Vita d’unità in famiglia a sostegno del ministero

Essere per gli altri

 

A volte la chiamata al servizio pastorale viene preceduta da vari segni; altre volte arriva improvvisa e al di fuori di ogni previsione e con una tale luce che, pur rispettando la libertà umana, sembra irresistibile. In questa esperienza di un diacono permanente della diocesi di Trieste vediamo un cammino che per lui comincia da lontano e matura lentamente, coinvolgendo a un certo momento anche la moglie. Lei non dà un semplice consenso dal di fuori, ma si sente essa stessa chiamata a cooperare ad un piano voluto da Dio.

Vorrei comunicarvi qualcosa della storia della mia vocazione al diaconato, scritta, per così dire, a due mani, da me e da mia moglie.

La prima scintilla

Ho sentito fin da giovane una forte attrattiva a dare la mia vita per la Chiesa, ma c’è stata una circostanza nella quale ho sentito chiaramente la chiamata al diaconato.

Mi aveva sempre affascinato una visione di Chiesa in cui non veniva tanto in risalto la “struttura”, quanto piuttosto una comunità di fratelli e sorelle che vivono come una famiglia.

Siamo nella metà degli anni 80. Con la mia famiglia abbiamo trascorso le vacanze estive in montagna. Ogni sera andavamo a messa nella chiesetta del paese che ci ospitava. Il parroco riuniva attorno all’altare diversi ragazzi e ragazze, mentre la gente si sistemava nella navata e tutti partecipavano alla celebrazione eucaristica con molta semplicità.

Vedevo il sacerdote come un padre che raccoglieva attorno alla mensa la sua famiglia. E questo ambiente mi colpiva, mentre una forza interiore suscitava in me il desiderio di collaborare alla missione del sacerdote. Fu una sensazione forte, commovente.

«Ecco – mi dissi – a questo mi sento chiamato: cooperare nel generare la comunità cristiana insieme a quel prete». Sembrava un sogno… e non capivo come si sarebbe potuto realizzare. Più tardi capii che questa chiamata si sarebbe concretizzata nel diaconato.

Un ricordo giovanile

Torno un momento indietro. Frequentavo il liceo e da poco avevo conosciuto la spiritualità dell’unità che anima i Focolari: ne ero rimasto affascinato, essa dava senso e corpo a tutte le idealità di quegli anni giovanili. In particolare, avevo visto una Chiesa giovane e bella che non si identificava solo con le persone che frequentavano la parrocchia, ma abbracciava tutti indistintamente, anche quelli che non mettevano mai piede in chiesa.

Ne parlavo con tutti, parenti e compagni di scuola. Ad uno di questi, che rimase quasi scandalizzato, dissi un giorno con un linguaggio tipicamente giovanile, quasi estremista: «Ho capito che per fare una comunità cristiana il prete non basta!». Vista la sua faccia sconcertata, gli spiegai che per me il prete ci voleva, ma non seppi dire di più. Sentivo che la dinamica dell’unità nella vita di famiglia doveva essere lo stile anche di ogni comunità ecclesiale e avrei voluto dare il mio contributo in tal senso. Compresi che avrei potuto farlo solo se avessi cercato di vivere così prima di tutto nella mia casa.

Generare la comunità

In questo contesto è maturata la mia vocazione al diaconato, ma ciò comportava il coinvolgimento in questa avventura di mia moglie Chiara e dei nostri due figli, senza forzature. Partecipando ai miei questa realtà e vivendola con loro, venivo a capire sempre di più la vocazione del diacono, il suo aspetto più bello e più vero, che va oltre le mansioni prettamente ministeriali.

Man mano comprendevo la caratteristica bellezza della figura del diacono: egli, pur partecipando alla grazia del ministero, non ha “poteri” come quelli del presbitero e del vescovo. In fondo quasi tutto ciò che egli fa, lo può fare anche un laico... Egli però è chiamato in modo speciale ad essere “per” gli altri.

Mi pareva una via affascinante: nella misura in cui “sono” diacono, cioè amore concreto, puro servizio verso gli altri, mi realizzo non solo come singola persona, ma anche collaboro nel costruire la comunità.

Ma questo – lo capivo sempre più – comporta il “non essere per sé” ma “essere per gli altri”. Essere, in una parola, un nulla d’amore che, facendo da sfondo alla grazia del sacramento dell’ordine, contribuisce a generare la comunità.

«Io sono per gli altri» è stato il pensiero dominante del periodo di formazione. Solo ora capisco nel senso più profondo quella frase che dissi al mio vescovo, in sacrestia, appena terminata la celebrazione dell’ordinazione, guardando la gente che stipava la chiesa: «Oggi ho capito il mio battesimo»: la grazia che mi accomuna a tutti.

Tutto questo comportava – e comporta tuttora – fare i conti con i miei limiti e le mie infedeltà, un’ascetica che tiene conto più dell’Amore di Dio che delle mie capacità. Ed è una continua ginnastica che ha in particolare un suo campo d’azione in famiglia, dove – per la carità nei confronti di tutti – si tratta di vivere in maniera tale che nessuno si senta a disagio per causa mia e dei compiti che la Chiesa mi affida. Vissuta così, è la vita stessa di famiglia a sostenere giorno dopo giorno il mio essere diacono e quindi il mio essere per gli altri.

Questo, lo confesso, non mi è stato sempre facile, ma vale la pena. Veramente l’impegno familiare diventa un volano per essere più impastati nella vita dell’umanità e diventare sempre più un tramite di grazia.

Sorpresa, stupore
e un pizzico di paura

Chiara: Era un momento particolare quell’estate in montagna quando Gigi mi raccontò quello che da qualche tempo stava meditando nel suo cuore: rispondere di sì a Dio che lo chiamava a diventare diacono.

Dapprima fui sorpresa e stupita, ma anche un po’ spaventata di fronte a questa novità. Gigi mi presentava la visione di una realtà bella e nuova nella Chiesa. Se da un lato ero affascinata da quanto mi diceva, dall’altro non riuscivo ad inquadrarmi in questa realtà: mi veniva da pensare che forse era una cosa che riguardava solo lui. All’improvviso, mentre stava ancora parlando, mi assalì un sentimento di forte paura; era come se in quel momento mi venisse chiesto se ero pronta a dare la vita per qualcosa che neanche conoscevo pienamente. Fu una frazione di secondi, ma il ricordo è ancora vivo… Sentivo però che la cosa era troppo grande e bella per dire di no. Così ho detto di sì prima a Dio e poi anche a Gigi.

Nella comunione la luce

Abbiamo iniziato a vivere insieme questa nuova esperienza in una continua e attenta comunione tra di noi di quanto avveniva nel mio cuore e in quello di Gigi, che mi permetteva di entrare sempre più in una realtà che anche per me cominciava a dipanarsi. Pian piano, in questo modo, sentivo sempre più mia questa nuova prospettiva.

E arriva il giorno dell’ordinazione, un momento molto bello per la vicinanza di un vescovo che ci è stato amico e padre, e di tante persone che ci hanno voluto bene concretamente, come i diaconi che sono venuti a far festa con noi da una città lontana. Questi “Piccoli-grandi” gesti, mi hanno fatto comprendere il senso del ministero che stava per essere donato a Gigi e mi hanno fatto sperimentare ciò che può essere una comunità quando è l’Amore che unisce i suoi membri.

Penso di aver compreso lì, nel momento dell’ordinazione, in un modo nuovo, il significato del matrimonio come sacramento. Capivo che nel disegno di Dio io, Chiara, non avevo senso senza Gigi, e viceversa, e avvertivo una spinta a vivere più pienamente il rapporto con lui.

Ricordo di aver riconfermato il mio sì alla volontà di Dio su di me, e di aver chiesto allo Spirito Santo, che sentivo presentissimo, di aiutarmi a fare, qualora mi fosse stato richiesto, ciò a cui mi sentivo inadatta.

«Cosa vuol dire per te
essere moglie di un diacono?»

In un viaggio che abbiamo fatto in Argentina alcuni anni fa, accompagnando un sacerdote, abbiamo avuto modo di incontrare alcuni diaconi con le loro mogli. Da una di esse mi sono sentita chiedere: «Cos’è per te essere moglie di un diacono?». Ho sentito di risponderle quello che in quel momento avevo in cuore e stavo vivendo: «Per me la moglie del diacono è la “serva” del “servizio” del marito».

Appena ho pronunciato questa frase ho pensato che forse sarei stata fraintesa. Infatti, col termine “serva” non intendevo dire il negativo che solitamente racchiude questa parola, ma una persona, che partendo dal proprio “sì” detto a Dio, decide di farsi “serva” per costruire assieme al marito quel disegno che Dio ha messo loro in cuore.

Sono rimasta stupita quando quella signora con le lacrime agli occhi ha esclamato: «Doveva venire una persona dall’Italia per confermarmi quello che anch’io sentivo da tempo!».

Luigi e Chiara Vidoni