Testimonianza della moglie di un diacono

Un nuovo sì a Dio e la vocazione di mio marito

 

Prima di ordinare un candidato al diaconato la Chiesa chiede il consenso anche alla sposa. Non si tratta di una formalità o di una convenienza sociale, ma di un impegno che la moglie assume non solo per non essere di impedimento nel ministero del marito, ma per essere una presenza costruttiva, “mariana” accanto a lui.

Quando nel lontano 1971-72 Enzo, mio marito, mi parlò per la prima volta del diaconato non sapevo che cosa fosse e tanto meno che cosa comportasse, però gli dissi che, se sentiva nel diaconato la sua vocazione, era giusto che l’approfondisse.

Come Maria

Enzo iniziò così la scuola del diaconato. Avevamo allora quattro bambini e una in arrivo, però tutti i sabati lo accompagnavo a Pianezza, alternandomi con altre mamme, un po’ in sala e un po’ in giardino, a badare ai figli, ancora tutti piccoli. Erano lezioni di teologia che interpellavano la vita quotidiana di ogni cristiano e quindi erano molto utili anche per noi mogli.

Furono anni belli, con tante scoperte interessanti e anche a volte con tante difficoltà. Una cosa era certa: non avrei mai impedito ad Enzo di rispondere alla sua chiamata, anche perché, se lo amavo veramente, dovevo aiutarlo a realizzare quello che Dio voleva da lui. Mi ricordo che una sera alla messa nella cappella di Villa Lascaris, durante le intenzioni di preghiera, mi sentii di pregare perché noi mogli non fossimo mai di impedimento, ma bensì di aiuto nel cammino diaconale dei nostri mariti.

Venne poi l’ordinazione. Il vescovo, durante la celebrazione, chiese il mio consenso, e la mia risposta fu: «Sì, Padre, Enzo ed io ci siamo sempre voluti bene e in quindici anni di matrimonio abbiamo condiviso tutto. Ancor di più abbiamo condiviso questa scelta che non è solo sua, ma nostra e mi impegno di aiutarlo, specialmente nei momenti difficili, perché possa realizzare pienamente la sua vocazione».

Non è stato sempre facile, ma sappiamo tutti che la strada verso la santità non è comoda per nessuno. In questi anni ho cercato di aiutarlo, non nel fare infinite cose, anzi poche a livello pastorale, ma supplendo in casa a tutte quelle attività necessarie affinché lui, sgravato di queste incombenze, potesse essere più libero per la Chiesa e potesse trovare, per quanto mi era possibile, un ambiente familiare sereno che lo sostenesse nel suo impegno diaconale.

Ho sempre pensato che la moglie del diacono realizza la sua vocazione cristiana cercando di essere come Maria, che è vissuta nel nascondimento e nel silenzio, perché potesse parlare ed apparire, non lei, ma Gesù.

Nove anni dopo l’ordinazione, ci fu chiesto la disponibilità a trasferirci in una piccola comunità senza parroco a venti chilometri da Torino. Non fu umanamente una scelta piacevole. Si prospettava, come poi avvenne, di lasciare a Torino i due figli maggiori, la casa e tutto quanto in quei ventiquattro anni di matrimonio aveva contribuito a renderla più confortevole.

 Ci si doveva allontanare dagli amici, dalla comunità e da tutti quei rapporti costruiti con loro negli anni. Avevo però ben fisso nella mente e nel cuore che, anni addietro, non avevo scelto la casa, gli amici, le comodità, ma avevo scelto Dio. Mi sembrò quindi naturale fare ciò che in quel momento era la sua volontà, espressa dal vescovo. Ci fidavamo d’altronde che Dio, se ci chiedeva quel passo, ci avrebbe donato anche la grazia per realizzarlo.

La Provvidenza ci venne incontro

La casa a Grange era vuota. Noi da Torino potevamo portare soltanto la nostra camera matrimoniale e la biancheria. I due figli maggiori, già lavorando, risultava necessario rimanessero a Torino, ma abbiamo avuto la prova che Dio non si lascia mai vincere in generosità.

Con l’aiuto dei diaconi e delle famiglie del gruppo, che misero immediatamente a disposizione il tempo e ciò che avevano e che poteva esserci utile, in due soli mesi, la casa fu imbiancata e completamente arredata, compresi stoviglie, pentolame, quadri e centrini. La comunione dei beni rendeva possibile ciò che agli occhi del mondo sembrava impossibile.

Mai avevamo posseduto una sala da pranzo: ci fu chi ce ne donò una quasi nuova avuta in eredità dalla zia. Da un amico ricevemmo un sofà, il cui colore era perfettamente intonato all’imbottitura delle sedie che già avevamo ricevute da un altro. Mi sento veramente di poter dire che il Signore non solo si dimostrò generoso, ma anche pieno di buon gusto.

Sento che oggi siamo ancora e sempre nello stesso spirito di disponibilità per essere al servizio della Chiesa dove essa ci chiama. Ben tre volte ci fu prospettato un nuovo trasferimento, sempre abbiamo accettato, anche se successivamente non si concretizzò, perché parve ai responsabili diocesani che il volere di Dio fosse altro.

La comunità nella quale ormai viviamo da più di venti anni è diventata, fin dal primo giorno, la nostra comunità. Forse anche per questo motivo in essa non solo siamo stati accolti, ma viviamo in buoni rapporti con tutti, oserei dire, volendoci bene reciprocamente. In diverse occasioni è stato dimostrato l’apprezzamento di tutti alla disponibilità di Enzo e all’opera pastorale che egli svolge.

Di tutti questi anni ho colto nel cuore quale dono prezioso Dio mi abbia fatto mettendomi accanto ad Enzo e quanto questo mi abbia aiutata a maturare, a crescere e a scoprire l’amore che Dio ha per me.

Maria Elena Massola Olivero