Gesù mi chiedeva: «Mi ami?»

di Brendan PURCELL

 

Un sacerdote dell’Irlanda condivide com’è riuscito
a vincere un periodo ricco ma sofferto di crisi affettiva
ed è giunto a una nuova e più profonda scelta del celibato.

 

Sono stato ordinato sacerdote nel 1967. Dei miei trenta compagni dieci hanno lasciato il ministero nell’arco dei primi cinque anni.

Cominciarono a vacillare anche le mie fondamenta. Avevo 28 anni. Durante un corso di tedesco a Berlino Est, mi sono innamorato di una ragazza, ex leader comunista, molto in gamba. In questo racconto la chiamerò Marta.

È nata un’amicizia profonda. Senza volerlo, mi sono trovato in un rapporto emotivamente per me molto coinvolgente, anche se – credetelo o no – è rimasto un rapporto che non si è mai espresso in gesti di tenerezza o altro. Ma ci scrivevamo molto e ci incontravamo. Ho impiegato tre anni – e devo dire col grande aiuto di Marta – ad accettare di dover interrompere questa relazione.

Quando abbiamo deciso di non vederci più, le ho domandato: «Qual è il segreto della tua vita?». Semplicemente mi ha risposto: «Amo Gesù, specialmente quando Gesù si è fatto ateo!». Io che pensavo di sapere tutto, non avevo mai sentito un’affermazione del genere.

Marta mi ha raccontato che i suoi genitori si erano divorziati quando lei aveva 15 anni. Da allora si domandava «Perché? Perché il dolore nel mondo, nella mia vita?». Una collega all’università, le aveva detto: «Il nome del nostro Dio è “perché?”». Subito Marta esclamò: «Se il nome del tuo Dio è “perché”, Egli è Quello che sto cercando da anni». Col tempo scoprì che Gesù sulla croce aveva gridato: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?». Gesù, l’Uomo-Dio, si era sentito “senza Dio” per essere vicino a lei.

In questa luce, mi ha spiegato che, perdendoci l’un l’altro, saremmo stati più profondamente uniti: proprio come Gesù, che fu più profondamente unito al Padre, quando ebbe l’impressione di “perdere” il rapporto col Padre.

Così Marta mi aiutò a fare una seconda scelta di Dio. Gesù mi chiedeva: «Mi ami?». Da allora, ho capito che essere sacerdote vuol dire soprattutto amare, essere trasparente, non poggiare su uno status o una posizione sociale.

In questi anni così difficili per la Chiesa in Irlanda, mi viene chiesto spesso di parlare alla televisione. Prima di ogni intervista, mi dico: «Non devo vincere. Devo solo amare».

Quando qualche tempo fa è uscito il primo rapporto del governo sugli abusi sessuali dei preti e religiosi, mi è stato chiesto di intervenire in un programma radio molto seguito. Ho cercato di mettermi nei panni dei bambini abusati. Invece di dire: «Guardate, io non ho fatto nulla di male, tutto questo non mi riguarda», ho parlato della vergogna e dello sgomento, prendendo su di me la colpa degli altri.

Una delle vittime partecipava a quello stesso programma. Il conduttore le ha chiesto il suo parere. Aspettavo un duro attacco contro di me. Dopo una lunga pausa, lei ha detto: «Fa bene sentire un sacerdote parlare così».