Dialogo della vita nelle istituzioni e tra teologi

Vivere per l’unità

di Brendan Leahy

Da vari anni il teologo irlandese Brendan Leahy è impegnato nel campo ecumenico a diversi livelli: segretario diocesano, segretario della Commissione ecumenica della Conferenza episcopale, membro dell’Irish InterChurch Meeting (ilforum ufficiale di dialogo fra i capi e rappresentanti delle Chiese e Comunità ecclesiali), membro del Consiglio delle Chiese a Dublino. Tali incarichi l’hanno portato a partecipare in diversi raduni ecumenici anche all’estero, tra cui nel 2007 alla III Assemblea ecumenica a Sibiu e recentemente al primo Forum europeo fra la Chiesa cattolica e le Chiese ortodosse in Europa. In quest’articolo offre alcuni spunti su ciò che ha imparato in questi anni da “ecumenista”.


Come si sa, il rapporto fra cristiani in Irlanda, non è senza problemi. Spesso nei giornali si legge della lotta fra cattolici e protestanti.

Anche se sarebbe meglio non usare queste etichette religiose – poiché i veri motivi del travaglio sono storici, culturali e politici – nondimeno non possiamo negare la tragedia del fatto che cattolici e protestanti, fino a poco tempo fa, si trovavano comunque in una situazione di tensione forte.

Per questo nell’Isola dei santi, dei discepoli di San Patrizio, il dialogo ecumenico non è tanto un desiderato dopo il Concilio Vaticano II quanto una necessità cruciale.

Quanto a me, in seguito al mio incontro in Irlanda all’inizio degli anni ‘80, con la spiritualità dell’unità dei Focolari, l’impegno ecumenico è diventato una conseguenza logica di una chiamata a indirizzare tutta la mia vita all’unità con Dio e con i fratelli e le sorelle. Una delle prime volte che ho sentito parlare Chiara Lubich mi è rimasta scolpita dentro una sua frase: io vivo per la fraternità universale. È una frase audace che mi pare vada ripetuta spesso e che, in mezzo a tante distrazioni nella vita, rimette di continuo sulla via giusta.

 

L’unità è un dono

 

Mi è sempre stata di luce anche un’altra frase, detta da Chiara ad un mio amico di rito bizantino. Questi, incontrandola nella basilica di S. Pietro dopo una cerimonia, le aveva chiesto: «Come si fa l’unità?». Ella rispose semplicemente: «L’unità non si fa: è un dono». La risposta ci toccò tutti.

Sì, spesso pensiamo di creare noi l’unità, ma sbagliamo perché nel “crearla” rischiamo di non rispettare l’altro come altro. Non posso, infatti, costringere nessuno all’unità. Non devo annullare l’alterità dell’altro per stabilire l’unità. L’unità vera arriva come dono per l’amore vissuto che porta nuova vita all’all'altro: mettendo a morte l’uomo vecchio in noi, rigeneriamo a vita nuova l’altro. Per cui, la tensione verso l’unità parte da come io vivo in Dio e Lui-Amore può coinvolgere l’altro. Così l’impegno ecumenico inizia per me dalla vita stessa che vivo nella spiritualità di comunione con i fratelli della mia comunità. È questa scuola d’unità che mi forma. Quante volte ho sperimentato che una battuta detta magari in fretta o un’iniziativa presa nell’entusiasmo, ma non vista bene in comunione con gli altri, rompe l’unità. Cercando di custodire la fiamma dell’amore reciproco fra noi con tutto l’impegno che ciò richiede, diventiamo capaci di un autentico dialogo ecumenico “ufficiale” e teologico.

 

La Parola

 

San Paolo a Mileto, rivolgendosi ai presbiteri della Chiesa di Efeso, disse: «Io vi affido a Dio e alla sua Parola di grazia...» (At 20, 32). La Parola accolta e vissuta diventa protagonista e porta avanti l’impegno ecumenico.

Un’esperienza al riguardo. Avendo condiviso col preside del Collegio metodista di Belfast, il rev. Dennis Cooke, la mia scoperta del carisma dell’unità e impegnandoci ambedue nel vivere la Parola di vita, è cresciuto fra noi un rapporto che è andato sempre più in profondità. Ad un certo punto è nata l’idea di cercare di coinvolgere i nostri due collegi nell’insegnamento comune di un programma universitario in teologia. Per dirla in breve, una trentina di studenti di tutte le principali Chiese si sono iscritti al corso che abbiamo proposto alla Queen’s University di Belfast. Tale programma veniva portato avanti in unità dai protestanti e dai cattolici.

Oltre alla grande gioia che abbiamo sperimentato, ci sono stati molti echi positivi. Sono caduti numerosi pregiudizi. Così, per esempio, una signora che aveva lavorato per tanti anni in modo eroico in missione in Asia, ma che aveva sempre creduto che i cattolici fossero ignoranti della Scrittura, mi ha detto: «Non giudicherò mai più così la Chiesa cattolica, perché ho capito che anche voi avete un grande amore per la Scrittura».

Ora, sono passati diversi anni e il progetto continua in un’altra forma, coinvolgendo un numero maggiore di studenti. Spesso nei raduni ecumenici ufficiali, si fa riferimento a questo nostro progetto.

 

Saper perdere tempo

Indubbiamente l’ecumenismo gira attorno ai rapporti costruiti giorno per giorno. Per questo si deve saper perdere tempo. Recentemente, per esempio, c’è stata una presentazione a Belfast di un nuovo libro di un mio amico riformato, capo di una comunità ecumenica molto conosciuta che si chiama The Corrymeela Community. Anche se da dove abito occorrono quasi tre ore per arrivare a Belfast, ho deciso di andare per il semplice motivo di rendere tangibile l’amore fraterno. Il mio amico è rimasto molto contento.

A dire il vero, ormai la macchina arriva a Belfast quasi da sola, perché è un viaggio che faccio abbastanza spesso per andare a trovare persone o partecipare ai raduni. Belli, per esempio, sono stati i tanti momenti di preparazione per la giornata “Insieme per l’Europa” fra Movimenti di diverse Chiese.

Occorre saper perdere tempo anche nelle cose più banali. Per esempio, dopo il raduno ufficiale fra i rappresentanti delle Chiese che si tiene alcune volte ogni anno, cerco sempre di rimanere per pranzare insieme. Sembra una cosa piccola, ma spesso è durante il pranzo che si ha più tempo per vivere nella semplicità il dialogo concreto.

Chi è incaricato per l’ecumenismo sa che la vita diventa pienissima di incontri. Alle volte, si passano ore e ore in conferenze, simposi, sinodi, incontri di Consigli. Ebbene, emerge la tentazione di evitare questi appuntamenti. Non dico che riesco sempre a viverli con la disposizione giusta, però ho imparato dall’Ideale dell’unità di Chiara Lubich a vedere anche in questi incontri un’occasione per esprimere il mio amore a Gesù nei fratelli.

 

«Percorrere» il cammino ecumenico con Gesù fra noi

L’ecumenismo è anche un gioco! Spesso abbiamo idee ben precise di come dovranno andare le cose ma, in fondo, dobbiamo stare al gioco e lasciare fare a Dio che ha una fantasia più grande.

Così, per esempio, per diversi anni, mi è stato spiegato che a Dublino non era possibile che la Chiesa cattolica facesse parte del Consiglio delle Chiese, già esistente fra le altre Chiese. Me ne ero convinto anch’io. Però, quando il nuovo arcivescovo ha incontrato il Consiglio, è nata l’idea di iniziare un processo verso questo passo. Toccava a me lavorare insieme con altri sui documenti che ci mettessero d’accordo, ecc. Ho dovuto superarmi per capire che si trattava di “percorrere” questa nuova via, seguendo Gesù che apre le porte come e quando vuole. Grazie a Dio, nello scorso gennaio (100° anniversario della Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani), la Chiesa cattolica è diventata membro del Consiglio delle Chiese a Dublino. L’arcivescovo ne è rimasto molto contento ed ha commentato: «È un passo visibile e positivo che rafforzerà la testimonianza comune. Così le Chiese di Dublino possono dare un messaggio che, alla luce di Gesù Cristo, contribuirà all’unità vera nell’umanità».

Un’altra sorpresa gradita è stata quando due anni fa la Conferenza episcopale irlandese è stata incaricata dal Pontificio Consiglio per l’unità dei cristiani di predisporre il testo per la Settimana di preghiera. Toccava a me formare un comitato di rappresentanti di diverse Chiese per scegliere un tema, preparare i diversi brani biblici come meditazioni, ecc. È stata una piccola avventura, perché si doveva fare tutto a breve scadenza. Sulla base dei rapporti già stabiliti, tutto è andato benissimo. Con mia grande gioia è emersa l’idea di proporre come tema: «Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro» (Mt 18, 20).

“Percorrere” il cammino ecumenico, attento a ciò che Gesù vuole insegnarci, implica la disposizione a voler imparare. Per me è sempre motivo di ammirazione partecipare ai  raduni presieduti da protestanti. Ogni incontro comincia con una lettura biblica, un commento e una preghiera. Si sente il grande desiderio di non ritrovarsi semplicemente e casualmente, ma piuttosto di radunarci nel nome di Gesù. Questo vale.

Ho partecipato qualche volta anche al Sinodo nazionale della Chiesa anglicana d’Irlanda. Pure lì ho potuto imparare molto da come viene articolata un’assemblea di circa 600 persone (vescovi, pastori, laici/laiche e giovani), ciascuno con il diritto di dare la propria opinione sulle questioni sotto discussione: dalle finanze alla pastorale. Pieno di buon senso pratico, il metodo sinodale, ormai in uso da loro da tanti anni, ha da insegnare qualcosa a noi cattolici nell’impegno di fare della nostra Chiesa una casa e una scuola di comunione.

L’anno scorso sono stato al dialogo con un gruppo dell’Esercito della Salvezza. Mi hanno spiegato come funziona “il coperchio” nella loro Comunità. Il riferimento è al “coperchio” dell’arca dell’alleanza, simbolo della misericordia di Dio verso il suo popolo. Nelle loro riunioni, dopo l’ascolto e la meditazione sulla Parola, chi ne sente il bisogno va davanti all’assemblea e si mette in ginocchio per chiedere perdono a Dio dei propri peccati o per domandare aiuto per una situazione difficile nella quale si trova. Qualcuno della Comunità viene accanto a lui e, mettendo la mano sulla sua spalla, prega con lui e per lui. Con questo gesto si vuol rendere tangibile il fatto che non andiamo a Dio da soli. Sentendo questa spiegazione, non potevo non pensare al sacramento della riconciliazione nella nostra Chiesa.

Oggi si parla dell’importanza di un’ecumenismo di “ricezione”, cioè lo scambio dei doni che possiamo condividere fra noi. Non è tanto la domanda: che cosa la mia Chiesa può insegnare agli altri, ma piuttosto che cosa posso imparare dagli altri. Ricordo un seminario su Maria che ho potuto realizzare insieme a rappresentanti di diverse tradizioni (anglicani, riformati, metodisti, ortodossi) ancor prima del documento di ARCIC (Comitato del dialogo ufficiale fra la Chiesa cattolica e la Comunione anglicana) su Maria. È stato un momento profondo di scambio. Una signora riformata ci ha detto che era la prima volta che trovava il coraggio di riflettere su chi è Maria per lei. Quando un luterano, parlando con grande amore, ci ha spiegato che per lui era difficile comprendere come i cattolici possano trovare spazio per Maria nella vita spirituale, mi ha fatto capire quanto dobbiamo riscoprire e così spiegare quel “nulla d’amore” di Maria che non invade lo spazio interiore dell’unione con Dio, ma ne diventa il grembo dove accade l’evento della Parola che ci vive.

 

Il Crocifisso ecumenico

 

Per entrare profondamente nel rapporto di dialogo con altri bisogna sempre andare al di là di noi stessi. Non è mai un passo scontato, fatto una volta per sempre. Per questo trovo in Gesù Abbandonato il vero crocifisso ecumenico. Ricordo un esempio. Il preside del Collegio metodista, di cui ho parlato sopra, stava per andare in pensione. Per l’addio voleva che si celebrasse una cerimonia eucaristica metodista e mi ha invitato a tenere l’omelia.

Certo, era un grande onore ma, avendone parlato col mio vescovo, ho capito che per diversi motivi non era il caso di accettare l’invito. Pur felice della volontà di Dio indicata dal vescovo, non nascondo il dolore che ho sentito nel dover dire di “no”, prevedendo il disappunto del mio amico. Per l’amore a Gesù abbandonato in me e nell’anima sua, gli ho communicato la mia decisione. Certo, è stato un colpo per lui con qualche momento di tensione fra noi. Ma, avendo io fatto il passo, anche lui ha fatto la sua parte e ci siamo ritrovati ambedue in una nuova situazione di luce. È emersa l’idea di fare non una celebrazione eucaristica, ma una cerimonia della Parola e potevo così accettare l’invito di fare la predica. Dopo questa esperienza la nostra amicizia si è approfondita.

Inevitabilmente arrivano momenti di malintesi nel dialogo ecumenico. Ricordo gli incontri avuti dopo la pubblicazione del documento Dominus Iesus della Congregazione per la Dottrina della fede nel 2000 o prima ancora in Irlanda la publicazione di un documento sull’eucaristia nel 1998: tanto scalpore, tante critiche, tante parole di “accusa” verso di noi per la nostra mancanza di cortesia, per la nostra arroganza e per la nostra durezza di cuore. Non è comodo sentir dire queste cose della tua Chiesa che tanto ami. Anche qui l’amore a Gesù crocifisso e abbandonato è la chiave. È andando in fondo al cuore e dichiarandogli: «Sei Tu, ti voglio bene», che egli ci dà la forza di continuare ad approfondire il rapporto.

Nel 2000 ho dovuto partecipare ad un programma televisivo sul documento Dominus Iesus. Il vescovo di un’altra Chiesa ha detto di essersi sentito tanto ferito dal documento. Cosa potevo fare? Certo, non era il momento di entrare in battaglia! Anche lì, saper perdere, non avere successo. Il giorno dopo qualcuno ha commentato: «Certo, hai “perso”, ma ti abbiamo visto in pace: hai salvato la cortesia e hai conservato il sorriso nonostante tutto».

Gen’s 5-6/2008Proprio per amore a Gesù abbandonato, scoperto nelle tensioni nate da questi documenti, ho parlato con un altro sacerdote del Movimento che lavora con me nell’ecumenismo e ci è venuta l’idea di proporre una giornata di studio sui documenti ecumenici bilaterali fra le Chiese che contengno risultati promettenti. Così l’anno scorso 50 studenti, cattolici e protestanti, insieme a vescovi e rappresentanti di diverse Chiese, si sono ritrovati per un aggiornamento sul cammino fin qui compiuto dalle Chiese in campo ecumenico, una sorta di “progetto di mietitura”, come si chiama ultimamente questo processo di valutazione. Alla conclusione della giornata, tutti sono partiti felici e lanciati, perché non conoscevano quanto progresso è stato già stato realizzato. Infatti, una delle sfide maggiori attuali è la così detta “recezione” dei dialoghi condotti finora. Ma per questo ci vuole un “dialogo della vita”. E la chiave è il Crocifisso ecumenico.


Ricominciare sempre

Facilmente nella vita e perciò anche nei contatti con persone di diverse Chiese, veniamo feriti da parole o battute o commenti fatti con poca carità. È importante in simili frangenti saper perdonare e chiedere scusa.

Recentemente, ad un incontro dove si rivedeva la struttura di un certo organismo ecumenico, si parlava di un progetto concreto. Veniva in luce che non lo si poteva approvare da un lato per mancanza di soldi. Nella discussione, poi, si criticava il progetto stesso. È toccato anche a me esprimere un parere. Successivamente ho capito che, pur avendo detto cose giuste, non avevo avuto in cuore quell’amore che ti fa dire interiormente: «Sono pronto a dire il mio pensiero per te». Mancando questo ingrediente essenziale, l’altro era rimasto male. Quella sera stessa, confrontandomi con un altro, ho deciso di telefonargli per chiedere scusa. Il giorno dopo, quando l’ho incontrato, non c’era la minima tensione fra noi.

 

Conclusione

 

Il card. Kasper ha notato che viviamo in un periodo transitorio dell’ecumenismo. Non siamo arrivati al traguardo dell’unione organica visibile, ma non siamo neppure così divisi come un tempo: si è ritrovata la fraternità. Bisogna riempire bene questo periodo transitorio con il dialogo della vita che pone l’ecumenismo spirituale alla base del dialogo ecumenico. Credo che la vita d’unità diventi uno stimolo continuo a non mollare in questo “impulso della grazia” che è l’impegno ecumenico. C’è ancora molto che possiamo vivere insieme.

Brendan Leahy