Sguardo sull’enciclica CV a partire dall’Europa
Sviluppo: questione radicalmente culturale
di Aldo Giordano
L’autore, sacerdote della diocesi di Cuneo (Italia), è stato dal 1995 al 2008 Segretario generale del Consiglio delle Conferenze Episcopali d’Europa (CCEE). Il 1° settembre 2008 ha iniziato il suo nuovo compito come Osservatore permanente della Santa Sede presso il Consiglio d’Europa a Strasburgo. Docente di filosofia e uomo di pensiero, analizza le linee fondamentali dell’enciclica attingendo dal suo ampio tesoro di esperienze in campo europeo a partire dal suo privilegiato luogo d’osservazione.
Ho letto con interesse la nuova Enciclica di Benedetto XVI, Caritas in Veritate, anche alla luce del mio servizio alla Chiesa in Europa. Diverse persone mi chiedono cosa ho visto succedere in questi anni. In modo molto sintetico potrei dire che ho notato soprattutto due grandi fenomeni.
L’«avvicinarsi»
crea nuovi problemi e chances
Il primo fenomeno che avverto è costituito
dall’accelerazione della riduzione dello spazio. Un tempo il mondo era grande e
lo spazio era molto ampio, mentre ora il mondo diventa sempre più piccolo e lo
spazio si riduce velocemente. Sono lo sviluppo tecnico, le comunicazioni, i
fenomeni migratori che riducono lo spazio.
Questa riduzione crea una situazione di tipo paradossale:
quando il mondo era molto grande, le differenze tra culture e popoli
esistevano, però non facevano paura, perché erano lontane, non si incontravano
fra loro e c’era spazio per tutti. Le differenze apparivano “piccole”. In un
tempo passato la maggioranza degli europei non sapeva neppure che la Cina esistesse, quindi la Cina non costituiva un problema. Oggi i mercati e i politici sanno
molto bene che la Cina esiste, perché il mondo è diventato piccolo e quindi la Cina gioca a casa nostra o noi giochiamo in casa della Cina. Se i musulmani abitassero
lontano, non creerebbero domande, invece oggi abitiamo nella stessa casa, siamo
“vicini” e così scopriamo quanto siamo “lontani”, cioè diversi. Il paradosso
sta proprio nel fatto che l’essere molto vicini fa vedere quanto siamo lontani,
diversi.
Per questo la sfida della fraternità oggi è diventata molto
più urgente di ieri. In un mondo molto grande potevamo essere anche meno
fratelli, oggi abbiamo l’urgenza assoluta storica di fare una nuova scoperta
della fraternità, altrimenti corriamo dei rischi enormi. Sono i rischi del
terrorismo, dello scontro di civiltà, delle catastrofi belliche, della fame,
della crisi energetica, del monopolio dell’acqua...
La riduzione dello spazio a livello globale ha anche
favorito lo sgretolamento di spazi locali che costituivano la propria casa e la
propria polis: famiglia, parrocchia, associazione, paese, patria,
sistema di valori condivisi, tradizione identificata... Abbiamo bisogno di una
fraternità universale che sappia concretizzarsi in una fraternità locale.
Cambiamenti sempre più veloci
L’altro fenomeno enorme è l’accelerazione della riduzione
del tempo. Questo fatto appare ancor più determinante di quello relativo allo
spazio. I cambiamenti sono sempre più veloci. Sono soprattutto le scienze e la
tecnica che impongono con rapidità incredibile nuove situazioni e nuovi
problemi. Quando ho iniziato nel 1995 il servizio in Europa pochissime
Conferenze episcopali avevano una commissione di esperti di bioetica per
discutere di embrioni, cellule staminali, clonazione… Ora è una priorità per
ogni Conferenza, dato che i temi in gioco toccano la stessa visione della
persona umana e il suo futuro.
La velocità artificiale dei cambiamenti ha portato a
perdere i ritmi che scandivano il tempo, ereditati dalla tradizione e legati
alle vicende della natura: dell’anno, delle stagioni, delle settimane. È
indicativa la crisi della domenica. Più in profondità ancora il tempo si é
ridotto perché si sono sgretolate le stesse dimensioni del tempo. Il passato è
entrato in crisi soprattutto con il ‘68 che ha contestato la tradizione, i
valori, le verità, le istituzioni del passato. In realtà tendiamo a obliare il
passato perché il passato ci mostra che tutto, anche ciò che è più sacro, passa
e cade inesorabilmente nel nulla. Il futuro é entrato in crisi davanti al
problema ambientale, la crisi finanziaria, l’annebbiarsi del senso. Ma anche
l’oblio del futuro è legato alla coscienza che l’unico futuro certo è quello
della morte. Ci resta il presente, ma esso è “fuggente” e in fondo non esiste,
in quanto è solo passaggio dal futuro al passato: il tentativo di fermare il
presente è fallimentare.
Sull’europeo di oggi sembra che il cielo si sia chiuso.
Siamo costretti ai limiti del terrestre, a speranze “corte”. È la questione del
tempo e dell’Eterno.
L’enciclica affronta queste sfide
Benedetto XVI si colloca in questo contesto e ascolta
queste sfide. Il primo contributo dell’enciclica mi sembra proprio quello di
aprire davanti a noi l’orizzonte in cui situare i temi e i problemi sociali con
cui siamo confrontati. Spesso davanti ad un problema abbiamo questo
atteggiamento: studiamo il problema, discutiamo il problema, vogliamo
risolverlo... e in questo modo il problema si avvicina sempre più ai nostri
occhi e si ingigantisce sempre più, fino a coprire tutto l’orizzonte del nostro
sguardo. Il problema diviene l’unica cosa esistente. L’orizzonte si chiude e
viene meno la luce.
Se invece sappiamo allontanare il problema dai nostri occhi
per collocarlo all’interno dell’orizzonte, il problema innanzitutto si
rimpicciolisce e si relativizza, situandosi nella rete a cui appartiene. In
questo modo il nostro sguardo non è bloccato esclusivamente dal problema e
resta libero per vedere dove stanno veramente le radici del problema e dove
siano le soluzioni possibili. Spesso le radici non sono dentro il problema, ma
sono altrove nella rete e là occorre intervenire. Soprattutto lo sguardo può
ancora vedere i volti delle altre persone che possono concorrere a risolvere la
questione, sradicandoci dalla solitudine. Chi non ha un orizzonte sopravvaluta
e ingigantisce ciò che gli sta più vicino.
Caritas in Veritate mostra che l’orizzonte oggi in
gioco per i problemi storici sociali che dobbiamo affrontare è il mondo che
vive la riduzione dello spazio e del tempo, è la fraternità universale, ma è
anche la questione antropologica, l’etica, il senso del nostro esistere e del
nostro agire e soprattutto la trascendenza.
Dalla frammentazione
ad uno sviluppo integrale
Il tema del documento pontificio è ereditato direttamente
dalla Populorum Progressio di Paolo VI, ma in modo allargato: lo
sviluppo umano integrale. L’accento è chiaramente posto sull’aggettivo
integrale.
Una pagina di Friedrich Nietzsche, contenuta nel suo Così
parlò Zarathustra, mi sembra esprimere in modo emblematico il problema
serio con cui il Papa si confronta. Zarathustra, fondatore dell’antica
religione, che Nietzsche rimette in scena, è circondato da una turba di storpi,
handicappati e mendicanti che gli chiedono di essere guariti, ma egli replica
che la sua esperienza gli ha insegnato che non è la cosa peggiore il fatto che
ad uno manchi un occhio ad un altro un orecchio o qualcos’altro ed afferma:
«Io vedo e ho visto ben di peggio...: uomini cioè cui manca
tutto, se non che hanno una sola cosa di troppo – uomini che non sono
nient’altro se non un grande occhio o una grande bocca o un grande ventre o
qualcos’altro di grande, – costoro, io li chiamo storpi alla rovescia. E quando
venni dalla mia solitudine e per la prima volta passai da questo ponte: non
potevo credere agli occhi miei, e guardai, guardai ancora e alla fine dissi:
“questo è un orecchio! un orecchio grande quanto un uomo!”. Guardai meglio: e,
realmente, sotto l’orecchio si muoveva una coserella piccola e misera e
stentata da far pietà. In verità, l’orecchio mostruoso poggiava su di un
piccolo esile stelo, – ma lo stelo era un uomo! ...
In verità, amici, io mi aggiro in mezzo agli uomini come in
mezzo a frammenti e membra di uomini! E questo è spaventoso ai miei occhi:
trovare l’uomo in frantumi e sparpagliato come su un campo di battaglia e di
macello...
Io passo in mezzo agli uomini, come in mezzo a frammenti
dell’avvenire: di quell’avvenire che io contemplo. E il senso di tutto il mio
operare è che io immagini come un poeta e ricomponga in uno ciò che è frammento
ed enigma e orrida casualità»1.
Questa pagina mi ha sempre impressionato. La più radicale
tentazione dell’umanità nasce sempre dal frammentare il volto dell’essere umano
in pezzi per poi sceglierne un frammento, una parte, e ingigantirla
“ideologicamente” fino a farla diventare il tutto. Il risultato è mostruoso: è
sparita l’armonia, la bellezza, l’umanità. Questo è anche violenza, perché
quando una parte (come l’occhio) – che in sé è vera e bella come contributo per
la bellezza del tutto – pretende di essere il tutto, deve fuoriuscire dal suo
campo, occupare tutto lo spazio e quindi eliminare le altre dimensioni che sono
altrettanto umane e importanti.
Questo grave rischio è presente innanzitutto nelle visioni
antropologiche che riducono l’essere umano o solo a materia, o solo a corpo, o
solo a spirito, o solo a lavoro, o solo a sessualità, o solo a ragione, o solo
a tecnica, etc.... È presente tra le scienze, quando una scienza pretende di
dire l’intera verità sull’uomo. Caritas in Veritate si confronta in
particolare con la neurologia, le biotecnologie, la bioetica (nn. 74-76). Ma il
rischio è anche presente nelle politiche dove un duce, un gruppo, un partito,
un’etnia, una razza, pretende di essere tutta la realtà e quindi, ovviamente,
deve eliminare in modo totalitario ogni alterità e differenza.
Anche l’economia rischia questa deriva. Sistemi economici
basati solo sul profitto, solo sulla finanza, solo sulla tecnica, hanno creato
dei “vincenti” della modernità, ma anche dei “perdenti”: le persone più deboli,
gli “inutili”, gli emarginati... D’altra parte nella storia recente abbiamo
assistito allo spegnimento delle capacità creative per opera di sistemi che
hanno imposto unilateralmente il collettivo.
Caritas in Veritate spinge ad andare oltre ogni
posizione ideologica, unilaterale, frammentata, per ritrovare l’unità, la
ricchezza integrale dell’umano. La sfida più alta per l’agire sociale-economico
è quella di considerare la persona umana come soggetto e fine dello sviluppo,
di servire lo sviluppo «di tutto l’uomo e di tutti gli uomini» (n. 18).
Oltre il relativismo
L’enciclica è una sfida a pensare. Dalle osservazioni
precedenti, risulta che lo sviluppo è anche radicalmente questione culturale.
La nostra cultura appare oggi tentata in particolare dal relativismo,
l’ideologia che sostiene che non esiste nulla che abbia il carattere di
assolutezza e di immutabilità, ma che tutto è “relativo” alle persone, al
tempo, ai luoghi, alle concrete situazioni. Cioè: non ci sono un vero e un
falso, un buono e un cattivo, validi universalmente e assolutamente, ma il vero
e il buono, il falso e il cattivo possono mutare o essere diversi in quanto
dipendono dalle epoche, dalle circostanze e in particolare dalla libera
decisione dell’individuo o dal suo sentire. In realtà siamo tutti ben coscienti
che una gran parte delle azioni umane e delle realtà della vita, ad un certo
livello, sono “relative”, cioè dipendenti dalle diverse epoche, dalle culture e
dalle circostanze, ma il problema del relativismo è l’affermazione che “nulla”
è assoluto, che non esiste alcuna dimensione di assolutezza e di universalità.
«Si va costituendo una dittatura del relativismo che non riconosce nulla come
definitivo e che lascia come ultima misura solo il proprio io e le sue
voglie»2.
Questa ideologia è divenuta un modo di vivere, una prassi,
che troviamo presente in molti ambiti e che ha diversi volti.
Un primo ambito dove emerge la questione del relativismo è
quello della morale o dell’etica. Il bene e il male sono realtà oggettive,
assolute, non mutabili, oppure sono “relative” ai cambiamenti della storia,
alla nostra libertà e decisione? Quando in Europa discutiamo dei valori ci
troviamo abbastanza d’accordo nello stendere la lista di essi, nel farne
l’elenco.
Anche nel Trattato costituzionale dell’Unione europea
(Lisbona) si parla di «rispetto della dignità umana, della libertà, della
democrazia, dell’uguaglianza, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti
umani». Possiamo essere contenti di un’Europa che vuole fondarsi su questi
valori. Ma la questione non è così semplice. Il problema grave per il capitolo
dei valori è il fatto che rischiamo una vuota retorica, cioè abbiamo un consenso
sulle parole, sui nomi dei valori, ma non sul loro contenuto, sul loro
fondamento e sulla loro interpretazione. Nel nome dello stesso valore in Europa
si possono sostenere posizioni del tutto contrarie: per esempio, la dignità
umana viene citata sia contro l’aborto e l’eutanasia, sia a favore dell’aborto
e dell’eutanasia. Cosa significa allora dignità umana?
Se passiamo all’ambito del vivere sociale e della politica,
si pone la domanda: i diritti e i doveri che sono alla base della convivenza,
hanno un fondamento oggettivo, assoluto, razionale, oppure il loro contenuto si
perde nell’anarchia delle interpretazioni perché è “relativo” alle diverse
religioni, culture, filosofie, ideologie, economie? I diritti e doveri sono
solo relativi all’esigenza pragmatica che hanno gli esseri umani di mettersi
d’accordo su delle regole condivise per rendere il viaggio della vita
sopportabile, con meno incidenti possibili? I diritti e i doveri hanno un
valore in se stessi oppure sono relativi alla decisione dei legislatori? Su
cosa si potrebbe fondare un organismo universale come l’ONU o il Consiglio
d’Europa se non ci fossero valori, diritti e principi stabili e universali che
hanno il medesimo contenuto per tutta l’umanità? Come possiamo procedere nella
costruzione dell’unità europea se non abbiamo valori, diritti e principi validi
per tutti i paesi europei? Come trovare un fondamento che obblighi l’Europa
all’assunzione di responsabilità per le grandi sfide planetarie come
l’ambiente, la pace, la fame?
Anche la domanda sul senso dell’esistenza umana può
dissolversi nel relativismo. Oggi in Europa sono nuovamente e chiaramente
udibili le domande esistenziali di fondo: esiste un senso oggettivo, stabile,
assoluto al vivere e alla storia, oppure non esiste “il senso della vita”, ma
esistono piuttosto vari, piccoli e brevi sensi, relativi alla riuscita nella
vita, al piacere, alle emozioni, alla fortuna, al destino? C’è un vero, un
bene, un bello a cui posso affidare la mia vita in grado di rispondere al mio
assoluto desiderio di vita, di felicità, di festa, di affetto e di eternità,
oppure devo accontentarmi dei brevi, passeggeri, relativi, momenti di felicità
e di amore che la vita può riservare? Il dolore e la morte sono l’ultima parola
per l’essere umano e come tali la relativizzazione di ogni mio desiderio, in
quanto mostrano il finale non senso della vita? Non dobbiamo dimenticarci che
ogni anno in Europa muoiono circa 50.000 persone per suicidio e che in una
quindicina di paesi europei la più alta percentuale di morte dei giovani è
costituita dal suicidio. Se il senso della vita è “relativo”, merita ancora
vivere, quando la vita mostra la sua durezza?
Il relativismo pone anche una domanda radicale al mondo del
sapere e del conoscere. La ragione umana è capace di cogliere la verità della
realtà, di conoscere le cose come esse sono veramente e oggettivamente, oppure
la conoscenza del reale è esclusivamente relativa al punto di vista degli
individui, dei soggetti, delle interpretazioni, delle sensazioni, delle
correnti di pensiero? Ancora più radicalmente: la verità delle cose è relativa
ad una singola scienza che pretende di dire tutta la verità della realtà?
Un campo evidente del regno del relativismo è quello dei
media. Esistono oggettivamente i fatti, la realtà, i valori, la verità, oppure
i fatti, la realtà, i valori, la verità, sono relativi ai media, in quanto sono
creati dai media? I media sono a servizio dei fatti, oppure i creatori dei
fatti?
Caritas in Veritate affronta tutti questi capitoli e
apre un cammino per andare oltre il relativismo.
Amore e Verità
Per aprire l’orizzonte, indicare il cammino dello sviluppo
integrale, superare il relativismo, occorre partire da un riferimento assoluto
che è anche l’“inizio” della dottrina sociale della Chiesa e quindi della nuova
enciclica: l’Amore e la Verità. Il primo pericoloso dualismo che occorre
superare è quello tra Amore e Verità. In Dio essi coincidono: Dio è «insieme Agape
e Logos: Carità e Verità, Amore e Parola» (n. 3). «La carità nella
verità… è la principale forza propulsiva per il vero sviluppo di ogni persona e
dell’umanità intera» (n. 1).
Per la Rivelazione cristiana la carità è “tutto”, «la
carità è la via maestra della dottrina sociale della Chiesa», «la sintesi di
tutta la Legge», «il dono più grande» (n. 2). Ma se si separa la Carità dalla Verità, si rischia di cadere in una comprensione povera della Carità,
riducendola a sentimentalismo, guscio vuoto, preda delle emozioni e delle
opinioni contingenti (cf n. 3). In questo modo essa viene facilmente considerata
irrilevante «in ambito sociale, giuridico, culturale, politico, economico» (n.
2) e così lasciata ai margini. La verità dà luce, senso, valore, contenuto,
all’amore (cf n. 3). La verità in particolare dona all’amore l’universalità, la
rilevanza pubblica, la capacità di comunicazione: «La verità, infatti, è “logos”
che crea “dia-logos” e quindi comunicazione e comunione» (n. 4). «Caritas
in Veritate è il principio attorno a cui ruota la dottrina sociale della
Chiesa» (n. 6). La dottrina sociale è aperta alla verità, da qualsiasi sapere
provenga, e vuole comporre «in unità i frammenti in cui spesso la ritrova» (n.
9).
Soggetto e fine dello sviluppo
La Caritas in Veritate afferma innanzi- tutto
il valore incondizionato della persona umana e della sua dignità (cf n. 18).
L’essere umano è autore, centro e fine di tutta la vita economica-sociale e di
ogni sviluppo (cf n. 24) e la questione sociale diventa sempre più una
questione antropologica (cf n. 75). Occorre avere il coraggio di interrogarsi
seriamente sulla essenza e natura dell’essere umano come questione decisiva,
per scoprirne la vocazione (cf n. 16), la verità (cf n. 18), la libertà (cf n.
17), la responsabilità (cf n. 70), la natura (cf n. 61). Davanti alle nuove
sfide occorre un nuovo umanesimo (cf n. 19) che affermi la centralità della
persona umana (cf n. 47) e il suo primato sulla tecnica (cf n. 14), sul
profitto (cf n. 25), sulla natura (cf n. 48), sulle strutture... L’essere umano
è sempre il primo capitale da salvare (cf n. 25). Occorre dare alla pace, allo
sviluppo, all’ecologia, ai media... un senso profondamente umano (cf nn.
71-72).
Un aspetto che ha interpellato i commentatori
dell’enciclica è stata la chiarezza con cui il Papa ha indicato l’esigenza di
considerare come interdipendenti e in unità le dimensioni dell’esistere e
dell’agire umani.
Non si possono più considerare in modo separato le
questioni del lavoro, dell’economia, della politica, della vita, della
demografia, della salute, della famiglia, della religione, della tecnica, dell’ambiente,
delle scienze... Occorre una “fraternità” tra le dimensioni dell’esistere
umano, come tra i saperi. La sorpresa è stata il trovare in un enciclica
sociale capitoli dedicati alla bioetica, alla sessualità, alla famiglia... Già
Paolo VI aveva considerate legate fra loro le encicliche sociali e l’Humanae
vitae e l’Evangelii nuntiandi, cosciente della correlazione
irrinunciabile tra etica sociale ed etica della vita, tra l’evangelizzazione e
la promozione umana (n. 15).
L’agire umano va considerato in modo unitario nella sua
complessità e ricchezza. Lo sviluppo non è solo questione economica e
tecnologica, ma è intrinsecamente legato a tutte le dimensioni dell’esistere.
La mancanza di apertura alla vita e la visione povera della sessualità costituiscono
un problema sociale grave, basta pensare alla crisi demografica dell’Occidente
(n. 43). La crisi della famiglia corrode la prima cellula della società (n.
43). Lo sviluppo richiede la libertà religiosa (n. 29), la responsabilità per
l’ambiente (n. 48), la cura dell’educazione (n. 61), l’uso dei media
finalizzato all’umanizzazione (n. 73).
La dottrina sociale della Chiesa ha come base
un’antropologia che considera e rispetta tutte le dimensioni della persona
umana, senza riduzioni, impoverimenti, frammentazioni.
La minaccia allo sviluppo che il Papa considera in
particolare è quella che viene oggi dall’ideologia tecnologica e scientifica
che tende a negare la dimensione spirituale e la libertà (n. 76). Nella critica
all’ideologia scientista il Papa ha avuto autorevoli predecessori, forse poco
ascoltati. Husserl, in La crisi delle scienze europee e la fenomenologia
trascendentale, critica la pretesa per cui la verità scientifica è l’unica
verità valida ed il mondo descritto dalle scienze è l’unico mondo e la vera
realtà: «Nella miseria della nostra vita... questa scienza non ha niente da
dirci. Essa esclude per principio quei problemi che sono i più scottanti per
l’uomo, il quale nei nostri tempi tormentati, si sente in balia del destino: i
problemi del senso e del non senso dell’esistenza umana nel suo complesso»3.
Anche per il Wittgenstein del Tractatus il senso del
mondo deve trovarsi oltre le scienze: «Noi sentiamo che se pure tutte le
domande possibili della scienza ricevessero una risposta, i problemi della
nostra vita non sarebbero nemmeno sfiorati»4.
Le scienze sono un contributo essenziale, ma non conoscono
tutto il reale, in particolare non sanno istituire il problema veritativo.
La sfida nei confronti della concezione dell’essere umano
viene oggi in particolare dalle neuroscienze che studiano il funzionamento del
cervello umano e spiegano il cervello come un insieme di processi neuronali. In
realtà non c’è nessun problema nel fatto che queste scienze spieghino in questo
modo il cervello, anzi esse offrono un contributo importante per conoscere la
persona umana dal punto di vista biologico. Il problema nasce quando queste
scienze non accettano di essere uno dei contributi per la conoscenza della
persona umana, lasciando spazio per altri ambiti del conoscere, ma pretendono
di dire loro tutto sulla persona umana. In questo modo le neuroscienze
diventano una neurofilosofia o anche una neuroteologia che pretende di dire la
verità totale dell’essere umano e anche indicare la sua salvezza!
È questa neurofilosofia che, riducendo il cervello e la
persona a meri processi biologici, vuole persuadere sulla visione solo
naturalistica e materialistica della persona umana, sulla non esistenza di
alcun io, sulla negazione di ogni trascendenza del soggetto, sulla “misurabilità”
e “manipolabilità” dell’essere umano. Esso è una macchina che funziona così
perché è fatta così. In questa visione la libertà, la colpa, la responsabilità
divengono pura illusione. Soprattutto davanti a queste sfide si parla di una
“nuova questione antropologica”: l’essere umano in se stesso è messo in
questione (Cf cap. VI).
Diventa essenziale raggiungere una interazione e unità tra
i saperi (n. 30). La frammentazione dei saperi costituisce oggi un problema
deleterio. Occorre ricuperare una ragione con un ampio orizzonte per essere in
grado di conoscere l’ampiezza e la profondità del reale, senza pericolose
semplificazioni. Occorre una nuova collaborazione tra scienze e fede-teologia,
tra scienze e morale, tra scienze e metafisica (cf nn. 30-33). In sintesi, per
evitare le unilateralità è decisivo rilanciare il dialogo tra fede e ragione
(cf n. 74), tra sapere e saggezza: la carità è intrinseca al sapere (n. 30).
La globalizzazione
La mondializzazione o globalizzazione fa esplodere
l’interdipendenza planetaria (cf n. 33); crea nuovi confini tra povertà e
ricchezza (cf n. 22); fa emergere nuovi regioni nel gioco politico economico
mondiale (cf n. 23); costringe a ripensare il ruolo dei poteri politici (cf n.
24); crea interrogativi al mercato mondiale (cf n. 25); mette in crisi reti
tradizionali di solidarietà (cf n. 25)...
Nuovi problemi globali esigono una nuova responsabilità
globale (n. 50) e nuovi protagonisti della globalizzazione (cf n. 42) per
realizzare una solidarietà universale (n. 43), in particolare tra paesi
sviluppati e paesi in via di sviluppo (cf n. 49). Protagonisti devono essere le
politiche che hanno la responsabilità di realizzare una governanza mondiale
(cf n. 57), ma altrettanto responsabili sono i credenti delle varie religioni
(cf n. 55), i credenti e i non credenti (cf n. 57), la finanza (cf n. 65), i
mezzi di comunicazione sociale (cf n. 73), i sindacati (cf n. 64), i migranti
(cf n. 62), gli operatori del turismo (cf n. 61). La situazione storica esige
l’orizzonte della fraternità universale. La categoria teologica della
fraternità è introdotta da Benedetto XVI come centrale nella sua enciclica e
come capace di rispondere alle grandi sfide di un mondo globalizzato. Essa è
entrata nel titolo del terzo capitolo del documento.
Scrive Benedetto XVI: «La globalizzazione è fenomeno
multidimensionale o polivalente, che esige di essere colto nella diversità e
nell’unità di tutte le sue dimensioni, compresa quella teologica. Ciò
consentirà di vivere e orientare la globalizzazione dell’umanità in termini
di relazionalità, di comunione e di condivisione» (n. 42). Il concetto di
fraternità è caro alla teologia di Ratzinger che già nel 1960 aveva pubblicato
un lavoro con il titolo: Die christliche Brüderlichkeit5.
Il mondo ha urgenza di fraternità (n. 20); l’umanità va
vista come famiglia (n. 53), occorre una metafisica della relazionalità (n.
55). Ma di che tipo di fraternità abbiamo bisogno? Cerco di ridire la tesi di Caritas
in Veritate (n. 57), attraverso un racconto classico.
È una pagina del famoso autore greco Eschilo, tratta
dall’opera I Persiani. È il sogno della regina Atossa. Ella vede due
donne, alte di statura, molto belle, sorelle di sangue, ma in lotta fra loro.
Una ha abiti dorici, europei, l’altra ha abiti persiani, asiatici. Il gran re
Serse cerca invano di porre termine alla lotta fra le due sorelle,
soggiogandole al suo carro per farlo tirare. La sorella con abiti persiani
(l’Asia) accetta volentieri il giogo e tira il carro del re, l’altra, con abiti
dorici (l’Europa) non accetta le briglie e il giogo e si attiva per sbalzare il
re dal carro. L’Europa non accetta le briglie e tenta la via della libertà,
della differenza, delle distinzioni, della democrazia, cioè la via
dell’affermazione dell’unicità dei singoli volti, delle singole culture. L’Asia
invece accetta il giogo del gran re, cioè accetta la legge del tutto,
dell’assoluto, dell’indistinto. Purché viva il tutto, l’io può anche essere
sacrificato.
Eschilo commenta: in fondo “dormono”, cioè sbagliano, sia
l’Europa che l’Asia. Sbaglia l’Asia perché rinunciando alla libertà e alle
differenze, cadrà inesorabilmente in un sistema totalitario che spegnerà i
singoli volti. Ma ha problemi anche l’Europa, perché la via unilaterale delle
distinzioni, delle libertà, la porterà all’anarchia, alla lotta fratricida: le
differenze di popoli e di cultura entreranno in lotta fra di loro.
Abbiamo bisogno di una fraternità che da una parte sia
capace di fare di noi una convivenza, una polis, una città unica, ma
dall’altra sia capace di costruire una polis non totalitaria, cioè una città
dove l’io sia rispettato, dove l’io sia libero e il volto di ciascuno possa
realizzarsi.
Allargare il concetto di sviluppo
La categoria della fraternità richiede un allargamento dell’orizzonte dello sviluppo sociale-economico, perché possa essere a servizio della realizzazione umana «di tutto l’uomo e di tutti gli uomini» (n. 18). Anche a questo livello occorre ritrovare una nuova correlazione e unità tra economia, coesione sociale, democrazia, sistema costituzionale, stato di diritto, diritti umani (cf n. 31); tra mercato, stato e società civile, secondo il principio di sussidiarietà; tra i protagonisti dell’impresa (cf n. 40); tra mercato, finanza, microfinanza, sindacati, consumo... (cf n. 65) e soprattutto tra mercato, fiducia, trasparenza, onestà, bene comune, coscienza morale, responsabilità, rapporti umani, amicizia, solidarietà. Per l’ambito sociale-economico Benedetto XVI introduce la straordinaria novità della categoria del dono e della gratuità: «Nei rapporti mercantili il principio di gratuità e la logica del dono come espressione della fraternità possono e devono trovare posto entro la normale attività economica. Ciò è un’esigenza dell’uomo nel momento attuale, ma anche un’esigenza della stessa ragione economica. Si tratta di una esigenza ad un tempo della carità e della verità» (n. 36); «Nell’epoca della globalizzazione, l’attività economica non può prescindere dalla gratuità, che dissemina e alimenta la solidarietà e la responsabilità per la giustizia e il bene comune nei suoi vari soggetti e attori» (n. 38). Conseguenza della categoria del dono e della gratuità è il rilievo dato dal Papa al ruolo della società civile. Il solo dualismo tra Stato e mercato, corrode la socialità (cf n. 39), ma anche il concetto di società civile va allargato perché diventi spazio per le nuove esperienze di economia di comunione (cf nn. 39.46) e imprese con scopi mutualistici e sociali (cf nn. 38-39), opere marcate dallo spirito del dono (cf n. 37).
L’orizzonte teologico
Quale allora la sorgente di una fraternità che risponda
all’enorme sfida della economia e della politica del mondo di oggi e non ricada
nelle tragedie violente sempre sperimentate nella storia? In conclusione è
importante ridire che l’interesse principale di Benedetto XVI è quello di
restituire Dio al mondo. È Dio la sorgente della fraternità. È la luce del
Vangelo che guida ogni pagina di Caritas in Veritate. La realtà sociale ed
economica è guardata in ultimo con gli occhi della fede. L’eclisse di Dio è
l’eclisse del bene dell’essere umano (cf n. 18).
L’intenzione di Benedetto XVI è quella di riaprire il Cielo
sul mondo, l’orizzonte della Trascendenza (cf n. 29). Dio abbia un posto anche
nella sfera pubblica (n. 56), perché è il garante del vero sviluppo (cf n. 29).
Non c’è un umanesimo vero senza apertura all’Assoluto che dona l’idea vera
della vita umana (cf n. 16). È il Cristo che manifesta pienamente l’uomo a se
stesso (cf n. 18). Questo è il plus che la Chiesa può offrire al mondo (cf n. 77).
La realtà è vista nell’enciclica con gli occhi di Dio:
l’essere umano è immagine di Dio (cf n. 45); la natura è creazione (cf n. 48);
la famiglia umana trova il suo ultimo fondamento nella Trinità stessa (n. 54);
la causa ultima del male sociale è il peccato; l’orizzonte ultimo dello
sviluppo è la vita eterna (cf n. 11). Vedere la realtà con gli occhi della
fede, significa vedere la vita come vocazione e scoprire che il primato è
sempre il dono da ricevere. L’amore, la verità, la fraternità sono doni gratuiti
da invocare: «Lo sviluppo ha bisogno di cristiani con le braccia alzate verso
Dio nel gesto della preghiera» (n. 79). Caritas in Veritate è un testo
teologico; la dottrina sociale è annuncio e testimonianza della fede e del
Vangelo; la fede cristiana ha un ruolo fondamentale nell’agenda internazionale.
Aldo Giordano
1) F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra. Della redenzione, Adelphi, Milano 1996, pp. 160-162.
2) J. Ratzinger, Omelia della Messa Pro eligendo Romano Pontefice, 18 aprile 2005.
3) E. Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, Il Saggiatore, Milano 1961, p. 35.
4) L. Wittgenstein, Tractatus Logico-philosophicus, Einaudi, Torino 1964, prop.6.
5) Cf R. Gibellini, “Caritas in Veritate”. L’Enciclica della fraternità universale, in “L’Osservatore Romano”, 1 novembre 2009, p. 1.