escatologico della grazia di Dio per gli uomini.

Ciò si rende palese, all’esame dell’attestazione prettamente gesuana della tradizione evangelica, nei due simboli in cui Gesù condensa la portata e il significato decisivo delle sue parole e della sua missione. Si tratta, in prima battuta e in riferimento al primo segmento del suo ministero che unanimemente la tradizione evangelica colloca in terra di Galilea, dell’avvento del Regno di Dio. Tale kerigma, e cioè tale proclamazione pubblica e solenne pur nella ferialità del suo accadere, è così condensata in Marco, il più antico dei vangeli: «Il tempo giusto è compiuto, il Regno di Dio sta venendo: cambiate il modo di giudicare le cose e affidatevi a questo annuncio» (Mc 1,14-15).

Due tratti salienti, come si evince dal contesto della narrazione, connotano il kerigma gesuano e lo specificano rispetto alla predicazione di Giovanni il Battista, che lo precede e lo prepara. In primo luogo, l’urgenza escatologica che risuona nel kerigma di Gesù e che la prassi che lo accompagna conferma. Il kairós, il tempo promesso e atteso, sta infine accadendo. In secondo luogo, questo kairós, che consiste nel prodursi della signoria efficace di Dio, ha una connotazione eminentemente positiva: non è annuncio di giudizio e di condanna, ma è euanghélion, annuncio buono di gioia, annuncio di grazia. Il vangelo di Luca mette in scena questo tratto decisivo del kerigma gesuano quando, in esordio del suo ministero nella sinagoga di Nazaret, Gesù legge dal rotolo del profeta Isaia il famoso passo messianico:

 «Lo Spirito del Signore è sopra di me;
per questo mi ha consacrato con l’unzione
e mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio,
a proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista;
a rimettere in libertà gli oppressi, a proclamare l’anno di grazia del Signore»
      
(Lc 4, 18-19; cf. Is 61, 1-2).

Letto questo passo, Gesù sentenzia: «Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato» (Lc 4, 21). La parola e l’azione di Gesù sono pertanto posti inequivocabilmente sotto il segno dell’adempimento, in lui e per mezzo di lui, dell’«anno di grazia del Signore».

Questa, sin dall’inizio, è la chiave interpretativa discriminante del ministero di Gesù in tutte le sue espressioni e nell’intero suo percorso. Nel secondo segmento della vicenda di Gesù, quello che si snoda – nel racconto stilizzato di Marco – dalla confessione di Cesarea di Filippo («la gente chi dice che io sia?… voi chi dite che io sia?»), lungo il viaggio verso Gerusalemme, sino alle vicende decisive che hanno per teatro la città santa, il simbolo dell’avvento del Regno è personalizzato e concentrato nella figura e nel destino di Gesù stesso. È allora, infatti, che Gesù si presenta come il «Figlio dell’uomo» «venuto non per essere servito, ma per servire e dare la propria vita in riscatto antì pollôn, per i molti (espressione che, nel lessico ebraico, significa “per tutti”[2])» (Mc 10, 45).

D’altra parte, la gratuità e l’universalità della grazia di Dio che in Gesù accade, mediante l’evento paradossale della sua morte di croce e di risurrezione, è coerente con la parola esplicativa di Gesù a proposito della sua prassi sconcertante (per i benpensanti) di convivialità con chi è emarginato a livello sociale e religioso: «Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati; io non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori» (Mc 2, 17).

Tutto nasce dalla gratuità benevolente e misericordiosa di quel Dio che la parabola di Gesù raffigura come il padrone che prende a giornata dei lavoratori per la sua vigna e, pur assumendoli a varie ore del giorno, alla fine inaspettatamente li paga tutti con lo stesso compenso, rispondendo a chi gli obbietta nonostante abbia ricevuto il compenso concordato:

«Io voglio dare anche a quest’ultimo quanto a te: non posso fare delle cose mie quello che voglio? Oppure tu sei invidioso perché io sono buono? Così gli ultimi saranno primi e i primi, ultimi» (Mt 20, 1-16).

 

Il dono agapico di Dio…

 Quanto sin qui detto per sottolineare la continuità tra il ministero di Gesù e la dottrina di Paolo. Tra i due, certo, vi è l’interruzione scandalosa della crocifissione di Gesù, con la quale l’ebreo di scuola farisaica Saulo dovrà fare i conti in modo addirittura lancinante. Ma saranno proprio la debolezza e la stoltezza della croce che diventeranno per lui via di accesso alla potenza e alla sapienza della grazia di Dio nascosta nella croce per essere manifestata nel dono sovrabbondante dello Spirito di giustificazione e di libertà.

Non mancano i dati, nel Nuovo Testamento, diretti e indiretti, per cogliere qualcosa di essenziale circa la genesi della dottrina paolina della grazia, che è frutto, in prima e radicale istanza, dell’incontro sconvolgente con il Cristo, crocifisso e risorto.

Il nucleo incandescente della dottrina paolina della grazia si sprigiona di qui: dal fatto che in Gesù è risuonato al mondo il “sì” (cf 2 Cor 1, 19-20) definitivo e irrevocabile dell’amore di Dio – l’agápe. Questa è la grazia di Cristo, la grazia che è – per Paolo – Cristo stesso, Cristo presente e operante nei credenti mediante il suo Spirito. È questa la conclusione cui Paolo giunge a partire dall’incontro con Gesù risorto. Nel suo evento, Paolo rinviene la chiave di lettura del disegno nascosto da secoli nella preconoscenza di Dio e infine realizzato nella pienezza dei tempi.

È dunque guardando alle cose da questo focus che Paolo argomenta il suo discorso sulla grazia con tenacia, passione e irruenza: perché lo giudica dirimente nell’annuncio del vangelo di Gesù Cristo. Nella serrata argomentazione della lettera ai Romani, infatti, l’interpretazione della cháris di Dio in Gesù Cristo consente a Paolo di riproporre in forma nuova le due antinomie che abbiamo visto connotare l’esperienza e l’intelligenza della grazia nel Primo Testamento: quella tra dono e per-dono e quella tra particolarità e universalità. Non per allentare rovinosamente i due poli di queste ineludibili tensioni, ma per esibirne l’intrinseca dinamica ed efficacia.

 

…implica l’universalità…

a) Cominciamo dalla seconda antinomia, come del resto fa Paolo. Gesù Cristo, per lui, rappresenta quella singolarità dell’evento della grazia da Dio che, resa possibile dalla particolarità del rapporto d’elezione di Israele, la apre dall’interno, sul legno della croce, all’universalità delle genti. E ciò perché, in Gesù Cristo, è esibita e attestata davanti a tutti, giudei e pagani, l’inequivocabile offerta di grazia di Dio. Nessuno può accampare pretese né meriti. L’iniziativa di Dio è assoluta, gratuita e universale. Dunque, non sono l’appartenenza al popolo d’Israele né le opere derivanti dall’osservanza della Legge data a Mosè che rendono giusti davanti a Dio. «Forse Dio è Dio soltanto dei Giudei? Non lo è anche delle genti? Certo, anche delle genti! Poiché unico è il Dio che giustificherà i circoncisi in virtù della fede e gli incirconcisi per mezzo della fede» – esclama Paolo (Rm 3, 29-30).

È questo il fatto centrale, il vangelo della grazia: «Non c’è differenza – incalza Paolo –, perché tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio, ma sono giustificati gratuitamente (doreàn, per puro dono) per la sua grazia, per mezzo della redenzione che è in Cristo Gesù» (Rm 3, 22b-24). La fede è l’apertura incondizionata a questa grazia. Essa “giustifica”, e cioè rende giusti davanti a Dio, perché è l’accoglienza del dono e del per-dono di Dio in Gesù Cristo. È Dio, dunque, che per grazia ci fa giusti, e cioè nuovi e capaci di camminare di qui innanzi nella giustizia, in conformità alla grazia ricevuta e accolta.

La grazia, in realtà, giustifica e rende liberi dal peccato (che è chiusura in sé, sino all’implosione, rispetto a Dio e agli altri) per l’amore: perché la grazia altro non è se non la sconvolgente attestazione, in Gesù Cristo, che Dio è Abbà, Padre, e che noi siamo figli. La realtà, la consapevolezza e l’esercizio di ciò sono appunto grazia, e cioè dono gratuito, non solo nel senso che sono a noi oggettivamente elargiti da e in Gesù Cristo; ma anche nel senso che la loro accoglienza in noi è frutto dello Spirito, e cioè della presenza dell’amore stesso di Dio come soffio di vita della nostra libertà. «Voi – spiega Paolo – non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto lo Spirito che rende figli adottivi, per mezzo del quale gridiamo: “Abbà, Padre!”. Lo Spirito stesso, insieme al nostro spirito, attesta che siamo figli di Dio» (Rm 8, 15-16). In questa logica, la grazia è principio di libertà: l’accende, la promuove, la esige.

 

…e il per-dono

b) Da questo focus riceve anche nuova luce l’altra antinomia, costitutiva della grazia, che a suo tempo abbiamo evidenziato: quella tra dono e per-dono. È chiaro, infatti, che il frutto primo ed evidente della grazia è il per-dono. Ma l’esperienza del per-dono altro non è che la porta per cogliere l’abissale gratuità di Dio, a cui tutto è appeso: e cioè il suo essere ed agire nel regime del dono, portato alla sua massima espressione nel dono-di-sé per costituire l’altro da sé nella capacità d’essere anch’egli se stesso nel dono di sé. La grazia rivela, dunque, per Paolo, la stupefacente legge dell’eccedenza e della sovrabbondanza che regola, con la misura senza misura della gratuità e dell’amore, l’essere e l’agire di Dio ed è chiamata a regolare, come sua immagine e somiglianza, l’essere e l’agire dell’uomo.

Di qui, infine, si fa decisamente strada, nell’intuizione teologica di Paolo, una comprensione dell’elezione che è anch’essa misurata da cima a fondo dall’esperienza e dall’intelligenza della grazia in Gesù Cristo. Non è l’elargizione della grazia a essere commisurata da un’elezione che ne predetermini i destinatari e la qualità; ma è, piuttosto, l’elezione che va commisurata sulla misura di grazia senza misura che accade in Gesù Cristo. Il principio, derivato dall’evento di Gesù Cristo, è chiaramente posto nella lettera ai Romani, soprattutto là dove Paolo, al cap. 8, parla di

«coloro che sono stati chiamati secondo il disegno di Dio»: «Poiché quelli che egli da sempre ha conosciuto, li ha anche predestinati a essere conformi all’immagine del Figlio suo, perché egli sia il primogenito tra molti fratelli» (Rm 8, 28-29).

L’essere prestabiliti o predestinati, riconosciuto per coloro che amano Dio, non va inteso nel senso di una separazione di essi da coloro che Dio eventualmente non avrebbe prestabilito e predestinato – come sarà tentata di fare una certa linea interpretativa che acquisterà non poco peso nella successiva tradizione teologica. No. I chiamati – precisa Heinrich Schlier – vengono qualificati come predestinati «perché balzi evidente come Dio ha prevenuto coloro che lo amano»; Egli, infatti, «sin dal principio ha predestinato gli uomini – e ciò risulta palese in coloro che amano Dio, che hanno risposto e rispondono alla chiamata di Dio – a divenire partecipi dell’essere di Cristo». Così che, sottolinea J. Huby :

«Questi termini esprimono l’assoluta sovranità di Dio, la trascendenza della sua bontà che non potrebbe subordinarsi ad alcuna delle sue creature, né ad alcuno dei loro atti. Nell’ordine della salvezza egli è l’Amore, l’Amore preveniente che ha la sua fonte in se stesso, non una risposta, ma uno slancio»[3].

L’elezione del Padre è «prima della creazione del mondo» (Ef 1, 4), e dunque antecede radicalmente ogni considerazione della responsabilità umana, buona o cattiva che sia, nella storia. Ma passa per la redenzione di tutti nel «sangue di Cristo» (Ef 1, 7). In lui la grazia di Dio è concessa «a caro prezzo» – per dirlo con D. Bonhoeffer –, senza alcun risparmio di sé da parte di Dio. E perciò chiede, all’uomo, un’accoglienza disarmata, certo, ma seria, attiva e responsabile. La grazia non è meritata dalle opere, ma si fa operante nella fede mediante la carità (cf. Gal 5, 6).

Del resto, sarà questa la linea interpretativa della mens di Paolo che si esprimerà nelle lettere che, appartenendo al corpus paulinum, sono da ascriversi alla tradizione che, già all’interno del Nuovo Testamento, continua e s’ispira alla dottrina di Paolo piuttosto che a Paolo stesso. Mi riferisco, in particolare, da un lato, alla prima lettera a Timoteo, là dove si afferma a chiare lettere, in una ponderata sintesi:

«Dio, nostro Salvatore, vuole che tutti gli uomini siano salvati e giungano alla conoscenza della verità. Uno solo, infatti, è Dio e uno solo anche il mediatore fra Dio e gli uomini, l’uomo Cristo Gesù, che ha dato se stesso in riscatto per tutti» (2, 4-6a);

e, dall’altro, alla lettera agli Efesini,

«(In Cristo) Dio ci ha scelti prima della creazione del mondo per essere santi e immacolati di fronte a lui nella carità, predestinandoci a essere per lui figli adottivi mediante Gesù Cristo, secondo il disegno d’amore della sua volontà a lode dello splendore della sua grazia, di cui ci ha gratificati nel Figlio amato. In lui, mediante il suo sangue, abbiamo la redenzione, il perdono delle colpe, secondo la ricchezza della sua grazia. Egli l’ha riversata in abbondanza su di noi con ogni sapienza e intelligenza, facendoci conoscere il mistero della sua volontà, secondo la benevolenza che in lui si era proposto per il governo della pienezza dei tempi: ricondurre al Cristo, unico capo, tutte le cose, quelle nei cieli e quelle sulla terra» (1, 4-10).

 

L’elezione coincide con la grazia nella libertà

 L’elezione – per concludere tornando al titolo proposto alla nostra riflessione – coincide dunque con la grazia: ne è l’espressione. Mentre la grazia è dell’elezione il principio e insieme la risoluzione. Non è quindi il caso, disposto con occhi chiusi dalla “fortuna”, ma il dono, voluto dall’amore di Dio per tutti e consegnato alla libertà di ciascuno, la grazia che ci raggiunge e che siamo chiamati ad accogliere e a vivere.

Certo, l’accogliere nell’esistenza e nell’intelligenza la grazia, con le sue inaggirabili antinomie, chiamate a dilatare all’infinito gli orizzonti della nostra libertà e del nostro amore, chiede qualcosa di radicale e di paradossale che è significato nella croce di Cristo. Simone Weil, con la sua inimitabile e lancinante parola, lo dice così: «La grazia colma, ma può entrare soltanto là dove c’è un vuoto a riceverla; e, quel vuoto, è la grazia a farlo».

 

Piero Coda



[1] Rinviamo qui soltanto a un saggio che può essere considerato una sintesi su questa tematica, svolta con rara chiarezza, profondità e originalità: «L’Avvento di Dio come libertà», postfazione a C. Cicchese – P. Coda – L. Žák, Dio e il suo avvento. Luoghi momenti figure, Città Nuova, Roma 2003, pp. 445-462.

[2] «L’espressione indeterminata “i molti” comprende una generalità che come negli scritti di Qumran designa una comunità delimitata, il nuovo popolo di Dio, la comunità, ma che può essere interpretata anche in senso universale e essere estesa al mondo delle genti. L’orientamento universale è consigliabile per la dipendenza da Is 53. Esso viene suffragato da 1Tm 2,6 (hyper pantōn)» (J. Gnilka, Marco, Cittadella Editrice, Assisi 1991, p. 575).

[3] Citato in H. Schlier, La lettera ai Romani, tr. it., Paideia Editrice, Brescia 1982, p. 450.