Il diaconato vissuto in una spiritualità di comunione

La mia vocazione

 

Per il diaconato, come per il sacerdozio, occorre una particolare chiamata di Dio attraverso la Chiesa, ma si richiede anche la disponibilità completa per chi riceve l’invito di impegnarsi seriamente in un cammino di santità non tanto di tipo individuale ma comunitario. Non di rado chi riceve questa chiamata trova un grande aiuto a contatto con una comunità viva, sia in parrocchia sia nell’ambito di qualche Movimento ecclesiale.

Tra pochi mesi compio settant’anni, sono sposato con Maria Elena da quasi quarantanove anni, abbiamo cinque figli e altrettanti nipoti.

Ho ricoperto una posizione di responsabilità in un’azienda multinazionale fino al momento del pensionamento avvenuto una quindicina di anni fa. Sono diacono dal 1975.

Ciò che mi accingo a narrare, essendo stato ordinato con il primo gruppetto di diaconi della nostra diocesi, non è solo la mia esperienza personale, ma anche in un certo senso un po’ l’esperienza del diaconato nell’archidiocesi di Torino.

Il cammino verso il diaconato è iniziato nel 1971/72 ed è stata un’esperienza che mi ha condotto dapprima all’ordinazione e in seguito, passo dopo passo, a realizzare ciò che la grazia del sacramento e l’obbedienza ai superiori mi hanno indicato come servizio a me richiesto nella Chiesa torinese di oggi.

Dovendo però narrare quello che si potrebbe definire il mio incontro con Gesù e ciò che quest’incontro ha prodotto in me, devo necessariamente partire da un po’ più lontano che non dal 1972.

Era questo il mio cristianesimo

Sono nato e cresciuto in una famiglia benestante: papà artigiano con una piccola azienda, mamma casalinga, quattro figli. Educato nella fede cattolica tradizionale, per anni ho vissuto risolvendo i miei problemi esistenziali alla luce dei dieci comandamenti e dei precetti della Chiesa, adattandoli talvolta alla mentalità del mondo senza preoccuparmi troppo di approfondirli. La messa domenicale era sì un punto fermo nella mia fede, ma più perché comandato che per amore. A questa stregua era per me di nessuna importanza andare in una chiesa piuttosto che in un’altra: il santuario più vicino al percorso della gita domenicale o la parrocchia che più rispondeva alle mie esigenze di orario erano i luoghi di culto prescelti tanto da poter dire “a messa ci sono andato”. Il rapporto con i fratelli, la vita comunitaria erano lontani dal mio cuore e dai miei pensieri.

Mi sposai. Pur essendo entrambi molto innamorati, le difficoltà non tardarono ad arrivare. Con il sopraggiungere dei figli (tre nei primi cinque anni di matrimonio) Maria Elena si trovò sovraccarica di lavoro e di preoccupazioni. L’educazione ricevuta impediva a lei di chiedermi aiuto e a me di abbassarmi ai lavori domestici.

Nel 1965 ci trasferimmo in un altro posto, sia perché necessitavamo di maggiore spazio, sia perché la nuova abitazione era molto più vicina all’officina di mio padre e ciò mi consentiva, con maggior facilità, di svolgere il secondo lavoro. Era infatti allora mia preoccupazione principale lavorare come un matto, convinto che, fatto ciò, avevo assolto i miei doveri verso la famiglia. Non mi accorgevo invece che questo modo, anziché avvicinarmi, mi allontanava da essa e, in particolare dalla mia sposa, i cui problemi non erano solo economici.

Un incontro provvidenziale

Avvenne però che accanto alla nostra nuova abitazione sorgesse in quello stesso anno una nuova chiesa. Il maggiore dei nostri figli iniziò il catechismo della prima comunione e per questo motivo sia io che Maria Elena cominciammo a frequentare la nascente parrocchia. Fummo ben presto colpiti dal modo con cui i due sacerdoti chiamati a guidare la comunità si rapportavano tra loro e con i parrocchiani. Un tipo di comportamento che non avevamo mai riscontrato prima di allora nell’ambiente ecclesiale e ancor meno fuori da esso. La loro disponibilità era davvero completa e verso tutti, sempre pronti a donare un sorriso. Pensare che di problemi pastorali ed economici ne avevano tanti! Fu così che cominciammo a inserirci sempre più e con maggiore interesse in questa comunità.

Passarono tre o quattro anni in questo cammino di graduale coinvolgimento, quando un giorno Maria Elena, che aveva iniziato a partecipare agli incontri del mercoledì sulla Parola di Dio, mi confidò di esserne stata molto ben impressionata e mi propose di andarci insieme. Ero molto scettico. Lavoravo fino a tardi ogni sera e poi non c’era alcun precetto della Chiesa, mi dicevo, che richiedesse di partecipare ad incontri di quel tipo. Mia moglie, evidentemente molto toccata dal rapporto fraterno esistente tra i partecipanti – questo lo capii dopo – insistette a tal punto che mi lasciai convincere. Rimasi a dir poco affascinato, tanto che continuai con grande entusiasmo.

La ragazza che mi aprì la via

Si giunse così al 1970. In quell’anno un avvenimento mi colpì profondamente: fu “la festa” del funerale di Maria Orsola. Tralascio di descrivere ciò che successe nel piccolo paese di Vallo, la moltitudine che giunse a dare l’ultimo saluto a quella ragazzina, l’atmosfera che si respirava: certo per me fu la goccia che fece traboccare il vaso.

Ne parlai con i sacerdoti della mia comunità parrocchiale che mi invitarono dapprima alla Mariapoli estiva e successivamente agli incontri annuali del Movimento Parrocchiale. Fu in questi incontri che scoprii da dove proveniva la vita che si respirava nella parrocchia e la fonte dove Maria Orsola, ancora fanciulla, aveva imparato a farsi santa.

Vissi questi momenti non solo pieno di entusiasmo ma anche con grande gioia: avevo scoperto la bellezza e la creatività della Parola di Dio, avevo soprattutto scoperto Gesù nel fratello. Avevo anche capito quanto fino ad allora era stato superficiale il mio rapporto con Dio e che, per rispondere al suo amore, dovevo essere anch’io amore per gli altri, fino a dar la vita. Avevo trovato la bellezza della comunità cristiana che vive alla presenza del Risorto, avevo riscoperto la famiglia, il matrimonio.

Ricordo che, ritornando in treno da uno di questi incontri del Movimento Parrocchiale, lessi su un giornale la notizia dell’introduzione del diaconato permanente in Italia. Non ne conoscevo nulla di nulla, tant’è vero che chiesi chiarimenti al parroco che viaggiava con noi. Tutto sembrava finito lì, ma nel mio cuore sentivo che forse quella era la strada nella quale mi sarei potuto legare ancora più strettamente a Gesù e ai fratelli mettendo la mia vita “ufficialmente” a loro disposizione. Trattenni per me tutto questo per alcuni giorni, poi mi consultai con Maria Elena e dietro suo consiglio, confidai tutto al parroco. Trascorsi pochi mesi, fu lui ad invitarmi a partecipare ai primi incontri organizzati dalla diocesi per gli aspiranti diaconi, dicendomi, pressappoco: «Se quella sarà la tua strada, lo si capirà cammin facendo».

La preparazione:
immersi nella spiritualità dell’unità

Cominciammo il cammino, dico cominciammo, perché non solo c’erano candidati da numerose altre parrocchie, ma perché, della mia stessa parrocchia, con me iniziarono la preparazione Giuseppe Grasso, che di lì a poco il Signore avrebbe chiamato a sé, Gino Luppi e Luciano Pavan.

Superando difficoltà non indifferenti, ogni sabato ci si trovava a Villa Lascaris di Pianezza dove insegnanti e formatori ci preparavano. Il clima a poco a poco divenne di vera comunione fraterna, proprio come si augurava l’indimenticabile cardinale Michele Pellegrino che, in uno dei suoi incontri con noi nel giardino della villa, ebbe a dirci: «Se non crescerete tra voi nella comunione, non vi ordinerò».

Ricordo che ci si trovava con le mogli e i bambini, alcuni ancora nel passeggino, si ascoltavano con attenzione le lezioni, mentre i bambini giocavano tra loro in cortile. A sera la santa messa, per unire all’offerta di Gesù, in una spontanea condivisione, tutto ciò che nella giornata Egli stesso aveva operato in noi, e poi, a conclusione, la cena insieme. Si cresceva veramente in fraternità evangelica.

La spiritualità dell’unità con la quale ero venuto a contatto attraverso la parrocchia, ebbi modo di ritrovarla e viverla in questo corpo diaconale che stava nascendo.

Dopo tre anni di preparazione, nel dicembre 1975, nella chiesa parrocchiale venni ordinato diacono insieme a Gino Luppi, oggi già nella casa del Padre. Luciano Pavan dovette sospendere il cammino perché nella primavera di quell’anno era rimasto vedovo con tre bambini in tenera età.

Fu per me uno dei momenti veramente dolorosi. Ci legava non solo il cammino diaconale, ma un rapporto spirituale profondo tra le nostre famiglie. Credo che la morte di Elsa, una donna vissuta e morta da santa, sia stata una delle monete più preziose pagate, perché il diaconato potesse “risorgere”. Lei dal cielo sicuramente ci ha sostenuti.

Cominciai la mia esperienza di diacono nella stessa comunità dove ero stato ordinato. Con il passare del tempo la spiritualità dell’unità, unita alla grazia del sacramento dell’Ordine, mi illuminarono sempre più circa il significato di una scelta radicale di Dio. La predilezione per la povertà e per il distacco da tutto che Gesù ci manifestò sulla croce, divennero a poco a poco parte essenziale della mia vita e si trasmise a tutta la famiglia.

Il trasferimento
per servire una parrocchia

Quando il vescovo volle conoscere la nostra disponibilità, mia e della famiglia, per un eventuale trasferimento, fu conseguente e quasi spontanea la nostra risposta positiva. Eravamo d’altronde anche certi che il suo comportamento non poteva essere diverso da quello di un padre che desidera il bene dei propri figli.

Così, su richiesta del vescovo, nell’autunno del 1984, mi trasferii con la famiglia a Grange di Nole, un piccolo centro di circa 400 persone a 20 chilometri da Torino, per curare spiritualmente quella comunità che non aveva parroco residente. Dopo più di quindici anni lasciavo la comunità che mi aveva “generato” per riceverne un’altra che il Signore aveva scelto per me. Mi risuonarono nel cuore le parole di Gesù sulla croce: «Donna, ecco tuo figlio. Figlio ecco tua madre». Da quel momento sentii che per quelle persone avrei dovuto essere disposto a spendere tutto, affinché potessero anche loro scoprire l’amore di Dio. Il primo gesto concreto fu quello di recarmi immediatamente il giorno dopo in municipio per assumere la nuova residenza: volevo essere, con la mia famiglia, uno di loro anche civilmente.

Da quel 1° novembre 1984 mi ritrovai dunque a cercar di vivere nella concretezza quotidiana una realtà diaconale nuova per allora, ma neppur tanto comune oggi. Non essendoci il parroco residente, ero il punto di riferimento in loco della comunità cristiana.

Pur operando in perfetta sintonia con i vari parroci avvicendatisi nel tempo, devo am-mettere di essere visto dai Grangesi sempre più come la loro guida, il loro confidente spirituale. Detto questo non bisogna pensare che essi non abbiano a cuore il sacerdote: essendo io, diacono, accanto a loro quotidianamente, è comprensibile che si sia stabilito tra noi un rapporto di grande confidenza.

La distanza dal capoluogo (6 km), non ha d’altronde mai consentito, pur dipendendo dalla stessa amministrazione comunale, di far sentire i Grangesi completamente integrati nel paese di Nole. Dal punto di vista storico, la chiesa del posto – S. Giovanni Battista – ha portato il titolo di parrocchia per più di duecento anni, fino al 1987, quando fu deciso di unirla alla parrocchia del capoluogo. Grazie a questi ultimi anni di collaborazione pastorale, forse si cominciano ad intravedere dei frutti, almeno a livello ecclesiale, ma è pur vero che in nome dell’organizzazione non si può privare una comunità delle proprie specificità e caratteristiche.

Costruire la comunione

Sento che come diacono sono chiamato a portare nel luogo in cui vivo, l’amore stesso che Dio ha riversato su ognuno. Così a Grange prima delle celebrazioni liturgiche che competono al diacono – battesimi, matrimoni, funerali – prima dell’organizzazione dei gruppi per le varie catechesi, tutte cose necessarie e indispensabili in ogni comunità, ho sempre dato priorità ai rapporti personali, con predilezione per coloro che sono ammalati e per coloro che sono definiti lontani.

Questi ultimi in particolare vado a trovarli a casa, senza assolutamente far pesare loro l’assenza dalla chiesa, facendo sempre io il primo passo: in tutti ho voluto e voglio vedere Gesù. Mi è più facile così intrattenermi con loro senza aver fretta, senza secondi fini, senza giudicarli, ma semplicemente volendo loro bene. Così agendo, trovo in tutti il positivo, detto con altre parole, vedo in ognuno di loro il volto di Dio.

Mi è di sprone in questo mio agire il trovare in ogni momento nella Parola di Dio la risposta a tutto: ai dubbi, alle incomprensioni, ai fallimenti, ma anche alle gioie, alla felicità. Posso veramente dire che è la Parola che mi ha insegnato e continua ad insegnarmi ad amare tutti, ad amare per primo, ad amare senza aspettarmi nulla in cambio. L’incontro poi con Eucarestia, conservata nel tabernacolo, e che periodicamente il parroco viene a celebrare, è per me il segno di questo amore infinito che Gesù ha trasfuso nei nostri cuori: lì trovo la forza per vivere ciò che Egli ci ha insegnato: amarci fino a dar la vita.

In questo impegno pastorale non è sempre stato facile negli anni trascorsi conciliare le esigenze della famiglia e del lavoro, ma nell’amore a Gesù crocefisso ho trovato la molla per ricominciare anche quando l’entusiasmo veniva meno e l’uomo vecchio si faceva vivo. L’aiuto poi di una sposa che condivide questo ideale spirituale è stato determinante, perché la grazia del matrimonio non solo ci ha illuminato nelle grandi scelte, ma ci ha aiutati e sostenuti vicendevolmente nella quotidianità.

Guardando indietro nella vita, mi accorgo sempre più che i sì di ogni giorno a Dio sono come i tasselli di un grande mosaico che, messi uno dopo l’altro al loro giusto posto, ci mostrano a poco a poco il Suo disegno su ognuno di noi, sulla famiglia, sulle nostre comunità. Così mi pare di poter dire anche di Grange di Nole. Accogliendo un diacono come ministro della Chiesa, ascoltandolo, rispettandolo, ma soprattutto volendogli bene, questa comunità ha saputo indicare ad altre piccole comunità la strada che permetterà loro di vivere pienamente inserite nelle strutture ecclesiali mantenendo la loro piena identità.

Un ultimo tassello:
nel tribunale ecclesiastico

Nel 1993 raggiunta l’età del pensionamento, ho lasciato l’occupazione presso l’azienda in cui lavoravo. Il mese successivo mi fu richiesto dai superiori la disponibilità ad aggiungere all’impegno diaconale a Grange il servizio presso il Tribunale ecclesiastico regionale. Non bisogna proprio sorprendersi di ciò che il Signore ci chiede né tanto meno di dove ci porta. Mai e poi mai mi sarei aspettato una tale domada, ma è pur vero che il diacono è al servizio della Chiesa. Evidentemente se mi era stato richiesto dai superiori, la Chiesa aveva necessità, almeno in quel momento, di quel servizio. Con lo stesso spirito che mi aveva guidato fino ad allora, ho accettato.

Le problematiche in tribunale si presentavano ben diverse da quelle che sorgono in una comunità. Però anche lì è indispensabile tessere rapporti di carità e fin da subito mi sono detto che solo questo valeva. Giudici, notai, avvocati, periti, parti in causa, testi, tutti sono persone e in tutti puoi trovare il positivo, in tutti riconoscere l’impronta di Dio. Dietro ad ogni pratica da seguire c’è sempre una persona da amare, una persona che in qualsiasi caso porta in sé il volto di Gesù. Se una pratica tarda, è Gesù che attende. Con questo in cuore è forte lo sprone a svolgere il proprio compito il più diligentemente e il più rapidamente possibile.

Come in parrocchia, così in tribunale, la risposta sta nella motivazione. Non è certo nel tornaconto economico né in quello personale che, come diacono e come cristiano, io abbia trovato la risposta. La risposta l’ho avuta sempre nel cercar di incarnare in me la Parola di Dio, nel far vivere in me, con l’aiuto della sua grazia, Lui e non me stesso. Maria mi è sempre stata di esempio: lo è per tutti, anche per noi diaconi. Sperimento ogni giorno quanto sia vero che sul suo nulla Dio si è manifestato e sul suo silenzio Dio ha parlato.

Vincenzo Olivero