Dalla diaconia di Gesù a quella dei diaconi oggi

Chi è il diacono nella Chiesa?

 

L’autore, docente di teologia sistematica nella Pontificia Università di Maynooth (Irlanda) e membro della Commissione Teologica Internazionale, ha cooperato nella preparazione del documento di questo autorevole organismo sul diaconato permanente. In questo articolo egli espone con chiarezza e competenza il pensiero attuale della Chiesa cattolica su questo argomento.

Dopo il Concilio Vaticano II è nata nella Chiesa cattolica la Commissione Teologica Internazionale (CTI) col compito di facilitare la cooperazione fra il magistero e il corpo dei teologi, verificatasi già ben visibilmente durante i lavori del Concilio. Si tratta da parte dei teologi di una vera diakonia offerta al magistero.

Nell’anno 2003 questa Commissione, dopo anni di ricerca, ha pubblicato un documento sul diaconato permanente dal titolo Diaconato: evoluzione e prospettive. Dalla diakonia di Gesù alla diakonia degli Apostoli, di cui si riporta la conclusione alle pp. 4-5 di questo numero. Si tratta di un testo che cerca di mettere a fuoco l’insegnamento del Concilio e del magistero postconciliare riguardante appunto il diaconato permanente.

Il documento parte dalla Lumen Gentium quale magna charta dell’intero Concilio. Come sappiamo, la LG propone una comprensione specifica della Chiesa, come ben testimonia già la sequenza dei capitoli.

Chiesa dalla Trinità

Il primo capitolo presenta la Chiesa come mistero, il secondo come Popolo di Dio e il terzo guarda alla sua struttura con particolare riferimento all’episcopato. Il Concilio, citando san Cipriano (PL 4, 53), sottolinea il fatto che la Chiesa è «un popolo che deriva la sua unità dall’unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo» (LG 4). La Chiesa allora non è primariamente un’organizzazione, ma una realtà vivente. Infatti Sant’Ireneo di Lione parla dell’«organismo antico della Chiesa».

 Nelle parole del teologo Klaus Hemmerle: «La Chiesa è la Santissima Trinità in esilio in terra, mentre la Trinità è la Chiesa a casa in cielo». Perciò la Chiesa è anche «in Cristo come un sacramento, cioè segno e strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano» (LG 1). Nasce da qui la necessità urgente di avere delle categorie che siano in grado di esprimere una visione della Chiesa come comunione teandrica dell’umanità con la Santissima Trinità e in se stessa.

Solo nel terzo capitolo si arriva alla struttura ministeriale della Chiesa-comunione. Emerge il tema unità-comunione nella dottrina sulla collegialità dei vescovi con il Papa quale successore di Pietro e perciò fondamento della loro unità visibile nel mondo. Ritorna anche qui il paradigma, a testimonianza del trinitario sigillo del Dio unitrino sulla Chiesa peregrinante in terra.

Ed è proprio in questo contesto che incontriamo la dottrina conciliare sul diaconato. Non sorprende allora che, proprio nel numero precedente, il Concilio riprenda il tema dell’unità: «Siccome oggigiorno l’umanità va sempre più organizzandosi in una unità civile, economica e sociale, tanto più bisogna che i sacerdoti, consociando il loro zelo e il loro lavoro sotto la guida dei vescovi e del sommo Pontefice, eliminino ogni causa di dispersione, affinché tutto il genere umano sia ricondotto all’unità della famiglia di Dio» (LG 28). È quasi una ripetizione dell’ouverture della Costituzione. I sacerdoti, e al medesimo modo i diaconi, devono essere sopratutto uomini di comunione e perciò operatori, con i loro vescovi, di quell’unità desiderata da Gesù.

La diakonia cristiana

In questa prospettiva c’è un’altra dimensione fondamentale, quella cristologica. Cristo ha portato in terra la vita del Dio unitrino. «Sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza» (Gv 10, 10). E l’ha insegnata e mostrata con la propria esistenza: il suo amore fino alla croce (cf Gv 13, 1; Gal 2, 20; Ef 5, 2) mostra come vivere non solo secondo la nuova vita, ma anche nella e dalla nuova vita. Bisogna vivere l’altro: «Tu sei più importante di me» (cf Fil 2, 3). Gesù mostra un Dio che «non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha consegnato per tutti noi» (Rm 8, 32). E ci ha dato il suo comandamento: «Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri» (Gv 13, 34).

Questa prospettiva è sottolineata dal documento della CTI sin dall’inizio: «Con l’incarnazione del Verbo che è Dio e mediante il quale tutto è stato fatto (cf Gv 1, 1-18) si è realizzata la rivoluzione più inimmaginabile. Il Kyrios è il diakonos di tutti. Il Signore Dio viene incontro a noi nel suo Servo Gesù Cristo, Figlio unico di Dio (Rm 1, 3), che era nella morphe theou (forma divina); egli «non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio, ma spogliò se stesso, assumendo la morphe doulou (forma del servo) e divenenendo simile agli uomini […], umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce» (Fil 2 ,6-8).

Il cristianesimo è “sovversivo”, perché il suo Fondatore è un rivoluzionario: diventa diakonos di tutti. Come dice il Padre apostolico Policarpo: «Il Signore si è fatto servo di tutti». Perciò c’è un timbro cristologico sulla vita ecclesiale in tutte le sue dimensioni. E questo timbro svolge un ruolo sia informativo come anche “performativo”: il Figlio, che ha vissuto la kenosi, rivelò che «Dio è amore». (1Gv 4, 8; 16). L’essenza del cristianesimo s’impara solamente dalla diakonia del Cristo. Altrimenti non si capisce più il Cristo che «spogliò se stesso» e «umiliò se stesso fino alla morte, e a una morte in croce». Ogni fratello che incontro è mio signore. Ed io? Sono suo diakonos. Solo chi cerca di vivere così è un cristiano. Ecco perché «... solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell’uomo» (GS 22). Ne segue che «solo nel dono generoso di se stesso l’uomo scopre se stesso». Amo, ergo sum è la verità dell’esistenza umana rivelataci in Gesu, il Figlio di Dio divenuto il Figlio dell’uomo. Perciò, come amavano dire i Padri della Chiesa, la cosa più stupenda che può capitare all’essere umano è diventare cristiano e vivere da cristiano.

Leggendo i testi del Vaticano II

Per un approfondimento teologico del diaconato, il documento della CTI ci fornisce una precisa indicazione metodologica: «Un approccio teologico del diaconato nella linea del Vaticano II deve partire dai testi conciliari, esaminare come essi siano stati recepiti e poi come sono stati approfonditi nei documenti del Magistero, tenere conto del fatto che il ripristino del diaconato si è realizzato in modo disuguale nel periodo postconciliare e, soprattutto, prestare una particolare attenzione alle oscillazioni di tipo dottrinale che hanno accompagnato come un’ombra tenace le varie posizioni pastorali». (Inizio cap. VII).

Perciò incominciamo con un’ampia lettura dei testi conciliari, seguendo il lavoro fatto dalla CTI. È necessario rendersi conto che essi sono numerosi (cf SC 35; LG 28, 29, 41; OE 17; CD 15; DV 25; AG 15, 16) e mostrano la crescente importanza del tema durante il Vaticano II.

Questa importanza non è facile capirla. Il diaconato permanente era un’istituzione scomparsa da più di un millennio nella Chiesa. Perché mai questo interesse emergeva con vigore proprio durante il Concilio? Vi c’entrano sia l’esperienza della Chiesa nel dopoguerra sia le intenzioni del Concilio stesso. Bisogna ricordare che molti vescovi sentivano profondamente la mancanza di sacerdoti in determinate regioni.

Il dibattito nel Concilio si svolgeva molto lentamente, più su un livello pastorale che dottrinale. I Padri conciliari vedevano nel diaconato una realtà che avrebbe dato nuova importanza al sacerdozio. Allora la ricerca della base teologica di questo servizio nella Chiesa prese un particolare rilievo.

Alcuni Padri nel Concilio misero l’accento sul fatto che il diaconato faceva parte della costituzione della Chiesa sin dall’inizio (cf LG 28a). Il ripristino non sarebbe infatti un cambiamento, ma un ritorno ad una prassi già presente all’inizio, ma andata perduta lungo la storia.

Altri Padri sottolineavano il fatto che il diaconato faceva parte del sacramento dell’ordine e che ciò costituiva un motivo in più per ripristinarlo. Ricordavano le parole di Sant’Ignazio di Antiochia che parla di vescovi, presbiteri e diaconi, che insieme portano avanti la vita della Chiesa.

«La LG (n. 29), però – osserva la CTI – presenta ciò che si potrebbe chiamare la “ragione circostanziale” per il ripristino del diaconato permanente. Il Vaticano II prevede che i diaconi si debbano impegnare in compiti (munera) sommamente necessari per la vita della Chiesa (ad vitam ecclesiae summopere necessaria), ma che in alcuni luoghi sarebbero difficilmente attuati a motivo della disciplina corrente della Chiesa latina.

Le difficoltà della situazione presente causate dalla mancanza di preti esigono una risposta. La cura dei fedeli (pro cura animarum) è il fattore determinante per ripristinare il diaconato permanente in una Chiesa locale. Il ristabilimento del diaconato permanente è dunque ritenuto rispondere a bisogni pastorali gravi e non soltanto periferici. Ciò spiega in parte perché spetta alla responsabilità delle Conferenze episcopali territoriali e non a quella del Papa determinare se sia opportuno ordinare tali diaconi, perché esse hanno una conoscenza più immediata delle necessità delle Chiese locali.

I sacerdoti allora non sono costretti ad adempiere tutti i doveri necessari per la vita della Chiesa» (Doc. cit, cap. V).

Il Decreto conciliare sulle missioni, Ad Gentes, sottolinea altri motivi per il ripristino del diaconato: ci sono  nella vita della Chiesa uomini che esercitano di fatto un ministero diaconale senza essere ordinati. Ordinati  diaconi per l’imposizione delle mani, essi sarebbero capaci di esercitare il loro ministero fortificati dalla grazia del sacramento. Come dice ancora la CTI: «Infine, è una conferma, un rafforzamento e una più completa incorporazione al ministero della Chiesa di coloro che esercitano già de facto il ministero di diaconi».

La visione dottrinale del Concilio consiste sopratutto nell’insegnamento che «Cristo ha istituito i ministeri sacri per nutrire e far crescere il Popolo di Dio. Un potere sacro è conferito ai ministri per il servizio del Corpo di Cristo in modo che tutti possano ottenere la salvezza» (LG 18 a).

Allo stesso modo degli altri ministri sacri, i diaconi devono dunque consacrarsi alla crescita della Chiesa e al perseguimento del suo disegno di salvezza. I vescovi, che possiedono la pienezza del sacerdozio, i presbiteri quali loro cooperatori nel sacerdozio ministeriale e i diaconi, esercitano un unico ministero ecclesiastico nella comunione ministeriale.

Distinti secondo la volontà del Cristo, nel pensiero del Vaticano II la missione di tutti i ministri sacri è di nutrire il Popolo di Dio per la salvezza e renderlo strumento nelle mani di Dio per il bene di tutta l’umanità.

L’esperienza del diaconato
permanente dopo il Concilio

Al tempo del Vaticano II il tema del diaconato permanente, come abbiamo visto, aveva un aspetto fortemente pastorale. Oggi viene ancor più in rilievo questo aspetto perché in parecchie Chiese locali le prospettive del Concilio sono state già messe in pratica. Dato il fatto che secondo il Concilio era compito dei vescovi, in unità con il Papa, decidere sul ripristino o meno del diaconato permanente nelle loro diocesi, la Chiesa ha imparato tanto nei decenni passati. Nello stesso tempo il sensus fidei del Popolo di Dio ha potuto ricercare più a fondo il senso della tradizione ecclesiale. Perciò conviene guardare all’esperienza vissuta dopo il Vaticano II, come fa il testo della CTI nel suo capitolo sesto.

Si possono riconoscere due situazioni tipiche nell’esperienza del diaconato permanente. Quella delle Chiese locali dove i diaconi sono pochi, e quella delle Chiese locali con tanti diaconi. Le statistiche mostrano una grande diversità. Subito dopo il Concilio molti pensavano che il diaconato sarebbe la soluzione per tanti problemi pastorali in Africa e in Sud America. Invece è avvenuto il contrario: in questi continenti i diaconi sono pochi, mentre la grande maggioranza di essi si trova negli USA e in genere nell’Europa Occidentale.

Come interpretare questo fatto, quando appena finito il Vaticano II ci si attendeva proprio il contrario? Una spiegazione è la seguente. Nelle Chiese giovani c’erano i catechisti che hanno svolto e svolgono una diakonia eccellente in mezzo alle comunità locali. In queste circostanze i vescovi non hanno sentito il bisogno di promuovere il diaconato permanente. Nell’Occidente invece, a motivo della diminuzione dei sacerdoti, i vescovi lo hanno promosso.

In ambedue le situazioni le esigenze pastorali costituiscono le “ragioni circostanziali” per cui è stato promosso o meno il diaconato, pur se nel Concilio i Padri lo volevano rifondare per un motivo di fede, per mettere in luce cioè la forma originaria tripartita del ministero dato da Gesù Cristo alla sua Chiesa come segno della diaconia di tutti i membri del Corpo mistico.

Orientamenti magisteriali dopo il Concilio

La situazione concreta del diaconato permanente nell’oggi della Chiesa, dove esso può essere inteso solamente come una specie di ministero ausiliare ai sacerdoti, costituisce una nuova sfida per una vera comprensione e un’autentica dottrina sul diaconato. Questa sfida è il contesto, insieme necessario e rilevante, per leggere le linee principali dell’insegnamento del magistero postconciliare.

Una prima linea riguarda la sacramentalità del diaconato. «Considerare il diaconato come una realtà sacramentale costituisce la dottrina più sicura e più coerente con la prassi ecclesiale» (CTI, doc.cit., cap VII). Questo infatti è il punto di partenza per lo studio degli altri elementi dottrinali. Questa sacramentalità trova la sua radice in Cristo, anche se non richiedesse che Cristo stesso l’abbia “istituito”. Anzi, «il linguaggio prudente del Concilio di Trento (divina ordinatione) e del Vaticano II (divinitus institutum [...] iam ab antiquo [...]) fa eco all’incapacità di identificare totalmente l’azione di Cristo e della Chiesa in rapporto ai sacramenti come pure alla complessità dei fatti storici» (Ibid. VII, II, 1).

Mentre il Concilio non menziona il carattere sacramentale del diaconato, quale parte integrante del sacramento dell’Ordine, il Sacrum diaconatus di Paolo VI lo menziona. Ma questo non risolve tutte le difficoltà teologiche. Per esempio resta la domanda di come distinguere il carattere sacramentale del diaconato da quello del presbiterato.

Una seconda linea riguarda lo specifico del diaconato. Il vescovo e il presbitero agiscono in persona Christi capitis. Nei testi conciliari però non viene mai applicata questa frase al ministero diaconale. Questo linguaggio emerge nei documenti postconciliari. I teologi ne discutono con vigore senza aver raggiunto una visione unanime.

In genere, lo specifico del diaconato deve essere distinto dallo specifico dell’episcopato e del presbiterato. Una possibile via sarebbe forse di riconoscere lo specifico del diacono nel fatto che agisce in persona Christi Servi. Il diacono sarebbe allora l’icona del Cristo quale Servo dell’umanità intera.

Un chiarimento si trova nella LG 29a, dove si insegna che i diaconi ricevono l’imposizione delle mani «non per il sacerdozio, ma per il ministero». In genere si può dire che i vescovi e i sacerdoti hanno la «potestas conficiendi eucharistiam et absolvendi etc.».

Identita del diaconato nel contesto dell’ecclesiologia di comunione

Nell’ecclesiologia del Vaticano II incontriamo una maturità e una ricchezza straordinaria. Due delle quattro Costituzioni del Concilio presentano il mistero della Chiesa. L’ecclesiologia che ne deriva viene sempre più descritta come “ecclesiologia di comunione”, specie dopo il Sinodo dei vescovi del 1985. «Grazie a tale ecclesiologia, si precisa il significato della Chiesa in quanto “sacramento universale della salvezza” che trova nella comunione del Dio trinitario la fonte e il modello ecclesiale di ogni dinamismo salvifico. La diaconia ne costituisce la realizzazione storica. Si tratta ora di integrare nella diaconia, che compete a tutto il Popolo di Dio, la configurazione sacramentale che essa riveste nel ministero del diaconato» (Ibid., IV).

Secondo la tradizione antica della Chiesa, l’insegnamento del Vaticano II e il magistero postconciliare, il diaconato include una pluralità di funzioni escercitate secondo priorità varianti e variabili. Come possiamo arrivare ad una concentrazione sull’identità del diacono? Bisogna contestualizzarla nell’insieme della Chiesa-comunione, nella quale il diacono è chiamato ad essere un uomo di comunione vissuta.

Si può vedere questa comunione specificata secondo i tria munera classici, poichè i diaconi «servono il popolo di Dio nel ministero della liturgia, della predicazione e della carità» (LG 29a). Dal punto di vista esistenziale e spirituale, si traduce in una triplice comunione, costitutiva della vita diaconale: la comunione con Gesù nell’Eucaristia, nella Parola e nel prossimo.

Il diacono incontra il Signore risorto nell’Eucaristia

 Infatti, «chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui» (Gv 6, 56). Come «il sacramento dell’amore, il segno dell’unità e il vincolo della carità» l’Eucaristia fa dei tanti un solo corpo. Il corpo sacramentale costruisce il corpo mistico. Alla luce di questo mistero, il diacono, la cui diakonia viene adempiuta in modo particolare nell’ambito dell’Eucaristia, deve diventare sempre più “l’uomo della comunione” per essere coerente con ciò che fa nella liturgia.

Il diacono vive e annuncia la Parola

Prima però deve incontrare il Logos-fatto-uomo per gli uomini nella sua Parola, poichè la Parola è anch’essa presenza del Signore crocifisso e risorto. È Parola di vita divina (cf Fil 2, 16) che nutre la vita divina nel cuore del credente e a fortiori nel diacono. Prima di predicare la Parola ad altri deve essere colui che non solo ascolta la Parola, ma la mette in pratica (cf Gc 1, 22-25).

Il diacono ama per primo

Secondo la rivelazione Gesù è morto per noi (cf 1Cor 8, 11) e vive in ogni persona umana. Questo fatto è un cardine della fede, per cui ciò che facciamo all’altro è fatto in realtà a Gesù (cf Mt 25, 30-45). Dato che Gesù è in ciascuno, il diacono riceve il mandato di servire Gesù in tutti per amore. Gesù «ci ha amati per primo» (1Gv 4, 19), e così il diacono si trova sotto il dolce imperativo d’imitarlo amando per primo.

Questa triplice comunione – con Gesù nell’Eucaristia, con Gesù nella Parola e con Gesù nel fratello – aiuta il diacono ad essere «radicato e fondato nella carità» (Ef 3, 17). Così i diaconi – o meglio Gesù in loro – diventano col tempo sempre più adatti a svolgere la loro diakonia in mezzo al popolo di Dio: vivono costantemente come uomini di comunione, prima e mentre esercitano i tre munera che hanno appunto la finalità di costruire la Chiesa-comunione.

Concludo con un’ultima considerazione: dato che il bisogno più urgente nel terzo millennio è di «fare della Chiesa la casa e la scuola della comunione» (NMI 43), la vocazione dei diaconi ha una bellezza particolare: vivendo come uomini di comunione, essi non solo collaborano nell’edificazione di una Chiesa dal volto attraente, ma con la loro presenza nel mondo rispondono  anche agli aneliti più profondi e legittimi dell’umanità di oggi.

Thomas Joseph Norris