La Chiesa nel mondo di oggi

L’autrice, sociologa, dopo una descrizione sintetica di alcune caratteristiche fondamentali della società attuale occidentale, si interroga sulla ricaduta che queste caratteristiche hanno sul ministero sacerdotale. Conclude offrendo una risposta di fondo che apre alla speranza per il futuro della fede cristiana.

Una società «liquida»

Le indagini demoscopiche e le analisi dei sociologi rilevano nella società globale post-moderna qualcosa di veramente inedito nella storia dell’umanità. Abbiamo un quadro valoriale e un contesto strutturale in piena evoluzione e in evoluzione accelerata, così che la comprensione della società che si va componendo, costituisce una sfida epocale.

Il sociologo polacco Zygmunt Bauman, uno dei massimi investigatori e interpreti del nostro tempo usa, nella sua acuta analisi, la chiave di lettura solido-liquido.

Per lui la modernità era solida, cioè una società ordinata secondo istituzioni certe e giuridicamente fondate che distribuiva certezza e sicurezza. Ognuno si conosceva attraverso il proprio ruolo sociale e aveva per il suo agire un quadro di riferimento di valori dotato di senso condiviso. Il pregio maggiore di questa società solida, secondo Bauman, è stato il benessere, l’accesso ad una vita con bisogni primari pienamente soddisfatti, nei paesi sviluppati, ovviamente.

Stando alla sua analisi, questa società è definitivamente tramontata. La nuova situazione viene da lui rappresentata come modernità liquida. Liquida, perché inafferrabile, sfuggente, frammentata e non più ordinata e sicura.

La sfida del pluralismo

Una delle caratteristiche della società globale è una eccezionale trasmigrazione di popoli. Assistiamo oggi ad un mescolamento di popoli, di razze, civiltà, fedi, come non era mai accaduto in passato. La novità vera però mi sembra possa essere indicata nel fatto che questi popoli emergono oggi nella storia come soggetti. Si può dire che, precedentemente, essi erano sì nella storia, ma semplicemente come oggetti passivi di colonizzazione, sfruttamento o dominio. Ora non è più così. Il contesto sociale – con i mezzi di informazione che veicolano incessantemente notizie, fatti, eventi, con la globalizzazione dei mercati e delle finanze, con il movimento planetario di culture, le più diverse –, fa sì che i popoli prendano una più viva coscienza della loro identità, cultura, valori.

Ne consegue la trasformazione delle nostre città e nazioni in realtà multietniche, multireligiose, dove non avviene più, come in passato, un mescolamento e una fusione che assorbe il diverso, ma dove si impone una convivenza inter-etnica e inter-religiosa.

Per cementare in unità e concordia una società così fatta, occorre ritrovare o reinventare quei valori fondamentali che in passato hanno vivificato la convivenza sociale, e che oggi, spesso, sono stati dimenticati, messi da parte, considerati obsoleti o addirittura cancellati. Valori forti, robusti, capaci di ridare nerbo e solidità ad una società che invece si rivela esile, molle, liquida appunto. Non basta un po’ di tolleranza, di condiscendenza. Ci vuole ben altro.

Quale il compito dei cristiani?

Quale il ruolo di noi cristiani in questa società? Quale la presenza e l’azione della Chiesa? In un simile contesto l’impegno cristiano si deve qualificare – pena il fallimento totale – per una rinnovata autenticità e incisività. Qualifica che trova le sue radici e il suo metodo in uno dei cardini della nostra fede: l’incarnazione del Figlio di Dio. Ecco l’icona che illumina la via del cristiano in una società multietnica e multireligiosa. Come dice Giovanni: «Il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi» (Gv 1, 14); come sostiene Paolo: «… pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini» (Fil 2, 6-7). Dio che si fa uomo è mistero insondabile per la nostra mente e gioia luminosa per il nostro cuore.

Egli è venuto fra noi non solo per liberarci dal Male ma per comunicarci la sua stessa vita. «Dio è amore» (1Gv 4, 8.16) ripete, senza stancarsi, Giovanni alla sua comunità. L’amore, essenza di Dio, ci è stato dato perché anche noi potessimo amare tutti e amarci fra noi con lo stesso amore di Dio: «L’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato» (Rm 5, 5).

L’amore è la ricchezza della Chiesa e di ogni cristiano. È il dono che si può e si deve dare a tutti i fratelli, vale dire a ogni essere umano.

Presenza e testimonianza

Con questa ricchezza la Chiesa si fa presente nella società. La sua è una presenza d’amore: il cristiano è uno che ama, i cristiani sono gente che si amano.

È attraverso l’amore che la Chiesa e i cristiani possono e devono farsi sentire nella società di oggi. Un amore che si ispiri alla vita, alle parole, ai sentimenti, ai gesti di Gesù. Un amore, dunque, che è servizio. Che si china sulle sofferenze del mondo globalizzato e tecnocrate: che riempie i vuoti, accompagna le solitudini, compone e ricompone le fratture e i dissensi, sorregge i deboli, i fragili, consiglia i dubbiosi, scende negli scantinati delle nuove povertà. Ci vuole un amore autentico che è universale, non di parte, non escludente secondo gusti, categorie di ogni tipo, sesso, etnia, colore della pelle, cittadinanza, religione…, dunque senza riserve né accettazione di persone, senza privilegi. Un amore che prende l’iniziativa, che rompe barriere, supera ostacoli e accende la fiamma, che fa il primo passo, che va incontro all’altro, chiunque esso sia, superando ogni pudore fuori luogo; un amore che rompe il ghiaccio e trova l’atteggiamento o la parola giusta che consente il movimento, il processo… Ci vuole un amore concreto fatto non di buone intenzioni ma che non misura tempo, fatica, sudore; un amore che raggiunge anche colui che ci volge le spalle, che ci è avverso, che ci contrasta.

Oltre che presenza, l’amore cristiano si fa testimonianza. Vuol dire coerenza di comportamento e di pensiero nei confronti dei valori, nella scelta sempre e comunque del Bene.

In una società che tutto relativizza, la Chiesa, il cristiano, devono dare ragione della loro speranza, delle motivazioni del loro agire che li rendono forti e capaci di pronunciare dei “no” e dei “sì”.

La testimonianza dell’amore esige anche l’uso dell’intelligenza e della ragione, della fantasia e della creatività, in una parola: impegna tutte le capacità umane per raggiungere l’obiettivo.

Presenza e testimonianza, dunque, non dal di fuori, ma nel cuore della società, lì dove si gioca il destino dei singoli e delle società. Non è mai stato permesso alla Chiesa e ai cristiani di chiudersi nel caldo accampamento recintato: «Andate e ammaestrate tutte le nazioni» (Mt 28, 19), «Io vi mando come pecore in mezzo ai lupi; siate dunque prudenti come i serpenti e semplici come le colombe» (Mt 10, 16).

Siamo chiamati a portare la Buona Novella nella trama della vita sociale, in ogni sua realtà: nella vita politica, economica, finanziaria, sportiva; nei luoghi del sapere e del pensiero; dentro le strutture e le istituzioni, ovunque. Dappertutto il cristiano si trova a suo agio e al suo posto perché Gesù è morto per ognuno e per tutti gli esseri umani.

Via maestra: una cultura del dialogo

L’amore permette poi di condurre con gli uomini e le donne di altre fedi, di altre etnie e di altre culture un fecondo e fraterno dialogo. Il dialogo si impone oggi come la forma di rapporti possibili, il modo di stare insieme fra diversi. I tempi che viviamo richiedono una vera e propria “cultura del dialogo”.

Il dialogo vero non è mero confronto di idee, rispetto e tolleranza delle diversità. Non è solo ascolto delle ragioni altrui. È molto di più.

Paolo VI, nella sua prima enciclica, quella di apertura del suo mandato, dettava le caratteristiche che dovrebbe assumere il dialogo fra i cristiani e il mondo moderno:

«Il colloquio (…) è un’arte di spirituale comunicazione. Suoi caratteri sono i seguenti. La “chiarezza” innanzitutto; il dialogo suppone ed esige comprensibilità, è un travaso di pensiero, è un invito all’esercizio delle superiori facoltà dell’uomo; basterebbe questo suo titolo per classificarlo fra i fenomeni migliori dell’attività e della cultura umana (…). Altro carattere è la “mitezza”, quella che Cristo ci propose di imparare da lui stesso: “Imparate da me che sono mansueto e umile di cuore” (Mt 11, 29); il dialogo non è orgoglioso, non è pungente, non è offensivo. La sua autorità è intrinseca per la verità che esprime, per la carità che diffonde, per l’esempio che propone; non è comando, non è imposizione. È pacifico; evita i modi violenti; è paziente, è generoso. Fa “fiducia”, tanto nella virtù della parola propria, quanto nell’attitudine ad accoglierla da parte dell’interlocutore: promuove la confidenza e l’amicizia; intreccia gli spiriti in una mutua adesione ad un Bene, che esclude ogni scopo egoistico. La “prudenza” pedagogica infine, la quale fa gran conto delle condizioni psicologiche e morali di chi ascolta: se bambino, se incolto, se impreparato, se diffidente, se ostile; e si studia di conoscere la sensibilità di lui, e di modificare, ragionevolmente, se stesso e le forme della propria presentazione per non essergli ingrato e incomprensibile.

Nel dialogo, così condotto, si realizza l’unione della verità con la carità, dell’intelligenza con l’amore»1.

Nell’esperienza concreta del dialogo che il Movimento dei focolari conduce con fedeli di diverse religioni, con persone di ogni etnia e cultura, abbiamo imparato il valore di un atteggiamento positivo che potrei esprimere con due brevi parole: farsi uno. In questa espressione sono racchiusi secoli di saggezza.

«Farsi uno – diceva Chiara Lubich – richiede una spinta che fa cercare l’altro – chiunque sia – là dove si trova e nelle condizioni in cui si trova. Significa assumere i pesi e le gioie dell’altro e farle proprie: ridere con chi ride, piangere con chi piange; farsi carico dei sentimenti altrui per costruire con lui o lei un rapporto intenso, profondo.

Farsi uno esige un atteggiamento di interiore spogliazione, ovverosia, “esige il vuoto totale” di noi, domanda di togliere dalla nostra testa le idee, dal cuore gli affetti, dalla volontà ogni cosa per immedesimarsi con l’altro. Si tratta di spostare momentaneamente persino ciò che possediamo di più bello e di più grande: la nostra fede, le nostre stesse convinzioni, per essere, di fronte all’altro, niente, un “nulla d’amore”. Ci si mette così in posizione di imparare e si ha sempre da imparare da tutti.

Se siamo animati da tale amore, l’altro poi può manifestarsi, perché trova in noi chi lo accoglie; può donarsi, perché trova in noi chi lo ascolta. (…). E con questo atteggiamento contribuiamo a far sì che le nostre società multiculturali diventino interculturali e cioè composte di culture aperte le une alle altre e in profondo dialogo d’amore fra esse»2.

Quando ciò avviene fra le parti in dialogo si instaura la confidenza, l’amicizia. E allora è possibile passare a quello che Giovanni Paolo II chiamava il “rispettoso annuncio”. Annuncio delle verità che lo Spirito ci suggerisce di dire, puntando al risveglio nel cuore altrui dei “semi del Verbo” di cui parla il Concilio Vaticano II.

Quello che si sperimenta allora fra tutti è una vera e propria fraternità, frutto di quell’amore capace di farsi dialogo, rapporto, di quell’amore che lungi dal chiudersi nel proprio recinto, sa aprirsi verso tutti e collaborare con tutti per costruire insieme l’unità e la pace nelle nostre città, nelle nostre comunità e nel mondo intero.

Vera Araújo

 

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1) Ecclesiam suam, 47.

2) C. Lubich, Quale futuro per una società multiculturale, multietnica e multireligiosa?, in “Nuova Umanità” 37 (2005/6) n.162, 658-659.