Sguardo sull’enciclica CV a partire dall’Europa

Sviluppo: questione radicalmente culturale

di Aldo Giordano

L’autore, sacerdote della diocesi di Cuneo (Italia), è stato dal 1995 al 2008 Segretario generale del Consiglio delle Conferenze Episcopali d’Europa (CCEE). Il 1° settembre 2008 ha iniziato il suo nuovo compito come Osservatore permanente della Santa Sede presso il Consiglio d’Europa a Strasburgo. Docente di filosofia e uomo di pensiero, analizza le linee fondamentali dell’enciclica attingendo dal suo ampio tesoro di esperienze in campo europeo a partire dal suo privilegiato luogo d’osservazione.

Ho letto con interesse la nuova Enciclica di Benedetto XVI, Caritas in Veritate, anche alla luce del mio servizio alla Chiesa in Europa. Diverse persone mi chiedono cosa ho visto succedere in questi anni. In modo molto sintetico potrei dire che ho notato soprattutto due grandi fenomeni.

L’«avvicinarsi»
crea nuovi problemi e chances

Il primo fenomeno che avverto è costituito dall’accelerazione della riduzione dello spazio. Un tempo il mondo era grande e lo spazio era molto ampio, mentre ora il mondo diventa sempre più piccolo e lo spazio si riduce velocemente. Sono lo sviluppo tecnico, le comunicazioni, i fenomeni migratori che riducono lo spazio.
Questa riduzione crea una situazione di tipo paradossale: quando il mondo era molto grande, le differenze tra culture e popoli esistevano, però non facevano paura, perché erano lontane, non si incontravano fra loro e c’era spazio per tutti. Le differenze apparivano “piccole”. In un tempo passato la maggioranza degli europei non sapeva neppure che la Cina esistesse, quindi la Cina non costituiva un problema. Oggi i mercati e i politici sanno molto bene che la Cina esiste, perché il mondo è diventato piccolo e quindi la Cina gioca a casa nostra o noi giochiamo in casa della Cina. Se i musulmani abitassero lontano, non creerebbero domande, invece oggi abitiamo nella stessa casa, siamo “vicini” e così scopriamo quanto siamo “lontani”, cioè diversi. Il paradosso sta proprio nel fatto che l’essere molto vicini fa vedere quanto siamo lontani, diversi.
Per questo la sfida della fraternità oggi è diventata molto più urgente di ieri. In un mondo molto grande potevamo essere anche meno fratelli, oggi abbiamo l’urgenza assoluta storica di fare una nuova scoperta della fraternità, altrimenti corriamo dei rischi enormi. Sono i rischi del terrorismo, dello scontro di civiltà, delle catastrofi belliche, della fame, della crisi energetica, del monopolio dell’acqua...
La riduzione dello spazio a livello globale ha anche favorito lo sgretolamento di spazi locali che costituivano la propria casa e la propria polis: famiglia, parrocchia, associazione, paese, patria, sistema di valori condivisi, tradizione identificata... Abbiamo bisogno di una fraternità universale che sappia concretizzarsi in una fraternità locale.

Cambiamenti sempre più veloci

L’altro fenomeno enorme è l’accelerazione della riduzione del tempo. Questo fatto appare ancor più determinante di quello relativo allo spazio. I cambiamenti sono sempre più veloci. Sono soprattutto le scienze e la tecnica che impongono con rapidità incredibile nuove situazioni e nuovi problemi. Quando ho iniziato nel 1995 il servizio in Europa pochissime Conferenze episcopali avevano una commissione di esperti di bioetica per discutere di embrioni, cellule staminali, clonazione… Ora è una priorità per ogni Conferenza, dato che i temi in gioco toccano la stessa visione della persona umana e il suo futuro.
La velocità artificiale dei cambiamenti ha portato a perdere i ritmi che scandivano il tempo, ereditati dalla tradizione e legati alle vicende della natura: dell’anno, delle stagioni, delle settimane. È indicativa la crisi della domenica. Più in profondità ancora il tempo si é ridotto perché si sono sgretolate le stesse dimensioni del tempo. Il passato è entrato in crisi soprattutto con il ‘68 che ha contestato la tradizione, i valori, le verità, le istituzioni del passato. In realtà tendiamo a obliare il passato perché il passato ci mostra che tutto, anche ciò che è più sacro, passa e cade inesorabilmente nel nulla. Il futuro é entrato in crisi davanti al problema ambientale, la crisi finanziaria, l’annebbiarsi del senso. Ma anche l’oblio del futuro è legato alla coscienza che l’unico futuro certo è quello della morte. Ci resta il presente, ma esso è “fuggente” e in fondo non esiste, in quanto è solo passaggio dal futuro al passato: il tentativo di fermare il presente è fallimentare.
Sull’europeo di oggi sembra che il cielo si sia chiuso. Siamo costretti ai limiti del terrestre, a speranze “corte”. È la questione del tempo e dell’Eterno.

L’enciclica affronta queste sfide

Benedetto XVI si colloca in questo contesto e ascolta queste sfide. Il primo contributo dell’enciclica mi sembra proprio quello di aprire davanti a noi l’orizzonte in cui situare i temi e i problemi sociali con cui siamo confrontati. Spesso davanti ad un problema abbiamo questo atteggiamento: studiamo il problema, discutiamo il problema, vogliamo risolverlo... e in questo modo il problema si avvicina sempre più ai nostri occhi e si ingigantisce sempre più, fino a coprire tutto l’orizzonte del nostro sguardo. Il problema diviene l’unica cosa esistente. L’orizzonte si chiude e viene meno la luce.
Se invece sappiamo allontanare il problema dai nostri occhi per collocarlo all’interno dell’orizzonte, il problema innanzitutto si rimpicciolisce e si relativizza, situandosi nella rete a cui appartiene. In questo modo il nostro sguardo non è bloccato esclusivamente dal problema e resta libero per vedere dove stanno veramente le radici del problema e dove siano le soluzioni possibili. Spesso le radici non sono dentro il problema, ma sono altrove nella rete e là occorre intervenire. Soprattutto lo sguardo può ancora vedere i volti delle altre persone che possono concorrere a risolvere la questione, sradicandoci dalla solitudine. Chi non ha un orizzonte sopravvaluta e ingigantisce ciò che gli sta più vicino.
Caritas in Veritate mostra che l’orizzonte oggi in gioco per i problemi storici sociali che dobbiamo affrontare è il mondo che vive la riduzione dello spazio e del tempo, è la fraternità universale, ma è anche la questione antropologica, l’etica, il senso del nostro esistere e del nostro agire e soprattutto la trascendenza.

Dalla frammentazione
ad uno sviluppo integrale

Il tema del documento pontificio è ereditato direttamente dalla Populorum Progressio di Paolo VI, ma in modo allargato: lo sviluppo umano integrale. L’accento è chiaramente posto sull’aggettivo integrale.
Una pagina di Friedrich Nietzsche, contenuta nel suo Così parlò Zarathustra, mi sembra esprimere in modo emblematico il problema serio con cui il Papa si confronta. Zarathustra, fondatore dell’antica religione, che Nietzsche rimette in scena, è circondato da una turba di storpi, handicappati e mendicanti che gli chiedono di essere guariti, ma egli replica che la sua esperienza gli ha insegnato che non è la cosa peggiore il fatto che ad uno manchi un occhio ad un altro un orecchio o qualcos’altro ed afferma:
«Io vedo e ho visto ben di peggio...: uomini cioè cui manca tutto, se non che hanno una sola cosa di troppo – uomini che non sono nient’altro se non un grande occhio o una grande bocca o un grande ventre o qualcos’altro di grande, – costoro, io li chiamo storpi alla rovescia. E quando venni dalla mia solitudine e per la prima volta passai da questo ponte: non potevo credere agli occhi miei, e guardai, guardai ancora e alla fine dissi: “questo è un orecchio! un orecchio grande quanto un uomo!”. Guardai meglio: e, realmente, sotto l’orecchio si muoveva una coserella piccola e misera e stentata da far pietà. In verità, l’orecchio mostruoso poggiava su di un piccolo esile stelo, – ma lo stelo era un uomo! ...
In verità, amici, io mi aggiro in mezzo agli uomini come in mezzo a frammenti e membra di uomini! E questo è spaventoso ai miei occhi: trovare l’uomo in frantumi e sparpagliato come su un campo di battaglia e di macello...
Io passo in mezzo agli uomini, come in mezzo a frammenti dell’avvenire: di quell’avvenire che io contemplo. E il senso di tutto il mio operare è che io immagini come un poeta e ricomponga in uno ciò che è frammento ed enigma e orrida casualità»1.
Questa pagina mi ha sempre impressionato. La più radicale tentazione dell’umanità nasce sempre dal frammentare il volto dell’essere umano in pezzi per poi sceglierne un frammento, una parte, e ingigantirla “ideologicamente” fino a farla diventare il tutto. Il risultato è mostruoso: è sparita l’armonia, la bellezza, l’umanità. Questo è anche violenza, perché quando una parte (come l’occhio) – che in sé è vera e bella come contributo per la bellezza del tutto – pretende di essere il tutto, deve fuoriuscire dal suo campo, occupare tutto lo spazio e quindi eliminare le altre dimensioni che sono altrettanto umane e importanti.
Questo grave rischio è presente innanzitutto nelle visioni antropologiche che riducono l’essere umano o solo a materia, o solo a corpo, o solo a spirito, o solo a lavoro, o solo a sessualità, o solo a ragione, o solo a tecnica, etc.... È presente tra le scienze, quando una scienza pretende di dire l’intera verità sull’uomo. Caritas in Veritate si confronta in particolare con la neurologia, le biotecnologie, la bioetica (nn. 74-76). Ma il rischio è anche presente nelle politiche dove un duce, un gruppo, un partito, un’etnia, una razza, pretende di essere tutta la realtà e quindi, ovviamente, deve eliminare in modo totalitario ogni alterità e differenza.
Anche l’economia rischia questa deriva. Sistemi economici basati solo sul profitto, solo sulla finanza, solo sulla tecnica, hanno creato dei “vincenti” della modernità, ma anche dei “perdenti”: le persone più deboli, gli “inutili”, gli emarginati... D’altra parte nella storia recente abbiamo assistito allo spegnimento delle capacità creative per opera di sistemi che hanno imposto unilateralmente il collettivo.
Caritas in Veritate spinge ad andare oltre ogni posizione ideologica, unilaterale, frammentata, per ritrovare l’unità, la ricchezza integrale dell’umano. La sfida più alta per l’agire sociale-economico è quella di considerare la persona umana come soggetto e fine dello sviluppo, di servire lo sviluppo «di tutto l’uomo e di tutti gli uomini» (n. 18).

Oltre il relativismo

L’enciclica è una sfida a pensare. Dalle osservazioni precedenti, risulta che lo sviluppo è anche radicalmente questione culturale. La nostra cultura appare oggi tentata in particolare dal relativismo, l’ideologia che sostiene che non esiste nulla che abbia il carattere di assolutezza e di immutabilità, ma che tutto è “relativo” alle persone, al tempo, ai luoghi, alle concrete situazioni. Cioè: non ci sono un vero e un falso, un buono e un cattivo, validi universalmente e assolutamente, ma il vero e il buono, il falso e il cattivo possono mutare o essere diversi in quanto dipendono dalle epoche, dalle circostanze e in particolare dalla libera decisione dell’individuo o dal suo sentire. In realtà siamo tutti ben coscienti che una gran parte delle azioni umane e delle realtà della vita, ad un certo livello, sono “relative”, cioè dipendenti dalle diverse epoche, dalle culture e dalle circostanze, ma il problema del relativismo è l’affermazione che “nulla” è assoluto, che non esiste alcuna dimensione di assolutezza e di universalità. «Si va costituendo una dittatura del relativismo che non riconosce nulla come definitivo e che lascia come ultima misura solo il proprio io e le sue voglie»2.
Questa ideologia è divenuta un modo di vivere, una prassi, che troviamo presente in molti ambiti e che ha diversi volti.
Un primo ambito dove emerge la questione del relativismo è quello della morale o dell’etica. Il bene e il male sono realtà oggettive, assolute, non mutabili, oppure sono “relative” ai cambiamenti della storia, alla nostra libertà e decisione? Quando in Europa discutiamo dei valori ci troviamo abbastanza d’accordo nello stendere la lista di essi, nel farne l’elenco.
Anche nel Trattato costituzionale dell’Unione europea (Lisbona) si parla di «rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani». Possiamo essere contenti di un’Europa che vuole fondarsi su questi valori. Ma la questione non è così semplice. Il problema grave per il capitolo dei valori è il fatto che rischiamo una vuota retorica, cioè abbiamo un consenso sulle parole, sui nomi dei valori, ma non sul loro contenuto, sul loro fondamento e sulla loro interpretazione. Nel nome dello stesso valore in Europa si possono sostenere posizioni del tutto contrarie: per esempio, la dignità umana viene citata sia contro l’aborto e l’eutanasia, sia a favore dell’aborto e dell’eutanasia. Cosa significa allora dignità umana?
Se passiamo all’ambito del vivere sociale e della politica, si pone la domanda: i diritti e i doveri che sono alla base della convivenza, hanno un fondamento oggettivo, assoluto, razionale, oppure il loro contenuto si perde nell’anarchia delle interpretazioni perché è “relativo” alle diverse religioni, culture, filosofie, ideologie, economie? I diritti e doveri sono solo relativi all’esigenza pragmatica che hanno gli esseri umani di mettersi d’accordo su delle regole condivise per rendere il viaggio della vita sopportabile, con meno incidenti possibili? I diritti e i doveri hanno un valore in se stessi oppure sono relativi alla decisione dei legislatori? Su cosa si potrebbe fondare un organismo universale come l’ONU o il Consiglio d’Europa se non ci fossero valori, diritti e principi stabili e universali che hanno il medesimo contenuto per tutta l’umanità? Come possiamo procedere nella costruzione dell’unità europea se non abbiamo valori, diritti e principi validi per tutti i paesi europei? Come trovare un fondamento che obblighi l’Europa all’assunzione di responsabilità per le grandi sfide planetarie come l’ambiente, la pace, la fame?
Anche la domanda sul senso dell’esistenza umana può dissolversi nel relativismo. Oggi in Europa sono nuovamente e chiaramente udibili le domande esistenziali di fondo: esiste un senso oggettivo, stabile, assoluto al vivere e alla storia, oppure non esiste “il senso della vita”, ma esistono piuttosto vari, piccoli e brevi sensi, relativi alla riuscita nella vita, al piacere, alle emozioni, alla fortuna, al destino? C’è un vero, un bene, un bello a cui posso affidare la mia vita in grado di rispondere al mio assoluto desiderio di vita, di felicità, di festa, di affetto e di eternità, oppure devo accontentarmi dei brevi, passeggeri, relativi, momenti di felicità e di amore che la vita può riservare? Il dolore e la morte sono l’ultima parola per l’essere umano e come tali la relativizzazione di ogni mio desiderio, in quanto mostrano il finale non senso della vita? Non dobbiamo dimenticarci che ogni anno in Europa muoiono circa 50.000 persone per suicidio e che in una quindicina di paesi europei la più alta percentuale di morte dei giovani è costituita dal suicidio. Se il senso della vita è “relativo”, merita ancora vivere, quando la vita mostra la sua durezza?
Il relativismo pone anche una domanda radicale al mondo del sapere e del conoscere. La ragione umana è capace di cogliere la verità della realtà, di conoscere le cose come esse sono veramente e oggettivamente, oppure la conoscenza del reale è esclusivamente relativa al punto di vista degli individui, dei soggetti, delle interpretazioni, delle sensazioni, delle correnti di pensiero? Ancora più radicalmente: la verità delle cose è relativa ad una singola scienza che pretende di dire tutta la verità della realtà?
Un campo evidente del regno del relativismo è quello dei media. Esistono oggettivamente i fatti, la realtà, i valori, la verità, oppure i fatti, la realtà, i valori, la verità, sono relativi ai media, in quanto sono creati dai media? I media sono a servizio dei fatti, oppure i creatori dei fatti?
Caritas in Veritate affronta tutti questi capitoli e apre un cammino per andare oltre il relativismo.

Amore e Verità

Per aprire l’orizzonte, indicare il cammino dello sviluppo integrale, superare il relativismo, occorre partire da un riferimento assoluto che è anche l’“inizio” della dottrina sociale della Chiesa e quindi della nuova enciclica: l’Amore e la Verità. Il primo pericoloso dualismo che occorre superare è quello tra Amore e Verità. In Dio essi coincidono: Dio è «insieme Agape e Logos: Carità e Verità, Amore e Parola» (n. 3). «La carità nella verità… è la principale forza propulsiva per il vero sviluppo di ogni persona e dell’umanità intera» (n. 1).
Per la Rivelazione cristiana la carità è “tutto”, «la carità è la via maestra della dottrina sociale della Chiesa», «la sintesi di tutta la Legge», «il dono più grande» (n. 2). Ma se si separa la Carità dalla Verità, si rischia di cadere in una comprensione povera della Carità, riducendola a sentimentalismo, guscio vuoto, preda delle emozioni e delle opinioni contingenti (cf n. 3). In questo modo essa viene facilmente considerata irrilevante «in ambito sociale, giuridico, culturale, politico, economico» (n. 2) e così lasciata ai margini. La verità dà luce, senso, valore, contenuto, all’amore (cf n. 3). La verità in particolare dona all’amore l’universalità, la rilevanza pubblica, la capacità di comunicazione: «La verità, infatti, è “logos” che crea “dia-logos” e quindi comunicazione e comunione» (n. 4). «Caritas in Veritate è il principio attorno a cui ruota la dottrina sociale della Chiesa» (n. 6). La dottrina sociale è aperta alla verità, da qualsiasi sapere provenga, e vuole comporre «in unità i frammenti in cui spesso la ritrova» (n. 9).

Soggetto e fine dello sviluppo

La Caritas in Veritate afferma innanzi- tutto il valore incondizionato della persona umana e della sua dignità (cf n. 18). L’essere umano è autore, centro e fine di tutta la vita economica-sociale e di ogni sviluppo (cf n. 24) e la questione sociale diventa sempre più una questione antropologica (cf n. 75). Occorre avere il coraggio di interrogarsi seriamente sulla essenza e natura dell’essere umano come questione decisiva, per scoprirne la vocazione (cf n. 16), la verità (cf n. 18), la libertà (cf n. 17), la responsabilità (cf n. 70), la natura (cf n. 61). Davanti alle nuove sfide occorre un nuovo umanesimo (cf n. 19) che affermi la centralità della persona umana (cf n. 47) e il suo primato sulla tecnica (cf n. 14), sul profitto (cf n. 25), sulla natura (cf n. 48), sulle strutture... L’essere umano è sempre il primo capitale da salvare (cf n. 25). Occorre dare alla pace, allo sviluppo, all’ecologia, ai media... un senso profondamente umano (cf nn. 71-72).
Un aspetto che ha interpellato i commentatori dell’enciclica è stata la chiarezza con cui il Papa ha indicato l’esigenza di considerare come interdipendenti e in unità le dimensioni dell’esistere e dell’agire umani.
Non si possono più considerare in modo separato le questioni del lavoro, dell’economia, della politica, della vita, della demografia, della salute, della famiglia, della religione, della tecnica, dell’ambiente, delle scienze... Occorre una “fraternità” tra le dimensioni dell’esistere umano, come tra i saperi. La sorpresa è stata il trovare in un enciclica sociale capitoli dedicati alla bioetica, alla sessualità, alla famiglia... Già Paolo VI aveva considerate legate fra loro le encicliche sociali e l’Humanae vitae e l’Evangelii nuntiandi, cosciente della correlazione irrinunciabile tra etica sociale ed etica della vita, tra l’evangelizzazione e la promozione umana (n. 15).
L’agire umano va considerato in modo unitario nella sua complessità e ricchezza. Lo sviluppo non è solo questione economica e tecnologica, ma è intrinsecamente legato a tutte le dimensioni dell’esistere. La mancanza di apertura alla vita e la visione povera della sessualità costituiscono un problema sociale grave, basta pensare alla crisi demografica dell’Occidente (n. 43). La crisi della famiglia corrode la prima cellula della società (n. 43). Lo sviluppo richiede la libertà religiosa (n. 29), la responsabilità per l’ambiente (n. 48), la cura dell’educazione (n. 61), l’uso dei media finalizzato all’umanizzazione (n. 73).
La dottrina sociale della Chiesa ha come base un’antropologia che considera e rispetta tutte le dimensioni della persona umana, senza riduzioni, impoverimenti, frammentazioni.
La minaccia allo sviluppo che il Papa considera in particolare è quella che viene oggi dall’ideologia tecnologica e scientifica che tende a negare la dimensione spirituale e la libertà (n. 76). Nella critica all’ideologia scientista il Papa ha avuto autorevoli predecessori, forse poco ascoltati. Husserl, in La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, critica la pretesa per cui la verità scientifica è l’unica verità valida ed il mondo descritto dalle scienze è l’unico mondo e la vera realtà: «Nella miseria della nostra vita... questa scienza non ha niente da dirci. Essa esclude per principio quei problemi che sono i più scottanti per l’uomo, il quale nei nostri tempi tormentati, si sente in balia del destino: i problemi del senso e del non senso dell’esistenza umana nel suo complesso»3.
Anche per il Wittgenstein del Tractatus il senso del mondo deve trovarsi oltre le scienze: «Noi sentiamo che se pure tutte le domande possibili della scienza ricevessero una risposta, i problemi della nostra vita non sarebbero nemmeno sfiorati»4.
Le scienze sono un contributo essenziale, ma non conoscono tutto il reale, in particolare non sanno istituire il problema veritativo.
La sfida nei confronti della concezione dell’essere umano viene oggi in particolare dalle neuroscienze che studiano il funzionamento del cervello umano e spiegano il cervello come un insieme di processi neuronali. In realtà non c’è nessun problema nel fatto che queste scienze spieghino in questo modo il cervello, anzi esse offrono un contributo importante per conoscere la persona umana dal punto di vista biologico. Il problema nasce quando queste scienze non accettano di essere uno dei contributi per la conoscenza della persona umana, lasciando spazio per altri ambiti del conoscere, ma pretendono di dire loro tutto sulla persona umana. In questo modo le neuroscienze diventano una neurofilosofia o anche una neuroteologia che pretende di dire la verità totale dell’essere umano e anche indicare la sua salvezza!
È questa neurofilosofia che, riducendo il cervello e la persona a meri processi biologici, vuole persuadere sulla visione solo naturalistica e materialistica della persona umana, sulla non esistenza di alcun io, sulla negazione di ogni trascendenza del soggetto, sulla “misurabilità” e “manipolabilità” dell’essere umano. Esso è una macchina che funziona così perché è fatta così. In questa visione la libertà, la colpa, la responsabilità divengono pura illusione. Soprattutto davanti a queste sfide si parla di una “nuova questione antropologica”: l’essere umano in se stesso è messo in questione (Cf cap. VI).
Diventa essenziale raggiungere una interazione e unità tra i saperi (n. 30). La frammentazione dei saperi costituisce oggi un problema deleterio. Occorre ricuperare una ragione con un ampio orizzonte per essere in grado di conoscere l’ampiezza e la profondità del reale, senza pericolose semplificazioni. Occorre una nuova collaborazione tra scienze e fede-teologia, tra scienze e morale, tra scienze e metafisica (cf nn. 30-33). In sintesi, per evitare le unilateralità è decisivo rilanciare il dialogo tra fede e ragione (cf n. 74), tra sapere e saggezza: la carità è intrinseca al sapere (n. 30).

La globalizzazione

La mondializzazione o globalizzazione fa esplodere l’interdipendenza planetaria (cf n. 33); crea nuovi confini tra povertà e ricchezza (cf n. 22); fa emergere nuovi regioni nel gioco politico economico mondiale (cf n. 23); costringe a ripensare il ruolo dei poteri politici (cf n. 24); crea interrogativi al mercato mondiale (cf n. 25); mette in crisi reti tradizionali di solidarietà (cf n. 25)...
Nuovi problemi globali esigono una nuova responsabilità globale (n. 50) e nuovi protagonisti della globalizzazione (cf n. 42) per realizzare una solidarietà universale (n. 43), in particolare tra paesi sviluppati e paesi in via di sviluppo (cf n. 49). Protagonisti devono essere le politiche che hanno la responsabilità di realizzare una governanza mondiale (cf n. 57), ma altrettanto responsabili sono i credenti delle varie religioni (cf n. 55), i credenti e i non credenti (cf n. 57), la finanza (cf n. 65), i mezzi di comunicazione sociale (cf n. 73), i sindacati (cf n. 64), i migranti (cf n. 62), gli operatori del turismo (cf n. 61). La situazione storica esige l’orizzonte della fraternità universale. La categoria teologica della fraternità è introdotta da Benedetto XVI come centrale nella sua enciclica e come capace di rispondere alle grandi sfide di un mondo globalizzato. Essa è entrata nel titolo del terzo capitolo del documento.
Scrive Benedetto XVI: «La globalizzazione è fenomeno multidimensionale o polivalente, che esige di essere colto nella diversità e nell’unità di tutte le sue dimensioni, compresa quella teologica. Ciò consentirà di vivere e orientare la globalizzazione dell’umanità in termini di relazionalità, di comunione e di condivisione» (n. 42). Il concetto di fraternità è caro alla teologia di Ratzinger che già nel 1960 aveva pubblicato un lavoro con il titolo: Die christliche Brüderlichkeit5.
Il mondo ha urgenza di fraternità (n. 20); l’umanità va vista come famiglia (n. 53), occorre una metafisica della relazionalità (n. 55). Ma di che tipo di fraternità abbiamo bisogno? Cerco di ridire la tesi di Caritas in Veritate (n. 57), attraverso un racconto classico.
È una pagina del famoso autore greco Eschilo, tratta dall’opera I Persiani. È il sogno della regina Atossa. Ella vede due donne, alte di statura, molto belle, sorelle di sangue, ma in lotta fra loro. Una ha abiti dorici, europei, l’altra ha abiti persiani, asiatici. Il gran re Serse cerca invano di porre termine alla lotta fra le due sorelle, soggiogandole al suo carro per farlo tirare. La sorella con abiti persiani (l’Asia) accetta volentieri il giogo e tira il carro del re, l’altra, con abiti dorici (l’Europa) non accetta le briglie e il giogo e si attiva per sbalzare il re dal carro. L’Europa non accetta le briglie e tenta la via della libertà, della differenza, delle distinzioni, della democrazia, cioè la via dell’affermazione dell’unicità dei singoli volti, delle singole culture. L’Asia invece accetta il giogo del gran re, cioè accetta la legge del tutto, dell’assoluto, dell’indistinto. Purché viva il tutto, l’io può anche essere sacrificato.
Eschilo commenta: in fondo “dormono”, cioè sbagliano, sia l’Europa che l’Asia. Sbaglia l’Asia perché rinunciando alla libertà e alle differenze, cadrà inesorabilmente in un sistema totalitario che spegnerà i singoli volti. Ma ha problemi anche l’Europa, perché la via unilaterale delle distinzioni, delle libertà, la porterà all’anarchia, alla lotta fratricida: le differenze di popoli e di cultura entreranno in lotta fra di loro.
Abbiamo bisogno di una fraternità che da una parte sia capace di fare di noi una convivenza, una polis, una città unica, ma dall’altra sia capace di costruire una polis non totalitaria, cioè una città dove l’io sia rispettato, dove l’io sia libero e il volto di ciascuno possa realizzarsi.

Allargare il concetto di sviluppo

La categoria della fraternità richiede un allargamento dell’orizzonte dello sviluppo sociale-economico, perché possa essere a servizio della realizzazione umana «di tutto l’uomo e di tutti gli uomini» (n. 18). Anche a questo livello occorre ritrovare una nuova correlazione e unità tra economia, coesione sociale, democrazia, sistema costituzionale, stato di diritto, diritti umani (cf n. 31); tra mercato, stato e società civile, secondo il principio di sussidiarietà; tra i protagonisti dell’impresa (cf n. 40); tra mercato, finanza, microfinanza, sindacati, consumo... (cf n. 65) e soprattutto tra mercato, fiducia, trasparenza, onestà, bene comune, coscienza morale, responsabilità, rapporti umani, amicizia, solidarietà. Per l’ambito sociale-economico Benedetto XVI introduce la straordinaria novità della categoria del dono e della gratuità: «Nei rapporti mercantili il principio di gratuità e la logica del dono come espressione della fraternità possono e devono trovare posto entro la normale attività economica. Ciò è un’esigenza dell’uomo nel momento attuale, ma anche un’esigenza della stessa ragione economica. Si tratta di una esigenza ad un tempo della carità e della verità» (n. 36); «Nell’epoca della globalizzazione, l’attività economica non può prescindere dalla gratuità, che dissemina e alimenta la solidarietà e la responsabilità per la giustizia e il bene comune nei suoi vari soggetti e attori» (n. 38). Conseguenza della categoria del dono e della gratuità è il rilievo dato dal Papa al ruolo della società civile. Il solo dualismo tra Stato e mercato, corrode la socialità (cf n. 39), ma anche il concetto di società civile va allargato perché diventi spazio per le nuove esperienze di economia di comunione (cf nn. 39.46) e imprese con scopi mutualistici e sociali (cf nn. 38-39), opere marcate dallo spirito del dono (cf n. 37).

L’orizzonte teologico

Quale allora la sorgente di una fraternità che risponda all’enorme sfida della economia e della politica del mondo di oggi e non ricada nelle tragedie violente sempre sperimentate nella storia? In conclusione è importante ridire che l’interesse principale di Benedetto XVI è quello di restituire Dio al mondo. È Dio la sorgente della fraternità. È la luce del Vangelo che guida ogni pagina di Caritas in Veritate. La realtà sociale ed economica è guardata in ultimo con gli occhi della fede. L’eclisse di Dio è l’eclisse del bene dell’essere umano (cf n. 18).
L’intenzione di Benedetto XVI è quella di riaprire il Cielo sul mondo, l’orizzonte della Trascendenza (cf n. 29). Dio abbia un posto anche nella sfera pubblica (n. 56), perché è il garante del vero sviluppo (cf n. 29). Non c’è un umanesimo vero senza apertura all’Assoluto che dona l’idea vera della vita umana (cf n. 16). È il Cristo che manifesta pienamente l’uomo a se stesso (cf n. 18). Questo è il plus che la Chiesa può offrire al mondo (cf n. 77).
La realtà è vista nell’enciclica con gli occhi di Dio: l’essere umano è immagine di Dio (cf n. 45); la natura è creazione (cf n. 48); la famiglia umana trova il suo ultimo fondamento nella Trinità stessa (n. 54); la causa ultima del male sociale è il peccato; l’orizzonte ultimo dello sviluppo è la vita eterna (cf n. 11). Vedere la realtà con gli occhi della fede, significa vedere la vita come vocazione e scoprire che il primato è sempre il dono da ricevere. L’amore, la verità, la fraternità sono doni gratuiti da invocare: «Lo sviluppo ha bisogno di cristiani con le braccia alzate verso Dio nel gesto della preghiera» (n. 79). Caritas in Veritate è un testo teologico; la dottrina sociale è annuncio e testimonianza della fede e del Vangelo; la fede cristiana ha un ruolo fondamentale nell’agenda internazionale.

Aldo Giordano

 

1)    F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra. Della redenzione, Adelphi, Milano 1996, pp. 160-162.

2)    J. Ratzinger, Omelia della Messa Pro eligendo Romano Pontefice, 18 aprile 2005.

3)    E. Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, Il Saggiatore, Milano 1961, p. 35.

4)    L. Wittgenstein, Tractatus Logico-philosophicus, Einaudi, Torino 1964, prop.6.

5)    Cf R. Gibellini, “Caritas in Veritate”. L’Enciclica della fraternità universale, in “L’Osservatore Romano”, 1 novembre 2009, p. 1.