La luce che mi colpì
di Silvano Cola
L’autore racconta del suo incontro con la spiritualità dell’unità
nei primi anni ’50: scoperta sconvolgente del Vangelo, vissuto con radicalità,
e di una vita a mo’ della
SS. Trinità.
Quando
sono stato ordinato sacerdote pensavo di es-sere già
arrivato alla maturità umana e spirituale perché oltre agli studi filosofici e
teologici avevo preso il diploma magistrale, avevo studiato pedagogia
all’università di Torino, avevo preso il diploma in psicologia, lavoravo a
Torino in una Città di ragazzi abbandonati, facevo scuola di psicologia sociale
alle e agli assistenti sociali.
Dopo soli quattro anni di sacerdozio sono entrato in una crisi
intellettuale, perché pensavo che tutta la filosofia e teologia studiata non serviva assolutamente a nulla nel ministero. Pensavo
onestamente di lasciare il sacerdozio quando un amico
che studiava al politecnico di Torino, e che non conosceva per niente quanto mi
passava per l’anima, un giorno mi disse: «Sai, Silvano, ho
conosciuto un Movimento…». Lo bloccai immediatamente. Per me, psicologo, un
movimento era un leader davanti e tanti pecoroni dietro, il contrario della realizzazione di sé. La sua insistenza durò almeno due mesi,
ma ancora non era riuscito a dirmi il nome del
Movimento.
Un giorno mi affrontò: «Senti, Silvano, tu sei un prete cattolico e io
sono cattolico; ho conosciuto un Movimento che non so
se è protestante o cattolico: devi conoscerlo almeno per dirmi se posso farne
parte!».
Non mi sono accorto che era una trappola. Con grande
prosopopea ho risposto. «Se è solo per questo…». Dopo
un’ora ci troviamo in un appartamento dove c’era una sola signorina che ci
accoglie, ci saluta, e noi ci sediamo, zitti.
Lei con un sorriso dice: «Se voi non parlate, devo
parlare io. Cosa vi racconto… forse come passiamo la
nostra giornata… Ecco, appena ci svegliamo riscegliamo Dio come l’unico tutto
della nostra vita…».
Per me fu il primo colpo: sentii torcersi lo stomaco (in dodici anni di
seminario non avevo sentito una frase del genere). Poi – continua – «prepariamo
la colazione per Gesù nelle nostre compagne, andiamo in ufficio ad amare Gesù
nel capoufficio, ad amare Gesù nelle nostre colleghe
d’ufficio…».
Credo di non aver mai sofferto tanto come in
quella mezz’ora. L’unico pensiero insistente era: «Ma
questa è immacolata!». Dentro di me ero stravolto. Quando
uscimmo dissi all’amico: «Se sono protestanti o cattoliche non
te lo so dire, so soltanto che è successa una cosa importante».
Scappai (avevo la moto). Non riuscii più a dormire per vari giorni. Ero
un automa anche nel lavoro; continuavo a chiedermi: «Ma chi sono
queste persone?». Mi dissi allora: «Se continuo così
divento matto: devo rendermi conto di chi sono». E
tornai da solo nello stesso appartamento. Mi aprì un’altra signorina che
salutai, chiedendole se non era in casa quell’altra
che mi aveva parlato. Rispose che era sola, e io un po’ abbattuto le dissi:
«Per favore, quando ritorna le dica che è passato di qui don Silvano». E lei: «Ah, ma lei è don Silvano, venga avanti!». Non
l’avevo mai vista in vita mia, e lei già mi conosceva. Rimasi zitto. Lei mi
parlò raccontandomi la sua e la loro esperienza spirituale.
«Inizia la vita nuova»
Quando uscii, per le scale cantavo: «Quasi
modo geniti infantes – come bambini appena nati cercate il latte della sapienza». Era come se fossi nato in quel momento. La vita passata non esisteva
più e non mi interessava, come non avesse avuto alcun
valore. Con la gioia nel cuore pensavo: «Incipit vita nova», come ha scritto Dante
nel canto del Paradiso. Avevo capito che del Vangelo non avevo capito niente: sapevo parlarne, ma non l’avevo vissuto.
«Dicono, e non fanno» – e sant’Agostino nel Sermone 74
aveva commentato: «Se dicono e non fanno sono gente
cattiva, e se sono cattivi non possono dire cose buone». Mi ero visto
fotografato. E mi sentivo abbagliato dalla luce nuova
che sgorgava dal Vangelo.
Per almeno due mesi in ogni momento libero dal
ministero andavo dalle focolarine: stavo zitto, in contemplazione, ascoltando
sapienza: il Vangelo vissuto nella vita normale quotidiana. Avevo visto dischiudersi
finalmente la novità del Vangelo.
Distruzione e risurrezione dell’io nel noi
Quando per la prima volta trovai a casa i focolarini, conobbi
Vittorio Sabbione, un grande avvocato di Torino. Mi raccontò come viveva questa
nuova spiritualità da avvocato, cose che avrei mai immaginato potessero succedere, e allora anch’io mi azzardai a
raccontargli le piccole esperienze fatte in quei due mesi. In questa comunione
mi colpì moltissimo una nuova realtà mai sperimentata, che poi ho capito essere quello che chiamavano “Gesù in mezzo”,
tanto che salutandolo gli dissi: «Vittorio, lavorando con i ragazzi abbandonati
e delinquenti sono diventato anch’io mezzo delinquente e forse lo sarò sempre,
ma anche se vado all’inferno questa esperienza me la
porto dietro». Era la distruzione e la risurrezione dell’io nel “noi” e,
contemporaneamente, era “paradiso”. Il mondo era fuori.
Dopo sei mesi, ai primi di luglio del ’55, andai a Vigo di Fassa, nel Trentino,
dove per la prima volta partecipai ad uno di quegli incontri estivi che si
chiamano Mariapoli. Un mondo nuovo, straordinario. Vidi
Chiara, vidi la sua straordinaria semplicità e normalità evangelica,
armonia. Capii cosa era una persona che portava un carisma. Impegnatissima, mi
disse che avrebbe mandato una delle sue prime compagne a parlarmi. Con lei
scoprii il segreto di Dio e dell’uomo: dimenticare il proprio io per poter
amare veramente l’altro. Non spiego oltre. Basterebbe capire a
fondo cosa vuol dire Gesù quando dice: «Il Padre è in me e io sono nel
Padre». Fino a questo punto arriva l’Amore. Per questo si capisce l’altra
affermazione: «Il Padre e io siamo una cosa sola».
Gesù abbandonato è l’unica vera chiave per arrivare all’Uno. È questo il
modello trinitario che anche i cristiani devono cercare di vivere: «Amatevi gli uni gli altri come Io ho amato voi».
Per dirla in breve: sono queste le tre rivelazioni – così posso
chiamarle, perché per me lo sono state – che mi si sono piantate nell’anima:
Dio-Amore come unico tutto della nostra vita – prima del sacerdozio, prima del
ministero, prima della nostra famiglia – ; vedere Gesù
in tutti perché tutti siamo creature e figli di Dio, uomini come Gesù è stato
uomo, anzi, l’Uomo; Gesù crocifisso e abbandonato, ossia l’Uomo al culmine
della sua maturità umana, libero da ogni condizionamento, anche nel momento del
buio della sua separazione dal Padre, quando per amore si rimette al Padre.
C’era solo un difetto: l’unità, questo paradiso, era più facile attuarla
con le focolarine e i focolarini che tra sacerdoti (il nostro Ego sacerdotale
era molto accentuato). C’è voluta la proibizione, data dalla Conferenza
Episcopale in Italia, di continuare ad avere contatti con il Movimento dei
focolari, proibizione che durò dal 1959 al 1960, per costringerci a fare un
passo che sembrava impossibile: tra un gruppetto di sacerdoti, per non perdere
la Vita trovata, facemmo un patto di unità: «Piuttosto
morire che perdere Gesù in mezzo a noi».
E siamo ancora qui, nella splendida famiglia del Movimento dei
focolari, famiglia di Dio, perché Gesù ne è l’unico
vero legame.
Silvano Cola