Di fronte alle emergenze di oggi

«Buon samaritano» diacono

 

L’autore di questo articolo è un diacono permanente che abbiamo invitato a raccontarci esperienze concrete nel campo caritativo, che ogni cristiano è chiamato a vivere, ma  che sono anche tipiche del servizio diaconale sin dai primi tempi del cristianesimo. Sono attività svolte in momenti e luoghi particolarmente difficili; sono piccole grandi avventure, che gli hanno dato l’opportunità di approfondire vitalmente la ricchezza del messaggio di Gesù con la parabola del buon samaritano.

Persone che mi sorprendono

Nel 1976, al tempo del terremoto nel Friuli, ero vicesindaco a Povoletto, un comune alla periferia di Udine. In quell’occasione, fra i tanti arrivati da ogni dove per aiutarci, conobbi delle persone particolarmente generose, con un cuore grande e con un sorriso che ti scuoteva l’anima.

Ma chi erano questi e cosa volevano col loro dare che sembrava un donare senza aspettarsi nulla di ritorno? Chi li aveva mandati in questa miseria provocata dal terremoto nel nostro martoriato Friuli?

Mi venne da pensare che fossero i discepoli di Gesù calati nel nostro tempo, come dal Vangelo di Luca: «Ecco io vi mando come agnelli in mezzo ai lupi; non portate borsa, né bisaccia, né sandali. In qualunque casa entriate, prima dite: Pace a questa casa... È vicino il regno di Dio».

Ma che senso aveva annunziare la Parola, pur con l’impegno personale e gratuito, in questo momento “apocalittico” come era quello del terremoto, in cui le persone nulla vedevano se non il castigo di Dio o semplicemente una sfortuna?

Eppure in queste persone così solari e aperte c’era un impegno sereno e coraggioso. Mi sembravano un bel ritratto della Chiesa missionaria, una Chiesa col cuore di carne per i fratelli e le sorelle bisognosi. L’amore per i terremotati ben presto ha fatto loro mettere da parte “borse e bisacce”. Il loro non era lo stile del lupo rapace, ma dell’agnello che si dona.

In queste persone, che tutto davano senza nulla chiedere in cambio, ho visto l’amore disinteressato verso il prossimo. Ma chi era questo prossimo? I terremotati, noi amministratori, giovani, donne, bambini, anziani, laici e preti: tutti noi, disorientati, spauriti, incapaci di reagire, di vedere un futuro. Ma questi samaritani ebbero compassione di noi, ci presero per mano, ci guidarono e ci consolarono nel nome di Cristo.

Scoprii in seguito che per loro tutti eravamo veri figli di Dio, chiamati a formare una sola famiglia: «Padre, che tutti siano uno». Cominciai a capire che nel prossimo anch’io dovevo servire Gesù

Tutto questo mi fece riflettere, e poi mi fece innamorare del loro stile di vita. Quanto lontani eravamo, quanta nebbia da dissipare davanti a noi, quanto poco avevamo capito della parabola narrata da Luca in cui lo scriba chiedeva a Gesù: «E chi è il mio prossimo?». E Gesù non rispose direttamente, ma rilanciò una domanda: «Chi è stato il prossimo per colui che è incappato nei briganti?».

È qui il significato ultimo dello stupendo racconto del buon samaritano. La prima domanda, infatti, cercava di definire oggettivamente e freddamente la categoria “prossimo”, esterna a chi si interroga.  La domanda di Gesù, invece, ricorda che, anziché definire “chi sia il prossimo”, bisogna diventare, agire, “essere prossimo” dell’altro. È il mettersi dalla parte di chi ha bisogno che fa capire come si diventi veramente prossimo.

Gli anni passarono e in me rimase sempre il dubbio: cosa voleva dire “essere prossimo”?

Il penetrare sempre più intensamente nella spiritualità dell’unità mi fece capire come farmi prossimo. Cercai allora di non evitare più il diverso, colui che aspettava da me un aiuto, di non farmi più sfuggire l’occasione di essere fratello di chiunque, di andare incontro a tutti coloro che si sentivano diversi, emarginati, giovani in cerca di lavoro e, a volte, incapaci di realizzarsi, famiglie in difficoltà. Andavo a cercare chi per amor proprio mi schivava, chi era stato mio amico, ma per casi della vita mi sfuggiva perché non si sentiva più uomo. Volevo assolutamente superare queste distanze e far sì che tutti ci sentissimo fratelli.

L’esperienza con i ragazzi disabili, ad esempio, mi fece cambiare vita, prima nella mia azienda, poi nella cooperativa; capii che diventare prossimo era veramente fare la volontà di Dio, rispondere alla domanda che Gesù fece a Pietro: «Mi ami tu?». Come non rispondere: «Signore, tu lo sai…».

Di fronte a tante incomprensioni, giudizi, amarezze, queste parole di Gesù mi diedero la forza di pormi in un atteggiamento di amore, anche se la mia fragilità troppo spesso mi limitava e mi condizionava.

Un’avventura inattesa

Il Signore Gesù volle insegnarmi ad amarlo concretamente nei fratelli che conoscevo e in quelli che non conoscevo. E in questa avventura coinvolse anche mia moglie Serina.

Così nel pomeriggio del 12 gennaio 1992 una persona amica telefonò chiedendo se ero disponibile a fare una visita in Yugoslavia nelle vicinanze di Zagabria, dove allora si era ancora in piena guerra, per vedere la possibilità di poter dare una mano.

Mi diede un numero telefonico, dicendomi: «Rivolgiti sul posto a questo numero e vedi tu». Cosa voleva dire quel “vedi tu”? In quel momento mia moglie ed io capimmo che voleva dire: andare e non restare a guardare, perché a Zagabria c’erano dei prossimi che avevano bisogno.

Mi ricordai in quel momento le parole del vangelo: «Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore e con tutta la tua mente … Amerai il prossimo tuo come te stesso» (Lc 10, 27).

Dimenticai la guerra e alle quattro del mattino del 13 gennaio, assieme a mia moglie Serina, partimmo alla volta di Zagabria. Non sapevamo nulla di cosa ci aspettasse, ma eravamo certi che c’era gente che aveva bisogno di noi.

È per il fratello che si passa di continuo da una vita vuota e insignificante alla vita piena:  «Siamo passati dalla morte alla vita, perché amiamo i fratelli» (1Gv 3, 14).

Dopo varie peripezie di posti di blocco e cavalli di Frisia, con le strade deserte, alle dieci siamo arrivati a Zagabria. Non c’era anima viva, ma solo desolazione, mentre qua e là si elevavano colonne di fumo. Al primo posto telefonico tentammo di chiamare il fatidico numero, ma a gesti ci fecero capire che la sera prima la città era stata bombardata e i telefoni non funzionavano.

Che fare? Ci affidammo alla Madonna – durante il viaggio avevamo recitato diversi rosari – e ci venne in mente di trovare un tassista a cui affidammo il prezioso numero telefonico. Egli con i suoi congegni via radio ci fece capire che il titolare di quel numero si trovava a 10 km di distanza, nella parte opposta della città.

Gli offrii una lauta mancia e lui contentissimo si mise davanti a noi e ci guidò velocemente presso l’abitazione a cui corrispondeva il numero telefonico. Con grande mia sorpresa fummo accolti calorosamente: era un mio carissimo amico  di cui avevo perso le tracce da tempo, uno di quei “discepoli di Gesù” mandati nel Friuli al tempo del terremoto.

Nella città di Krizevci

Dopo i primi convenevoli ci disse che in città c’era una coppia di sposi che ci aspettava, così siamo stati ospiti di quella famiglia, che allora era responsabile di un gruppo di volontari che operavano nel Sud Est Europeo.

Subito entrammo nel vivo del perché della chiamata che avevamo ricevuto: a sessanta chilometri dalla capitale della Croazia si trova una cittadina di nome Krizevci, antica sede del vescovo grecocattolico dell’allora Yugoslavia. Questi aveva messo la sua cattedrale con diverse case annesse, il convento e una ventina di ettari di terreno a disposizione del Movimento dei focolari.

Da poco era iniziata la guerra e si sentiva un grosso problema: come ospitare, in quella struttura, delle famiglie profughe provenienti dalla Vojvodina e dalla Bosnia?

Mi avevano chiamato per predisporre la coltivazione del terreno, dato che quasi tutte quelle famiglie provenivano dal mondo agricolo. Bisognava programmare culture intensive onde far lavorare molte persone. Già si intravedeva infatti che la guerra avrebbe avuto un epilogo lungo e doloroso.

Dopo esserci rifocillati partimmo alla volta di Krizevci. Visitammo, incuriositi e increduli, questa realtà: strutture obsolete e in parte diroccate. Ci voleva fantasia per immaginare qualcosa di nuovo in quel complesso semiabbandonato.

Subito capimmo cosa serviva e quale poteva essere il nostro ruolo in questa nuova avventura, alla quale Gesù ci aveva chiamati. Ci organizzammo chiedendo l’aiuto dell’eterno Padre e mettendo tutto nelle sue mani. Mi ripromisi di pensare un qualcosa di concreto e ci avviammo di ritorno a casa.

La settimana seguente ero di nuovo sul posto per vedere con i responsabili un programma di massima da attuare con le forze umane che avevamo a disposizione. Feci in modo che alcuni profughi che dovevano essere i responsabili del progetto che ci eravamo proposto, potessero visitare, in Friuli e fuori, diverse mostre agricole specializzate.

Iniziammo a mettere a coltura diversi terreni, dando loro la possibilità di sentirsi persone attive anche per dimenticare un po’ il dolore che provavano nell’essere stati sradicati dalle loro terre.

Il tutto era possibile con l’aiuto di qualche volontario che mi dava la possibilità di acquistare semi o altri prodotti che servivano per portare avanti il nostro progetto.

Lungo l’anno ospitai da noi alcuni giovani per farli uscire dall’ingabbiamento vissuto sotto il regime comunista e dar loro una formazione nuova.

Non tutto fu facile, tanto che, al ritorno dalle visite, che periodicamente facevo al progetto, parecchie volte avevo gli occhi gonfi di lacrime per non essere riuscito a ottenere quanto ci eravamo proposto.

Sembrava una corsa su scale oscure rosicchiate dal tempo e dai topi, vecchie e pericolanti, in un’oscurità quasi completa, in una desolazione che faceva male al mio credere di poter aiutare chi pareva non volere o non poter essere aiutato e non capiva che ero lì per essere fratello.

Si facevano programmi concordati, si voleva risolvere il loro problema più intimo, superando quello che il comunismo passo dopo passo per tanti decenni aveva in loro logorato: l’essere persone libere, capaci di decidere e agire.

Io, piccolo uomo, volevo risolvere questo problema sociale: che illusione, che impotenza, che presunzione!

In quei momenti di sconforto e di amarezza mi buttavo nelle mani del Signore, e tutti i ritorni a casa li trascorrevo “pregando” e proprio allora Dio mi faceva vedere le cose in altro modo, mi prendeva per mano e mi spingeva a non mollare: sì, il problema era senz’altro aiutare i poveri profughi a uscire dalle tenebre, ma Dio evidentemente aveva altri programmi e mi incoraggiava a continuare.

Nuova emergenza, nuove iniziative

Verso l’autunno la comunità dei Focolari  era chiamata a sostenere con aiuti umanitari le persone del Movimento sparse in ogni parte dell’ex Yugoslavia dilaniata da una guerra fratricida senza precedenti.

Anch’io fui chiamato a collaborare in questo nuovo progetto: mi misi in contatto con il mio responsabile, che subito attivò una rete per la raccolta di quanto serviva nell’emergenza che si era creata.

A Mossa di Gorizia fu allestito un primo magazzino e proprio da lì iniziammo i nostri grandi viaggi nell’incognita della guerra.

Il cuore grande e generoso di Mario Tassin, mio fratello nella vita spirituale, si spalancò e rispose “eccomi”.

Prima trovammo un nostro amico camionista che si mise a disposizione e partimmo con il primo TIR. Non si conoscevano le regole per attraversare le frontiere che si improvvisavano ai confini di ogni piccolo staterello che voleva la sua autonomia: Slovenia, Croazia, Bosnia, Kossovo, Macedonia, Voivodina, ecc.

Ma la voglia di essere a disposizione di Dio Padre nell’aiutare chi si trovava nel bisogno ci faceva continuamente aguzzare l’ingegno e tutto si risolveva. Problemi grossi: controlli sempre più intensi alle dogane, continui posti di blocco, burocrazia che cambiava ad ogni viaggio, polizia e militari che volevano sempre qualcosa per loro, rotture ai camion, incidente e successivo processo per direttissima, cauzioni sempre più onerose, sparatorie e nascondimenti in cantine tremolanti per i bombardamenti, perquisizioni sempre più fastidiose, deviazioni improvvise di strade chiuse o bombardate, giornate intere alle frontiere senza sapere il perché, ecc.

Capivamo però che sopra di noi c’era chi tesseva il filo d’oro della nostra vita. In quegli anni di guerra abbiamo fatto oltre 150 viaggi nell’ex Yugoslavia, portando aiuti ai fratelli e alle sorelle provate dalla guerra, con tanti frutti materiali e spirituali per loro e per noi.

Ancora un altro fronte:
il mondo dei carcerati

Torniamo in Italia. Da nove anni opero nel settore della detenzione, insegnando nella Casa circondariale di Tolmezzo e ultimamente anche a Udine nei corsi di aggiornamento.

Questa esperienza mi ha dato la possibilità di entrare in problematiche complesse che richiedono una profusione di risorse e di attenzioni e una molteplicità di interventi che – pur differenziandosi nell’approccio, nei metodi e nell’assunzione di ruoli – tendono alla riabilitazione umana e alla promozione sociale degli emarginati.

Ho compreso quanto sia importante la disponibilità ad ascoltare immedesimandosi nelle situazioni altrui per comprenderne i disagi personali e aiutare i detenuti a superarli. Fin dal primo momento ho cercato di istaurare un rapporto diretto con loro ed essi hanno corrisposto, aprendo il loro cuore.

Il carcere come funzione sociale ha un compito imposto e si dibatte tra alcune contraddizioni che sembrerebbero ineliminabili.

Da una parte per tranquillizzare l’opinione pubblica si propone di:

– assicurare la segregazione di chi è stato riconosciuto colpevole e adottare allo scopo misure di sicurezza che limitano la libertà personale;

– gestire i periodi di vita del detenuto imponendo perentoriamente tempi, modalità e forzosi adattamenti che si avvertono come punitivi;

– assumere compiti e responsabilità che vengono espropriati alla persona detenuta;

– esprimere nella struttura architettonica del carcere, nell’organizzazione della vita interna, nell’imposizione delle caratteristiche ambientali, un linguaggio, una nomenclatura che lo evidenzi e configuri come luogo di pena, di emarginazione e di castigo.

Allo stesso tempo, si vuole:

– conciliare la segregazione, la pena, la detenzione con la riabilitazione e la risocializzazione;

– sollecitare la persona detenuta ad acquistare autoconsapevolezza, autodeterminazione e autonomia.

Nei miei contatti con i detenuti ho cercato di mettere a frutto l’esperienza di fede acquisita nel vivere quotidiano in mezzo agli handicappati, agli emarginati, ai lavoratori extracomunitari, a persone a rischio.

Mi sono sforzato di vivere con questi prossimi le parole del Vangelo di Giovanni: «Come il Padre ha amato me, anche io ho amato voi. Rimanete nel mio amore. (...) Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni e gli altri come io ho amato voi. Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici» (15, 9. 12-13).

Azioni concrete

Tramite varie azioni umanitarie spesso sono riuscito a far arrivare lo stretto necessario a tanti. La nostra corrispondenza è molto fitta, alleviando così la sofferenza di chi si sente escluso, senza valore, non amato.

Ultimamente ho fatto da padrino alla confermazione di un detenuto che quasi quotidianamente mi scarica tutte le sue frustrazioni e le problematiche della sua difficile esistenza.

Diversi alla fine della pena sono stati inseriti nel mondo del lavoro, con l’aiuto di amici imprenditori che vivono la spiritualità di Comunione e Liberazione.

Un caso significativo. Un giorno uscendo dal carcere, trovo un mio allievo sotto una pioggia scrosciante con sulla schiena un sacco nero dove aveva riposto alcuni indumenti personali. Chiesi se aveva dove andare, mi disse che doveva andare a Praga a casa sua., Gli domandai se aveva i soldi per il viaggio e mi disse che ne era sprovvisto. Lo feci salire sulla mia macchina e lo portai dai miei amici imprenditori per vedere insieme il da farsi.

La moglie di uno di questi si preoccupò subito di rifocillarlo e gli preparò una bella valigia piena di indumenti personali, gli operai della fabbrica, tutti extracomunitari, fecero una colletta e l’imprenditore gli diede un contratto di lavoro. Dopo lo mettemmo sul treno per la Cechia.

Circa un mese dopo arrivò tutto contento con i documenti in regola per poter lavorare. Oggi è uno dei migliori operai della ditta e si prepara per tornare nel suo Paese e diventare egli stesso  il piccolo imprenditore con l’aiuto dell’azienda dove attualmente è inserito.

Dalle tante bellissime lettere ricevute da queste persone, vorrei dare almeno due saggi.

«Ultimamente con tutte le cose che mi sono capitate, mi sono chiuso in me stesso, non mi veniva neanche la voglia di uscire dalla cella e volevo farla finita: avevo perso la speranza, ma la tua bellissima lettera e le tue parole mi hanno ridato il coraggio di vivere».

«Comincio con i miei ringraziamenti che non hanno né inizio né fine. Ultimamente stavo davvero con il cuore ferito, ma lei mi ha dato una carezza che ha fatto rinascere in me la speranza».

Con sofferenza ho vissuto l’indulto del nostro governo, perché i miei allievi extracomunitari – a diversi di questi avevo potuto assicurare l’inserimento lavorativo a fine pena – sono stati tutti estradati ai loro paesi d’origine. Quante lettere e telefonate di disperazione da queste persone, che hanno visto svanire i loro sogni di un futuro migliore.

Viviamo in una società dove chi sbaglia è dannato dentro e fuori le sbarre e sembra destinato a rimanere sempre prigioniero dei suoi errori, un malvagio da emarginare.

L’ultimo corso di ortofloricoltura che si è svolto presso la Casa circondariale di Tolmezzo ha riscosso molto interesse.

Questi ragazzi, pur trovandosi in un luogo dove tutto sembra finalizzato alla privazione della libertà, frequentando il nostro corso hanno sentito nascere in loro una domanda di verità di sé e hanno iniziato un percorso di riconquista dell’umano.

Una quindicina di loro si sono messi in discussione e hanno affrontato il corso con un impegno inimmaginabile anche per gli addetti ai lavori, hanno prodotto varie essenze orticole e 3.500 steli di crisantemi e circa 200 vasi messi poi in commercio.

Il corso ha fatto toccare con mano l’alto livello qualitativo dello studio-lavoro che ha reso questi detenuti capaci di dar prova della professionalità acquisita.

La direzione del carcere di Tolmezzo in questo modo ha arricchito la personalità dei carcerati, dando loro la possibilità di passare dal fallimento alla possibile elevazione umana, mettendo in evidenza la Costituzione del nostro paese che vuole la detenzione come un percorso di redenzione: “vigilando redimere”.

Aiutando coloro che hanno sbagliato a riprendere il giusto cammino, non solo li promuoviamo, ma miglioriamo anche la società in cui tutti viviamo.

Diego Mansutti