Figura, vita e spiritualità del sacerdote oggi

Sacerdote e psicologo, Silvano Cola,è stato non solo attento osservatore della realtà socio-culturale contemporanea ma anche esperto di patristica con un’ampia produzione letteraria all’attivo. Da questa duplice prospettiva di lettura è nato questo intervenuto al Congresso «Uno perché tutti siano uno» che ha riunito a Castel Gandolfo 900 seminaristi provenienti da 72 nazioni. Riportiamo il suo contributo nella forma originaria di appunti. (da gen’s 4-5 1995, pp. 173-175).

Crisi d’identità a pochi anni dall’ordinazione

Accostandoci al nostro  tema, non possiamo non prendere in considerazione le difficoltà del sacerdote nell’attuale società.

L’immagine ideale del sacerdote, come ci viene dalla memoria storica e forse anche da una certa formazione, si scontra con il principio della realtà: non siamo più dei leaders ascoltati solo perché siamo sacerdoti che dicono: questo bisogna credere, questo biso­gna fare, questo è peccato.

Il principio della Chiesa-comunione affermato dal Vaticano II ci mette in difficoltà perché richiede di lavorare con i laici e quindi di dialogare con loro, e sapere stare anche noi in ascolto. Ma pensarlo o dirlo è facile; farlo risulta molto più difficile.

La mancanza di leadership sul piano sociale mette in crisi anche la coscienza del mandato che da Gesù Cristo abbiamo ricevuto tramite l’ordinazione sacerdotale. Ne segue spesso la ricerca di una compensazione col fare una quantità di attività per sentirci utili. Ma quando ci si accorge che si spende cento per produrre uno, arrivano lo scoraggiamento e lo stress, e cominciano i dubbi: avrò sbagliato vocazione? Il celibato è veramente un valore? Possibile che al sacerdote venga negato di avere una famiglia?

Senso di solitudine, dunque, a livello profondo, aumentato dalla precarietà della vita quotidiana (mancanza di orari, di privacy, di possibilità di comunione intima con chi ci può capire...).

A questo si aggiunge la difficoltà pastorale nel trasmettere il magistero del Papa e dei vescovi, con conseguente tensione psicologica nei confronti dell’autorità, incomprensione dell’obbedienza, e ricerca di altre compensazioni di evasio­ne...

Si potrebbe continuare. Sono difficoltà vere, e sarebbe poco saggio minimizzarle pensando: “a me non succederà”.

Ma perché questo discorso? Perché ci serve ad inquadrare meglio la figura del sacerdote, e ringraziare Dio per tutte queste difficoltà che ci possono aiutare ad essere più simili all’unico sacerdote Gesù.

Il sacerdozio di Gesù

Dio si fa uomo fra gli uomini. «Cristo Gesù... non conservò gelosamente il suo essere uguale a Dio, ma rinunziò a tutto e diventò come un servo, uomo tra gli uomini... Abbassò se stesso, e fu ubbidiente fino alla morte di croce» (cf Fil 2, 6-8).

Anche Gesù ha ricevuto un “mandato”, e ne parla proprio a proposito del suo esse-re pastore (Gv 10, 16-18): il mandato di dare la sua vita per noi.

Non un mandato, di potere, ma di servizio estremo: farsi uno con noi fino a provare lui stesso e prendere su di sé il nostro abbandono di Dio.

La kenosis di Cristo, il suo totale spo­gliamento di sé, è però anche la vita per l’enosis, per unirci a Dio.

L’espressione massima della kenosis è l’Eucaristia, dove lui si dona come pane che mangiamo per farci “concorporei”, un solo corpo in lui, e immergerci con sé in Dio: per divinizzarci.

È questo stesso “mandato” che Gesù trasmette ai sacerdoti: «continuate a fare voi per gli uomini ciò che ho fatto io». Per questo agiamo in persona Christi. Ecco la figura del sacerdote.

Vivere insieme l’unico sacerdozio di Cristo

La peggiore distorsione che possiamo fare è di confondere l’io sacerdotale con un ruolo di leadership sociale. L’io del sacerdote è lo stesso “io” di Cristo nella sua kenosis, quando con l’abbandono e la morte in croce genera la chiesa come enosis, come comunione.

Ma Paolo, nella stessa Lettera rivolta anche ai vescovi e diaconi di Filippi dice: «Abbiate tra voi gli stessi sentimenti che avete nei confronti di Cristo». In questa frase è riassunta tutta la vita cristiana: si tratta di vivere “alla Trinità”. Il rapporto che vogliamo avere con Gesù non è diverso dal rapporto che dobbiamo avere tra noi.

Chiara, in una pagina che resterà storica, parla del passaggio da una spiritualità individuale a una spiritualità collettiva, quando afferma che il «farci nulla» di fronte a Dio (il Tutto), condizione per realizzare l’unione con lui (Giovanni della Croce), dobbiamo realizzarlo anche nei confronti del prossimo nel quale abita lo stesso Dio. È così che posso amare Dio per Dio, e non Dio per me.

I consigli evangelici

Se la spiritualità individuale è concepibile anche senza una pratica dei consigli evangelici di povertà, castità e obbedienza, per la spiritualità collettiva non è così.

I consigli evangelici non danno di per sé la santità, se vissuti individualisticamente: possono anche degenerare in vizi. Nella spiritualità collettiva, invece, non si può vivere l’unità («che siano uno») senza vivere i consigli.

Il modello è ancora Gesù abbandonato: lui è il povero (ha perso tutto), il casto (ha perso anche la Madre in terra e il Padre in Cielo), l’obbediente (fino alla morte in croce). Gesù abbandonato è il culmine nello stesso tempo della personalità umana, della libertà: è l’Io ridotto a puro amore di donazione, al di là di ogni certezza e di ogni gratificazione. Amarci a vicenda come lui ci ha amati, questa è la misura: non si può essere una cosa sola se non si è liberi, ossia non legati, non condizionati da alcunché (attaccamento a beni, a persone, a se stessi).

Ma chi fa questa esperienza evangelica sa che le promesse di Gesù sono vere: «dove due o tre... ivi è Gesù», e con lui c’è il centuplo sia in beni materiali (provvidenza) che in fratelli e sorelle e case... e la coincidenza della mia volontà con quella di Gesù fra noi.

Qui si capisce Maria. Il suo atteggiamento di «serva del Signore» nei confronti di Dio e, nella vita di casa, nei confronti di Gesù e Giuseppe, è la conditio senza la quale non è possibile né generare Gesù in mezzo a noi, né generare la comunità. È lei il modello, il tipo del sacerdozio: sacerdozio vitale, anche senza «mandato». E se il nostro mandato non si innesta su quel sacerdozio mariano, il nostro sacerdozio ordinato è sterile: non genera la comunità.

Il celibato

Allora si capisce anche il celibato. Esso non è rinuncia alla famiglia. Se Dio, che è Amore, ha creato il matrimonio come espressione e immagine della sua vita trinitaria, perché dovrebbe privare il sacerdote di una cosa «buona»? La realtà è che Dio non toglie niente a nessuno, ma rivolge un invito ad alcuni a vivere in una famiglia più bella, quale era la famiglia di Nazareth e poi la famiglia che si è formato con gli apostoli, i quali potevano dire: «Signore, da chi andremo noi? Tu solo hai parole di vita eterna».

Anche il prete ha bisogno di una famiglia e ne sentirà evidentemente la privazione, se non riesce a realizzarla tra sacerdoti, con Gesù, il sacerdote in mezzo a loro. In questo tipo di famiglia la solitudine non la sente proprio. Sul Tabor, Pietro, Giacomo e Giovanni pensavano forse alla moglie o ai parenti? Anzi, «facciamo qui tre tende...». Ecco la nostra famiglia.

La pastorale

Il problema della pastorale è strettamente legato alla domanda sociologica: qual è il miglior sistema di vita sociale in cui posso essere felice?

Da una meditazione di Chiara Lubich: il Verbo facendosi uomo e venendo come un emigrante sulla terra, ha portato tra noi la sua propria civiltà: l’amore che di più persone fa l’«uno».

La Trinità è dunque il tipo di ogni socialità: dalla famiglia ad ogni gruppo o associazione... La Chiesa dovrebbe appunto essere modellata sulla Trinità, l’incarnazione storica di quella vita. E lo è, se pensiamo al mistero del Corpo mistico. Ma l’espressione sociale della Chiesa rispecchia forse in pienezza la verità del Corpo mistico?

L’unica immagine che abbiamo di Chiesa, icona anche sociale della Trinità, è la prima comunità cristiana descritta dagli Atti, talmente affascinante da far dire a quell’anonimo che ha scritto la Lettera a Diogneto: un popolo straordinario, quasi paradossale, gioioso, al punto di amare anche i nemici...

Le nostre parrocchie sono così? Possiamo dire, come negli Atti, che ogni giorno molte persone si uniscono alle nostre comunità cristiane, perché trovano in esse la vita trinitaria espressa anche socialmente con l’amore reciproco, la comunione dei beni, il farsi carico degli altri...?

Ma se i preti non hanno esperienza con-creta di questa comunione, come possono generare una vera comunità?