Chiesa-famiglia multietnica e multiculturale

Il protagonista di questo racconto è parroco a Basilea (Svizzera). La sua esperienza, contrassegnata dall’impatto della popolazione svizzera con centinaia di rifugiati clandestini, è testimonianza della validità di un cristianesimo genuino, Vangelo vissuto capace di attrattiva e di rilevanza sociale anche in un contesto secolarizzato e con tutto il peso delle nuove sfide storiche.

«Siamo gli ultimi cristiani?”, “La fine del cristianesimo”, “Scontro fra le culture”: sono alcuni dei titoli che ultimamente si ripetono attraverso libri e articoli e che tentano di rispondere a dati e fatti che si riscontrano continuamente nel mondo attuale.

Di fronte a queste dure realtà non mi spavento. C’è un motto che mi guida interiormente nella vita e nel ministero: «Uno solo è il Padre vostro… e voi siete tutti fratelli» (cf Mt 23, 8-9). Essere sacerdote significa per me innanzitutto sapermi figlio di questo Padre ed essere mandato da Gesù per riunire tutti i suoi figli in una sola famiglia.

Sin dalla mia ordinazione, 17 anni fa, mi sono detto: mio primo compito non è celebrare matrimoni e funerali e neppure tenere catechesi e organizzare la vita parrocchiale. Sì, anche tutto questo. Ma sono sacerdote innanzi tutto per generare, insieme a Gesù e per mandato della sua Chiesa, la famiglia dei figli di Dio.

Primi prossimi: i sacerdoti

Da cinque anni sono parroco nel centro di Basilea, una città di 190 mila abitanti, al confine con la Francia e con la Germania. Come cattolici sia-mo una minoranza. Nella mia parrocchia siamo tremila. Gli altri sono riformati, musulmani, indù e tanti non credenti.

Da dove cominciare a formare, in questo ambiente, la famiglia di Dio? Era logico: dal primo prossimo, cioè da casa mia. Dopo un anno in cui ero vissuto da solo, si è aperta la possibilità di vivere a vita comune con altri due parroci della città e un quarto parroco della regione.

Questa piccola comunità è diventata ben presto non solo la nostra casa, ma anche il seme per una comunione crescente fra tutti i cattolici della città. Tant’è vero che nel giugno scorso, per la prima volta dopo decenni, il vescovo ha potuto celebrare una grande messa per tutta la città. Fu, nel nostro contesto, un fatto del tutto inedito.

Rapporti fraterni con tutti

La famiglia di Dio nasce dal creare rapporti di amore fraterno con tutti i prossimi, chiunque essi siano. Tra loro i numerosi rifugiati clandestini – più di mille – che vivono nel territorio della nostra parrocchia. Durante l’inverno del 2005, ogni giorno, bussavano alla porta della casa parrocchiale, affamati e chi soffriva il freddo. Lo Stato svizzero aveva da poco emanato una legge molto rigida che metteva i rifugiati sul lastrico. Che fare? Gesù aveva detto: «Avevo fame e mi avete dato da mangiare...» (Mt 25, 35). Ci siamo messi quindi a preparare per loro dei pasti caldi e a predisporre un alloggio per i più svantaggiati. Ben presto questo fatto divenne pubblico e ci siamo trovati in aperto contrasto con la legge. Seguirono mesi difficili in cui ho rischiato anche il carcere. Finalmente il tribunale ci ha dato ragione e la legge è stata un po’ mitigata. In quei mesi è nata una vera comunità fra i rifugiati e con l’amministrazione della città si è instaurata un’ottima collaborazione. Era importante conoscerci personalmente. Ora come parrocchia abbiamo la piena stima e il sostegno del governo.

Sempre più i nostri parrocchiani svizzeri hanno aperto il loro cuore alle persone di altre nazionalità, riconoscendo in tutti dei figli di Dio. Ormai la nostra comunità è interetnica e interculturale. Ogni domenica la messa viene celebrata con persone di 15-20 nazioni. Siamo diventati una famiglia dalle dimensioni mondiali, che attira con il suo calore sempre nuovi aderenti.

Un frutto tangibile è stato il pellegrinaggio in Terra Santa durante la Pasqua del 2008: 160 i partecipanti, provenienti da 4 continenti, 20 nazioni in tutto. Fra loro tante coppie e una quarantina di bambini. Dall’ex-ministro del Cantone alla famiglia di rifugiati dello Sri Lanka, dal medico al barbone, tutti formavano una sola grande comunità.

Condivisione che contagia

Il segreto di tutto è l’impegno di costruire rapporti secondo gli insegnamenti di Gesù, personali e profondi, a tutti i livelli. Innanzitutto fra noi sacerdoti. La gente sente che ci vogliamo bene e che fra noi non c’è nessuna invidia. Vedono che condividiamo la vita sotto un solo tetto e che gli amici dell’uno diventano amici anche degli altri. Sentono che affrontiamo le stesse difficoltà e le stesse sfide, per vivere in comunione fra noi. E si sentono contagiati. Così negli ultimi due anni sono nate nella parrocchia quattro piccole comunità cristiane, composte ciascuna da una dozzina di membri. Si incontrano ogni 15 giorni per condividere il Vangelo e vedere come impegnarsi concretamente a favore della gente nei loro ambienti. Questa vita di comunione ravviva poi la messa domenicale che diventa, per tutti i partecipanti, coinvolgente, una vera festa.

Ruedi Beck