Famiglia – esperienza professionale – ministero

 

Parabola di una vita

 

Un cammino interessante quello di questo diacono permanente che, da una testimonianza di fede che sa di eroismo in un paese comunista, passa ad un affievolimento a contatto con il consumismo occidentale. Ma incontrando la spiritualità dell’unità riscopre in modo nuovo tutta la bellezza del cristianesimo e si pone a servizio dei fratelli come diacono. Sposato con Maria Grazia, insegnante in pensione, Arsen Mihajlovic, è nato a Split (Croazia) nel 1941, da padre di nazionalità serba e di religione ortodossa e da madre croata, cattolica. Prima di sposarsi suo padre aveva chiesto di passare alla fede cattolica.

Il tempo della persecuzione

Ricordo che negli anni cinquanta il regime comunista del mio Paese obbligò tutte le persone in forza di lavoro a prendere la tessera del partito. Anche mio padre dovette iscriversi al partito comunista, pena la perdita del posto. Poco tempo dopo il segretario del partito chiese a mio padre di proibire a mia madre e a noi figli (mia sorella e me) di frequentare la chiesa la domenica. Mia madre rispose che questo era impossibile, e che lei con i figli sarebbe sempre andata in chiesa, fino all’ultimo suo respiro. Avrebbero potuto impedirglielo solo passando sopra il suo cadavere. Dopo queste parole il segretario dichiarò pubblicamente mio padre nemico del popolo e di conseguenza perdette subito il posto, senza potersi impiegare in nessuna azienda. Furono anni duri per la mia famiglia: per sopravvivere papà raccoglieva in giro il ferro vecchio e con quel poco che guadagnava dovevamo vivere. 

Ogni anno il giorno di Natale bisognava andare a scuola, ma io, lasciato libero di decidere da parte dei miei genitori, immancabilmente disertavo la scuola. Questo voleva dire essere deriso e schernito dagli insegnanti e da molti compagni durante tutto l’anno scolastico.

A diciott’anni fui chiamato al servizio militare e mandato in Serbia centrale, vicino alla frontiera bulgaro-romena. Furono due anni duri, perché all’ora quotidiana di indottrinamento marxista-leninista si facevano sempre attacchi alla fede in Dio e soprattutto alla Chiesa cattolica. I miei commilitoni, per un terzo cattolici, per un terzo ortodossi e per un altro terzo musulmani, ma quasi tutti credenti, si rivolgevano a me per chiedermi di difendere la fede in Dio. Mi sentivo quasi in dovere di farlo: dentro tremavo, ma mi lanciavo misurando bene ogni parola.

Fui minacciato diverse volte di processo per direttissima e la condanna poteva essere anche di dieci anni di prigione. Dopo cinque- sei mesi mi proibirono di parlare in pubblico e in privato di argomenti di fede. Tante volte mi stupivo di me stesso e mi chiedevo da dove mi venissero il coraggio e le parole. Fino all’ultimo giorno di congedo dal servizio militare non sapevo se avrei subíto un processo. Non avevo paura della prigione ma delle torture, sotto le quali, annientata ogni volontà, avrei potuto rinnegare la mia fede.

Dal comunismo al consumismo

Nel 1965 venni in Italia in cerca di lavoro. Dopo pochi mesi lo trovai presso l’ospedale psichiatrico Fatebenefratelli in provincia di Torino. Cominciai a ricevere il mio stipendio mensile, avevo la mia libertà e la mia autonomia e senza rendermene conto a poco a poco, in mezzo a edonismo, consumismo e secolarizzazione, la mia fede si affievoliva. Andavo ancora quasi tutte le domeniche in chiesa, ma la messa era diventata una cosa e la vita un’altra. Ogni tanto mi accorgevo che sotto il comunismo ero stato capace di correre grossi rischi per la fede, mentre nel mondo del benessere quegli anni di fervore erano ormai un lontano ricordo.

Nel 1977 sposai Maria Grazia, insegnante di lingue. Nacque il primo figlio Diego e tre anni e mezzo dopo il secondo, Ramon.

Nella nostra famiglia c’era amore e concordia. Continuavo ad impegnarmi nel sindacato e poi mi misi nella politica, prima come amministratore di un piccolo ospedale comunale e poi nella politica attiva come consigliere comunale. Grazia scelse di essere catechista in parrocchia. Tre anni dopo con Grazia decidemmo di costruirci la casa. Io sognavo di lasciare l’impegno polittico e di dedicarmi solo alla famiglia, al lavoro, alla casa e al giardino coltivando le rose.

Ma di lì a pochi mesi, l’anziano parroco una domenica diede l’annuncio che lasciava la parrocchia e che gli sarebbe succeduto un sacerdote che assomigliava molto a me. Io francamente non pensavo di andare all’ingresso del nuovo parroco, perché in quell’epoca un parroco valeva l’altro, ma a causa delle parole riferitemi da Grazia circa la somiglianza con me dissi che sarei andato solo per curiosità. Arrivati da poco in quella parrocchia, conoscevamo poche persone e il giorno dell’ingresso del nuovo parroco mi posizionai verso il fondo della chiesa. La messa iniziò alla presenza di tanta gente, venuta anche dall’ ex-parrocchia del neo parroco. Quando finalmente lo vidi, constatai che non mi assomigliava affatto, eccetto che per la barba.

Appena iniziò la celebrazione avvertii subito un’atmosfera particolare, insolita, piena di gioia, una certa atmosfera di fratellanza, il tutto accompagnato da canti molto belli. La mia curiosità e attenzione si concentrarono sulla predica. Man mano che l’omelia si dipanava avvertii con tutto il mio essere la novità dei contenuti, il modo di esporli e le scoperte che essa mi faceva gustare. La prima scoperta fu la bellezza della Parola di Dio, la sua forza. Compresi in quegli istanti che essa produce quello che dice. Provai una gioia incontenibile. Quando il sacerdote parlò di Dio Amore feci un’altra grande scoperta e intanto le lacrime scendevano lungo il mio viso. Ero così incredulo, confuso, frastornato da tale abbondanza di emozioni che in quei momenti albergavano in me, che mi sembrò di essere in Paradiso. Man mano che la messa si celebrava, la mia commozione aumentava. Dovetti di nascosto asciugare le lacrime e mi chiedevo che cosa mi stesse capitando. Alla santa comunione dissi a Gesù: voglio conoscere la tua Parola e la voglio vivere, domani stesso andrò a trovare il parroco e gli chiederò di guidarmi su questa nuova strada.

L’indomani, pensando alla promessa fatta, mi spaventai. Compresi che tante cose dovevano cambiare nella mia vita. Rimandai l’incontro. Però ogni domenica scrutavo attentamente don Osvaldo per vedere se quello che predicava, lo viveva davvero. Dopo Pasqua egli iniziò la benedizione pasquale nelle famiglie e io lo invitai a venire da noi a cena una sera. Accettò volentieri, ma mi pregò di attendere finché avesse terminato la visita a tutte le famiglie.

Una chiamata impossibile

Una sera, poi, il parroco venne da noi e nel bel mezzo della cena mi chiese se volevo diventare diacono. Risposi prontamente che questo non sarebbe mai stato possibile. Egli di rimando: «E perché?». Risposi. «Perché non ne sono degno». E lui: «Ma sai, neanch’io sono degno di essere prete, ma è il Signore che chiama. Da adesso tu e tua moglie pregate lo Spirito Santo per capire se questa è la sua volontà». Promisi, ma più per educazione che per convinzione.

Il giorno seguente andai all’ospedale e mentre ero in corsia arrivò il cappellano che dopo aver conversato insieme sul Concilio Vaticano II, d’improvviso mi disse: «Lei dovrebbe diventare diacono». Rimasi senza parola, non risposi, ma dentro sentivo che questo poteva essere un segno: digitus Dei est hic. Riferii a Grazia l’accaduto e dissi che avremmo dovuto pregare per capire. Dopo due settimane andai dal parroco per dare la mia disponibilità alla preparazione al diaconato.

In quel periodo seppi che il nostro parroco era un sacerdote diocesano focolarino. Già in Croazia una persona mi aveva parlato molto vagamente del Focolare. In diverse occasioni chiesi a don Osvaldo di che cosa si trattava, ma stranamente non ricevetti mai una risposta. Finché un giorno mi propose di andare con la mia famiglia in un paesino, Vallo Torinese, dove si sarebbe tenuto un incontro di varie parrocchie e avrei potuto capire: «Ecco perché non ti ho spiegato chi sono, non è semplice spiegare, occorre vedere».

Con una certa diffidenza andammo alla giornata. Ben presto mi resi conto che quella gente viveva il Vangelo sul serio. Durante la messa l’atmosfera era quasi identica a quella dell’ingresso di don Osvaldo in parrocchia. Nel pomeriggio ci fu proposto un video di Chiara Lubich e lì fui conquistato pienamente. Mi colpì molto quando diceva che non possiamo essere rassegnati di fronte alle prove della vita, ma accoglierle, accettarle, amando ogni dolore con la stessa misura con cui lo fece Gesù abbandonato. Al termine del raduno dissi a Grazia: «Focolarini o non focolarini, questo è il cristianesimo che mi affascina. Questa è una grande novità». Raccontai questa esperienza a don Osvaldo. Di lì a pochi mesi partecipai al Centro Mariapoli di Rocca di Papa vicino a Roma a un raduno di persone di varie parrocchie. In quella occasione scrissi a Chiara una lettera nella quale dicevo che volevo capire quale strada potevo percorrere in questa nuova vita, che mi sembrava un’avventura umana e divina, una nuova primavera per me e per la mia famiglia. Mi suggerì di entrare in contatto col il focolare dei sacerdoti diocesani di Torino.

Sempre più la nostra famiglia cresceva nel desiderio di vivere la Parola. Ricordo, nel mese di agosto, per mandato del parroco, tenevamo in casa nostra gli incontri per fidanzati. Durante uno di questi Ramon, il secondogenito, irruppe nel bel mezzo dell’ incontro piangendo e disse: «Mamma, papà, giocando al pallone il mio compagno mi ha dato un forte calcio. Mi ha fatto tanto male, ma io l’ho perdonato subito».

Questa realtà della Parola vissuta coinvolgeva e impregnava tutta la comunità parrocchiale. Ci sforzavamo di vivere una frase della Scrittura ed essa plasmava ogni aspetto della vita familiare,  parrocchiale e quella del nostro lavoro e dell’impegno sociale.

Sei pazzo o innamorato?

Un giorno mentre esplicavo alcune pratiche infermieristiche, due colleghi infermieri mi dissero: «Arsen, da un po’ di tempo sei cambiato. Ti sentiamo canticchiare. I casi sono due: o sei stato contaminato dal nostro ambiente psichiatrico o ti sei innamorato». Feci una risata di gusto e dissi di sì. Mi ero innamorato perdutamente. Pensavo in quel momento alla scoperta di Dio Amore.

Prima di questa “conversione”, la mia professionalità di capo sala la esercitavo con autorità, molto attento al dovere, mentre le persone passavano in secondo piano. Mi resi conto che dovevo cambiare radicalmente il mio modo di rapportarmi con i colleghi, con i medici, ma soprattutto con i malati. Escogitai, tra le altre cose, di avere l’elenco dei compleanni e degli onomastici di tutti gli operatori del reparto per essere il primo a fare loro gli auguri. Inoltre, mi sforzavo di amare ogni persona  considerando che l’amare veniva prima del dovere.

In famiglia cominciammo a sperimentare la Provvidenza divina. Avevamo ancora molti debiti a causa della nostra nuova casa. All’inizio della quaresima il parroco ci invitò a vivere nella condivisione quella quaresima di fraternità, sapendo rinunciare a qualcosa per darlo a chi era più bisognoso. Era verso la metà del mese e noi in casa avevamo in tutto 20.000 lire.

Chiesi a Grazia che cosa potevamo dare noi e lei mi rispose che avremmo dato quelle 20.000 lire, perché avremmo dovuto chiedere comunque un  prestito per arrivare alla fine del mese. Il giorno seguente venne a trovarci mia cognata e ci consegnò una busta, dicendo che con suo marito avevano pensato di farci questo piccolo dono avendo noi in quel periodo molte spese da affrontare. Nella busta c’erano 200.000 lire. Il Signore ci prendeva sul serio.

Circa nello stesso periodo, il delegato vescovile per il diaconato disse a noi aspiranti diaconi che sarebbe opportuno procurarci i quattro volumi del breviario per incominciare a pregare le lodi, i vespri e la compieta. Il costo in lire era 106.000. Riferii a Grazia di questa richiesta ponendole la domanda: «Ma noi quando riusciremo a comperare i 4 volumi del breviario?». Lei mi disse: «Caro, esiste la Provvidenza!». All’indomani andando al lavoro il messo comunale mi notificava che mi spettava il compenso per aver fatto parte della commissione per l’assunzione dei nuovi vigili in comune. La cifra era di 212.000 lire. Avevo l’obbligo di versare nelle casse del partito il 50 %: mi rimanevano, non una lira in più e non una lira in meno i soldi per i quattro volumi. Ero commosso ed esterrefatto. Anche questo ci sembrò una risposta del Signore.

Sempre in quel tempo una sera a cena  Grazia portò a tavola delle arance. Dopo averne mangiata una brontolai dicendo che erano insipide. Lei mi ricordò che la settimana prima avevo brontolato perché erano troppo dolciastre e che perciò la prossima volta potevo andarle a comperarle di persona. Risposi, ancora risentito, che ci sarei andato.

  L’indomani invitai Diego (9 anni) a venire con me a fare una commissione. In macchina ad un certo punto mi disse molto serio:  «Papà, tu ieri sera cercavi tutti i pretesti per litigare con mamma. Cosa credi, anche a me non piacevano quelle arance, ma non ho detto nulla». Gli chiesi scusa per il cattivo esempio che avevo dato e pensai tra me: con l’amore reciproco nella famiglia i ruoli sono a volte interscambiabili. Diego in quel momento, a modo del padre, mi faceva la correzione fraterna.

Il piccolo chiede il Pane

Nel 1985 nel mese di aprile, Diego ricevette la Prima Comunione. Suo fratello Ramon dopo la messa mi disse in macchina: «Papà, io mi sono commosso quando Diego ha ricevuto Gesù. Anch’io lo voglio ricevere». Grazia ed io gli spiegammo che non era possibile, perché occorreva fare un cammino con i compagni e dopo qualche anno avrebbe ricevuto anche lui Gesù Eucaristia. Non fu soddisfatto della nostra spiegazione e nei giorni seguenti insisteva nella sua idea.

Alla fine presentai la cosa a don Osvaldo. Mi rispose che non poteva dargli la Prima Comunione a cinque anni e mezzo di età, solo perché il padre fra due mesi avrebbe ricevuto il sacramento del diaconato. Gli dissi che anch’io la pensavo come lui, però, essendo lui parroco aveva autorevolezza nel dissuadere il ragazzo. Don Osvaldo allora lo fece venire nel suo ufficio e gli parlò da solo. All’uscita Ramon non disse niente, ma in faccia si leggeva la delusione. Non ne parlammo più, ma quindici giorni prima della mia ordinazione il card. Ballestrero volle conoscere la nostra famiglia. Appena entrati dall’arcivescovo, Ramon corse subito da lui e gli disse: «Padre, io vorrei ricevere la Prima Comunione».

Il cardinale lo guardò e gli disse: «E il tuo parroco, che cosa dice?». Ramon: «Don Osvaldo mi ha detto che devo ancora crescere». Il cardinale di rimando: «Di’ a don Osvaldo che è cattivo. Diglielo che te l’ho detto io. Comunque adesso ci penso e poi ti dirò». Dopo una settimana il segretario dell’arcivescovo ci disse per telefono di preparare Ramon alla Prima Comunione, perché durante la messa di ordinazione del papà il cardinale avrebbe dato a Ramon la Prima Comunione. Un dono inaspettato!

Diacono per servire, come Maria

Alla mia ordinazione, mentre il vescovo imponeva le mani sul mio capo invocando lo Spirito Santo, chiesi al Signore con tutto il mio essere di diventare un diacono mariano e di poter spendermi fino all’ultimo respiro per l’ut omnes, per il testamento di Gesù.

Poco tempo dopo, la nostra famiglia partecipò al familyfest – un congresso internazionale per famiglie organizzato dal Movimento dei focolari – con 7.000 persone nell’Aula Paolo VI, a Roma. In chiusura del raduno, al termine della messa presieduta da Giovanni Paolo II, riuscimmo a prendere posto lungo il passaggio del Papa. Ramon era seduto sulla transenna e io lo reggevo. Il Santo Padre con al fianco Chiara ci oltrepassò di sei-sette metri. A quel punto Ramon incominciò con tutta la forza della sua voce a chiamare: Papa, Papa, Papa! Il Santo Padre si voltò, individuò Ramon ed insieme a Chiara venne di fronte a lui, si chinò per baciargli la fronte e gli chiese qual era il suo nome. «Ramon», rispose pronto e poi si ricordò di quello che gli aveva detto il parroco: «Ramon, se vedi il Papa, salutalo da parte mia». Allora disse al Papa: «Ti saluta il mio parroco, don Osvaldo».

Il mio ministero diaconale ebbe inizio sotto la guida sapiente di don Osvaldo. Tutti e due ci sforzavamo a vivere il nostro ministero in modo “mariano”, come fratelli in mezzo agli altri fratelli,  con il costante desiderio di avere Gesù in mezzo a noi, attraverso l’amore reciproco. Sono immensamente grato al Signore per il dono dell’ Ideale dell’unità che Egli mi ha fatto tramite Chiara e non posso immaginare che cosa sarebbe stato il mio diaconato senza questo dono.

In parrocchia, su invito di don Osvaldo, Grazia ed io formammo cinque gruppi di famiglie. Non imponendo a loro l’Ideale dell’unità, esse spontaneamente lo fecero  proprio perché affascinate da questo modo di essere cristiani. La comunità fece un salto di qualità, perché queste famiglie lievitavano altre famiglie. Le coppie di sposi erano molto attente all’accoglienza, soprattutto delle nuove famiglie che venivano ad abitare nel paese. Andando a trovarle portavano l’immagine del Patrono San Francesco d’Assisi con “un benvenuto” scritto sul retro. Se poi qualcuno della comunità veniva a saper che la domenica successiva sarebbero venute a messa, don Osvaldo veniva subito informato e lui, prima di iniziare la messa, dall’altare le salutava a nome della comunità e le presentava.

Nelle borgate del paese nacquero “le antenne dell’amore”, due, tre persone, che erano attente alle famiglie nella sofferenza o nel disagio. Nacquero anche gruppi della Parola di Vita in tutte le borgate. Le famiglie inoltre aiutavano l’associazione che si occupava delle ragazze madri. Nell’ambito dei gruppi fu presentata in Consiglio parrocchiale pastorale la proposta di salutare ogni nuova nascita nel paese con un solenne e festoso suono di campane, e di appendere un drappo sulla facciata della chiesa, rosa o azzurro, con il nome, la data di nascita e l’indirizzo. Fu accolta anche la proposta di andare a trovare i familiari in lutto, otto giorni dopo la sepoltura con un piccolo segno adeguato. Tutta la comunità era come in una gara di amore e di fraternità vissuta.

Nel 1989 il direttore amministrativo dell’ospedale, Fra Pierluigi Marchesi, ex generale dell’Ordine “Fatebenefratelli”, in veste di priore della comunità religiosa, mi fece la proposta di unire la mia esperienza professionale di capo sala a quella del mio ministero diaconale: a loro spese potevo iscrivermi al biennio accademico dell’Istituto internazionale di teologia pastorale sanitaria a Roma, il Camillianum. Acquisito il diploma di specializzazione in teologia pastorale sanitaria, non avrei più fatto il capo sala, ma l’assistente religioso. Dopo il consenso della famiglia e dell’arcivescovo accettai la proposta. Mi diplomai nel giugno 1991 e da quel momento, per dieci anni, fino alla pensione, esercitai il ministero di assistente religioso. All’epoca fui il primo diacono assunto in questo ruolo.

Disponibile per dove Dio chiama

Nel 1997 il vicario episcopale mi chiese di lasciare la mia parrocchia e di servire una parrocchia di 900 abitanti. Dissi subito il mio sì, facendo notare che l’avrei dovuto vedere anche in famiglia. Piansi per tutto il tragitto prima di arrivare a casa, perché lasciavo la parrocchia dove era cresciuta la mia fede ed ero stato generato al diaconato, una delle parrocchie più vive della diocesi. Mi chiedevo che cosa avrebbe detto Grazia. Dopo che le raccontai cosa mi si chiedeva, ella rimase un po’ in silenzio e poi mi disse: «Se questa è la volontà di Dio, devi andare fino in fondo».

Per dieci anni sono stato animatore di quella comunità. Il parroco della parrocchia vicina era giuridicamente responsabile anche della mia, ma non poteva seguirle entrambe, perché gravemente ammalato. Tra noi c’era piena comunione e i parrocchiani erano edificati nel vederci così in sintonia.

Punti fermi nell’impegno pastorale

Il mio impegno era sforzarmi nell’amare tutti, sempre, con gioia e per primo. Tutti sapevano che con me si poteva sempre iniziare un rapporto nuovo. Prendevamo insieme le decisioni, consapevoli che, se tra noi c’era la carità, il Risorto presente in mezzo a noi avrebbe donato il suo Spirito per discernere e per decidere.

Altro punto fermo era: «È meglio fare cose meno perfette ma nell’unità, perché lì c’è Dio, che fare cose che sembrano più perfette ma nella disunità, perché lì c’è lo zampino del maligno». Aiutati dall’amore reciproco la comunità cresceva nella vita evangelica. I sacerdoti che si alternavano a celebrare la messa domenicale dicevano al termine della celebrazione: «Siete una comunità viva. C’è clima di famiglia. Tutti siete coinvolti nel cantare, nel pregare. Vengo con piacere a celebrare con voi».

Ci sforzavamo di vivere la frase del Vangelo: «Chi ascolta voi, ascolta me», riferita al nostro vescovo. Ogni volta che riuscivamo con la nostra poca fede a mettere in pratica le sue direttive, il Signore benediceva le nostre azioni.

Dopo un mese dal mandato per la parrocchia, l’arcivescovo ne aggiunse un altro: quello di addetto all’ufficio diocesano della pastorale della salute. Questo servizio, svolto insieme al direttore dell’ufficio, ci ha avviati a una nuova e più mirata formazione dei ministri straordinari della Comunione, che in diocesi sono 3.000.

Col direttore dell’ufficio, don Marco Brunetti, da 11 anni lavoriamo in perfetta sintonia. I partecipanti agli incontri formativi, pur non sapendo che mi ispiro al carisma di Chiara Lubich, sono sempre entusiasti e lo raccontano ai loro parroci, che non si lamentano più per gli otto incontri: i primi due tenuti dall’ufficio liturgico, un terzo dall’ufficio Caritas e cinque dal nostro ufficio.

Per loro abbiamo fatto stampare appositi sussidi. Uno di questi è della casa editrice Effatà e contiene otto incontri tenuti per i ministri dell’Eucaristia. Uscirà anche in lingua ucraina e sarà il testo base per sacerdoti, seminaristi, religiosi e laici, che lavorano nella pastorale della salute in tutte e dodici le diocesi dell’Ucraina.

Tre anni fa, infine, il vescovo mi ha chiesto di fare l’assistente spirituale all’Hospice, dove si praticano cure palliative a malati terminali. E il mese prossimo andrò a esercitare il ministero di assistente spirituale anche al presidio di riabilitazione.

La mia avventura continua, perché tra non molti giorni farò l’ingresso in una nuova parrocchia, dove mi occuperò della pastorale battesimale.

Arsen Mihajlovic’