In un Centro riabilitativo, sulla scia della “Regola d’oro”

Tasselli di un mosaico

 

In un polo di riabilitazione in Liguria, i protagonisti di questo racconto si adoperano a rinnovare il proprio ambiente di lavoro a partire dall’impegno quotidiano di oltrepassare i confini circoscritti dell’io e della propria mansione professionale, per tessere rapporti veri con i colleghi e con i pazienti. Si fa strada così la logica del dono, lo spirito del Vangelo.

Maria Assunta Gabrielli: È da un anno che ci troviamo a lavorare insieme nel nuovo Polo riabilitativo Don Carlo Gnocchi all’interno dell’Ospedale S. Bartolomeo di Sarzana: io, Annalia e Francesco. Il nostro impegno a vivere radicalmente l’ideale dell’unità nella quotidianità del nostro lavoro risale ancora a quando lavoravamo in un’altra struttura. Un giorno il nostro Primario ci ha chiesto se eravamo disposti a trasferirci con lui a costituire il nuovo Polo riabilitativo del Levante ligure. Ci siamo confrontati tutti assieme e abbiamo capito che poteva essere un’occasione per poter realizzare quel sogno che tutti quanti tenevamo nel cassetto: «La persona disabile assieme alla sua famiglia e alla sua comunità circostante è il principale protagonista del processo riabilitativo». Così abbiamo aderito alla proposta.

A giugno è iniziata la nuova avventura e le difficoltà naturalmente non sono mancate. Abbiamo fatto di tutto: ci siamo improvvisati operai e tecnici e abbiamo scaricato e sballato noi stessi il materiale per allestire i reparti. Ciascuno dava il suo tempo, la sua disponibilità, animato da un medesimo spirito che ci accomunava: la voglia di costruire qualcosa di positivo a favore degli ultimi, vivendo la regola d’oro: «Fai agli altri ciò che vorresti fosse fatto a te», a cominciare dai nuovi colleghi appena assunti.

Nella logica della reciprocità

A distanza di un anno, le cose stanno andando molto bene e gli echi sono più che positivi.

Come responsabile dell’area riabilitativa, ho da portare avanti un compito impegnativo. Con la collaborazione di Annalia e Francesco Sciarpa cerco di trasmettere alcune li-nee guida: prima fra tutte l’importanza dell’aspetto relazionale, sottolineando che il progetto riabilitativo per ogni paziente deve tener conto dei suoi bisogni e delle sue preferenze. Per questo, sia nei confronti dei pazienti sia nei confronti dei colleghi che devo coordinare, mi sforzo di porre al centro la capacità di comprendere l’altro, di “entrare” in lui e di capire in profondità insieme a lui i bisogni e le priorità.

Questo modo di lavorare, di entrare in relazione con ogni persona ha un certo fascino per gli altri. Alcuni mesi fa due colleghe ci hanno comunicato che piaceva loro il nostro stile di porci di fronte al paziente, cercando di non dar niente per scontato, ma di far tirare fuori al paziente anche le potenzialità minime.

Nel nostro lavoro è importante l’interdisciplinarità e la reciprocità tra le diverse figure professionali. Cerchiamo di dialogare e collaborare il più possibile, realizzando un’interazione tra le varie figure, pur mantenendo la propria professionalità e competenza, ma non rimanendo ancorati rigidamente al proprio mansionario. È così che i terapisti aiutano gli infermieri a mettere a letto i pazienti e ad alzarli, a volte è capitato anche di vestirli assieme alle operatrici sanitarie. Viene in rilievo in questo modo che non esistono figure professionali più o meno importanti, rispetto al recupero del paziente. Ciascuno di noi è come il tassello di un mosaico: da solo rimane insignificante, insieme agli altri forma una bella composizione.

Siamo impegnati a suscitare una simile collaborazione anche con i familiari dei pazienti, coinvolgendoli nel progetto riabilitativo, per decidere poi insieme il futuro al momento della dimissione Un fatto molto significativo all’interno dell’ospedale è di non aver stabilito orari di entrata nel reparto, lasciando ciò al buon senso e rispetto delle persone. Quando si entra nel nostro reparto a detta di quelli che vengono a contatto con noi si respira un’aria di armonia e di serenità, passi nei corridoi e incontri volti sorridenti che ti salutano.

Innanzi tutto, le persone

Annalia Bruzzi: Come ha già accennato Maria Assunta, non sono mancate le difficoltà, ma neppure i frutti.

Cerchiamo di vedere i pazienti prima di tutto come persone, e quindi di ricordarci i loro nomi e i loro volti. Quando ci rivolgiamo a loro, vengono chiamati per cognome e non per numero. A questo proposito, un pomeriggio mi trovavo con Maria Assunta a passare per un corridoio. Abbiamo incontrato una paziente e l’abbiamo salutata per nome. La signora ci ha risposto sorridente, dicendo che in questo reparto le persone erano considerate come tali e non solo come casi clinici.

Un altro aspetto a cui cerchiamo di dare valore è il mettersi nei panni dell’altro, cercando di viverlo in senso evangelico. Recentemente ci è stato segnalato un ragazzo che nessuna struttura riabilitativa voleva accogliere poiché era affetto da una malattia infettiva. È stato ricoverato presso la nostra struttura e devo dire che è stato accolto da tutti gli operatori con rispetto e dignità. Sappiamo tutti che questo tipo di malattia ha determinate caratteristiche di trasmissione e che pertanto non è necessario mettere in “isolamento” un paziente che ne è affetto. Egli ha avuto modo di condividere la camera con un altro, ha fatto le sedute di riabilitazione in palestra assieme ad altri e la terapista che lo ha trattato non ha ritenuto che fosse necessario usare misure di sicurezza estreme, come la mascherina o camici sterili.

Cerchiamo di ascoltare tutti, non solo i pazienti, ma anche i colleghi. C’è sempre qualcuno che ti chiede: «Ma perché lo fai?». «Ma chi te lo fa fare?». Ed ecco allora l’occasione di parlare della propria scelta di Dio e del Vangelo. Nasce la voglia di condividere, di conoscere di più. Così con due giovani colleghe ci troviamo periodicamente a leggere insieme la “Parola di vita” del mese.

Sicuramente c’è ancora molto da fare, ma abbiamo l’impressione che sempre più si stagli un qualcosa che è più grande di noi e che ci fa rinnovare di continuo il nostro “sì” a quel Dio che è Amore.

Maria Assunta e Annalia Bruzzi