La Parola vissuta può aprire la via verso una comprensione comune delle Scritture

La Parola luogo d’incontro ecumenico

 

di Fabio Ciardi omi

Questo tema è stato uno degli interventi al convegno ecumenico dei vescovi organizzato annualmente dal Movimento dei focolari. L’autore mostra, con competenza, ma soprattutto in base all’esperienza, che è possibile superare il pessimismo di quel teologo che scriveva: «Di fronte alla Bibbia chiusa tutti i cristiani siamo d’accordo, però appena l’apriamo cominciano i nostri dissidi».

Era il 1910 quando ad Edimburgo si riunì la Conferenza mondiale missionaria.
Proprio nel campo missionario, dove le varie Chiese erano una fianco all’altra, si sperimentava maggiormente lo scandalo della divisione. Annunciavamo lo stesso Vangelo e nello stesso tempo presentavamo comunità cristiane che si opponevano l’una all’altra.

Quello storico incontro di un secolo fa è considerato l’inizio del movimento ecumenico che, fin da allora, appariva strettamente legato al movimento di rinnovamento biblico.

«Come mai – ci si domanda – abbiamo ascoltato una stessa Parola, abbiamo letto la stessa Scrittura e siamo arrivati alla disunione e alla divisione?». La risposta sta forse nel fatto che «abbiamo letto da soli e abbiamo ascoltato separatamente la Parola di Dio... ci siamo confrontati reciprocamente, ma ognuno si è chiuso nello scrigno della propria eredità, non arricchendoci, certo, ma impoverendoci»1.

Vale anche per noi il rimprovero rivolto da Gesù agli scribi e ai farisei: spesso abbiamo annullato la Parola di Dio in nome della nostra tradizione (cf Mt 15, 3.6). Abbiamo abusato della Bibbia per farne uno strumento di difesa a oltranza delle nostre posizioni. Non è la Parola di Dio che ci divide. La Parola unifica. Siamo noi che non sappiamo accoglierla e viverla.

Già nei campi di concentramento della seconda guerra mondiale, cristiani di Chiese diverse, uniti dalla comune esperienza di persecuzione e di sofferenza, leggevano insieme la medesima Bibbia, senza guardare a quale “confessione” appartenessero gli uni e gli altri, trovando in essa forza per continuare a vivere in mezzo a quegli orrori. Un cappellano scozzese, reduce dalla prigionia, scrive che «la sua Bibbia passava di mano in mano dalla mattina alla sera e bisognava iscriversi in anticipo per prenotare la possibilità di averla in prestito e leggerla a una certa ora del giorno o della serata»2. La stessa cosa si verifica oggi nelle carceri di Cuba, come ho potuto conoscere nei miei recenti viaggi in quell’isola.

Dio sa far scaturire il bene anche dal male delle nostre disunità. Le divisioni del passato, come ha scritto Giovanni Paolo II con l’ottimismo della speranza teologale, possono costituire «una via che ha condotto e conduce la Chiesa a scoprire le molteplici ricchezze contenute nel Vangelo di Cristo e nella redenzione da lui operata. Forse tali ricchezze non sarebbero potute venire alla luce diversamente...»3.

Guardiamo allora alle ricchezze che si celano nelle nostre tradizioni cristiane riguardo alla Sacra Scrittura. Farò soltanto degli accenni cercando di accendere il desiderio di una comunione e di una conoscenza più profonde della centralità che possiede la Parola di Dio nelle nostre Chiese.

 

La Parola nella tradizione ortodossa

 

La centralità della Parola nella tradizione ortodossa è il frutto del suo essere erede diretta dell’esperienza dei Padri della Chiesa d’Oriente che vivevano, pensavano, parlavano mediante la Bibbia, tanto da identificare la loro vita con la sostanza biblica stessa. La Sacra Scrittura appariva loro come l’icona verbale del Cristo vivente, la via che consente di entrare in comunione con lui.

Perché la Scrittura porti pienamente frutto e consenta l’incontro trasformante con Cristo, è fondamentale, per l’Ortodossia, che essa venga accolta e compresa all’interno della grande tradizione ecclesiale. Essa è data infatti alla Chiesa. È lei che la riceve fissandone il canone e la porta nel suo grembo come “Parola di Verità”.

San Vartan e i suoi compagni, i soldati che morirono per la fede nella battaglia di Avarayr del 451 contro i Persiani, confessavano: «Noi riconosciamo come nostro padre il santo Vangelo e come nostra madre la Chiesa apostolica universale».

Karekin I, Catholicos di tutti gli Armeni, commentando questa frase, amava ripetere che la Scrittura «va letta non come un libro storico, un testo filosofico o un’opera letteraria, ma per ciò che essa è veramente: la Parola di Dio, che deve essere tradotta in vita. (...) Ora, proprio il contesto spirituale della Chiesa, la sua esperienza millenaria ci aiuta a trovare questa applicazione della Parola alla vita. Il cristianesimo è prima di tutto vita comunitaria, vita ecclesiale nel senso etimologico di quest’espressione. Il cristiano appartiene a una comunità»4.

Questo stretto legame tra Parola di Dio, Chiesa e Tradizione, consente all’Ortodossia un approccio tutto particolare alla Sacra Scrittura: la liturgia. Qui la Parola diventa dossologia. «Nella Chiesa di Dio – scriveva Teofane il Recluso ad un suo corrispondente – la parola di Dio, che contiene la verità da lui rivelata, e i doni divini sacramentali, che comunicano la grazia, sono come pupille dei tuoi occhi»5.

La Parola celebrata nella Santa Liturgia è poi scritta nuovamente nell’icona (l’icona, come è noto, non si “dipinge” ma si “scrive”), che diventa immagine della Parola. Dopo che il Verbo si è fatto visibile nella nostra natura umana, scrive Giovanni di Damasco6, abbiamo bisogno di “vedere” anche con gli occhi del corpo, oltre che con la fede. «Attraverso i libri udiamo le parole di Cristo. Così, allo stesso modo, attraverso la pittura delle immagini contempliamo l’effigie della sua figura corporea, dei suoi miracoli e delle sue sofferenze»7.

L’icona è dunque inseparabile dal Libro. «Imprimi il Cristo là dove conviene, come colui che abita nel tuo cuore – scrive Teodoro Studita –, affinché, letto in un libro o visto su una icona, tu lo conosca per le due conoscenze sensibili. Che illumini doppiamente i tuoi pensieri e che tu impari a vedere con gli occhi ciò di cui sei stato istruito con la parola»8. «L’icona – leggiamo negli atti del Concilio Costantinopolitano IV –, attraverso i colori, ci annuncia e fa valere in noi quello che ci viene detto mediante le parole».

 

La Parola nella tradizione della Riforma

 

Se la centralità della Parola nella Chiesa ortodossa continua la tradizione dei Padri, nelle Chiese della Riforma essa nasce dal rifiuto di una teologia diventata arida e di una certa prassi ecclesiale antievangelica, e quindi da una forte esigenza di tornare alle pure sorgenti evangeliche.

Al dire di Lutero i teologi del suo tempo giungevano a dire: «Ma che Bibbia! La Bibbia? La Bibbia è un libro di eretici, bisogna leggere i Dottori!»9. Di qui la missione che egli avvertiva: riportare la Scrittura al centro della teologia e della vita. Si compiaceva di chiamarsi: «dottor Martin Lutero, indegno evangelista di Nostro Signore»10.

La Parola di Dio avrebbe dovuto costituire l’unica autorità, accanto alla quale ogni altra parola è soltanto parola umana, utile per l’ordinamento umano, ma senza forza per la salvezza.

Di qui il bisogno di un accesso diretto, senza mediazioni, alla Parola di Dio, così come scaturisce dalla Bibbia. Essa viene prima della parola dei Concili e del Magistero, che sono da essa normati. In essa vi è l’immediato accesso alla viva Vox Dei. Per questo la monumentale traduzione di Lutero della Sacra Scrittura in tedesco, «... affinché – come scrive lui stesso – ognuno possa bere alla sorgente fresca» della Parola di Dio11.

Non possiamo tuttavia dimenticare che Lutero ha attinto dalla Tradizione più di quanto non sembri. Basta pensare all’importanza che hanno avuto per lui i Concili dei primi secoli, i Padri della Chiesa, primo fra tutti Agostino, e mistici come Bernardo di Chiaravalle o Giovanni Taulero.

La Parola di Dio – ed è questo un altro grande apporto della Riforma – va intesa non soltanto come Parola scritta, ma anche come Parola annunciata, fatta risuonare viva nella Chiesa, e vissuta. «... Vangelo – scriveva Lutero – non significa altro che una predicazione di un grido della grazia e della misericordia di Dio, meritate ed acquistate dal Signore Gesù Cristo con la sua morte, e non è propriamente ciò che sta in libro o viene fissato in lettere, bensì piuttosto una predicazione orale, una parola viva ed una voce che risuona in tutto il mondo e viene emessa pubblicamente perché la si senta ovunque...»12.

Se non ci fosse la predicazione, non ci sarebbe nemmeno la Chiesa, null’altro essendo la predicazione che «la venuta di Cristo in mezzo a noi»13, di lui che ci costituisce in comunità.

La Chiesa è l’insieme di quanti vengono radunati dalla Parola e sono da questa congiunti a Cristo, in Lui unificati ed accorpati. Lutero può, pertanto, trarne la conclusione che «la vita della Chiesa dipende tutta dalla Parola di Dio»14. Afferma inoltre: «Quando fiorisce la Parola, tutto fiorisce nella Chiesa»15.

La sessantaduesima delle famose novantacinque tesi attesta: «Il vero tesoro della Chiesa è il sacrosanto Evangelo della gloria e della grazia di Dio». Lapidaria anche la sentenza: «Tota vita et substantia Ecclesiae est in Verbo Dei».

Martin Bucero (1491-1551), discepolo di Lutero e riformatore della chiesa di Strasburgo, ricordava che «la questione non è solo che la parola sia predicata fedelmente, ma soprattutto che la gente orienti la propria vita conformemente ad essa, perché non sono gli uditori della parola, ma i facitori di essa che saranno beati»16.

Di grande purezza la testimonianza di Calvino nella Lettera agli amanti di Gesù Cristo: «Senza l’Evangelo siamo tutti inutili e illusori, senza l’Evangelo non siamo Cristiani, senza l’Evangelo ogni ricchezza è povertà, la sapienza davanti a Dio è follia, la forza debolezza, ogni giustizia umana è condanna di Dio.

Ma grazie alla conoscenza dell’Evangelo siamo resi figli di Dio, fratelli di Gesù Cristo, concittadini dei santi, abitatori del regno dei cieli, eredi di Dio con Gesù Cristo, grazie al quale i poveri sono resi ricchi, i deboli potenti, gli stolti sapienti, i peccatori giustificati, gli afflitti consolati, i dubbiosi rassicurati, gli asserviti affrancati. L’Evangelo è parola di vita e verità»17.

Dagli inizi della Riforma nel mondo protestante, soprattutto nella corrente pietistica delle Chiese evangeliche, la Bibbia è tornata in mano alla gente.

L’immagine più familiare e comune è quella dell’intera famiglia riunita attorno al libro sacro, letto con fede e assiduità, costante punto di confronto per ogni situazione della vita, sorgente di preghiera e di ispirazione.

 

La Parola nella Comunione anglicana

 

La medesima enfasi sulla centralità delle Scritture è affermata dalla Comunione anglicana. Lo afferma in maniera lapidaria il VI dei XXXIX Articoli, uno dei “formulari storici”, accanto al Book of Common Prayer, che la Chiesa d’Inghilterra riconosce come “una testimonianza alla fede”. Vi si afferma: «La Sacra Scrittura contiene tutto ciò che è necessario alla salvezza. A nessuno può essere domandato di credere un articolo di Fede che non sia letto in essa, né possa essere dimostrata sulla base di essa, né può essere considerato richiesto o necessario per la salvezza».

La Bibbia, tradotta in inglese ed autorizzata nel 1537, divenne subito la base per la vita di tutti i membri della Chiesa d’Inghilterra. Ogni anno, durante il culto, veniva letto l’intero testo della Scrittura, punto di partenza per ogni sermone. Erano pochi gli anglicani che non leggevano ogni giorno un passo della Bibbia.

Basterà andare all’Esortazione alla lettura e alla conoscenza della Sacra Scrittura, la prima delle omelie (1539) raccolte nel Primo libro delle omelie (The First Book of Homilies), probabilmente dalla penna di Thomas Cranmer (1489-1556), arcivescovo di Canterbury, che la Chiesa d’Inghilterra ricorda come martire.

«Per un cristiano non ci può essere nulla di più necessario o di più vantaggioso che la conoscenza della Sacra Scrittura, in quanto in essa è contenuta la vera parola di Dio, che rivela la sua gloria e anche il dovere della persona umana. (...)

Pertanto (...) ascoltiamo e leggiamo con riverenza la Sacra Scrittura, che è il cibo dell’anima. (...). Perché nella Sacra Scrittura è pienamente contenuto ciò che dovremmo fare e non fare, credere e amare, e infine quello che dovremmo cercare dalle mani di Dio.

Questi libri, pertanto, dovrebbero essere spesso nelle nostre mani, nei nostri occhi, nelle nostre orecchie, nelle nostre bocche, ma soprattutto nei nostri cuori. Perché la Scrittura di Dio è la carne celeste delle nostre anime: ascoltarla e custodirla ci fa beati, ci santifica, ci fa santi; cambia le nostre anime; è una lanterna luminosa per i nostri passi (...)».

La successiva introduzione al Book ofHomelies, pubblicata nel 1562, contiene il medesimo orientamento. In essa si mostra come la Parola di Dio dovesse essere il costante riferimento nella predicazione. Oggi come allora «la Bibbia rimane al cuore della vita religiosa Anglicana»18.

 

L’impulso del Concilio Vaticano II

 

Per quanto riguarda la Chiesa cattolica romana mi sarà sufficiente ricordare che – dopo un lungo periodo in cui, almeno nella coscienza di vasta parte del clero, le Sacre Scritture erano marginalizzate se non dimenticate – uno dei frutti più belli del Concilio Vaticano II è stato quello di aver riaffermato la centralità della Parola di Dio nella vita della Chiesa.

La Costituzione dogmatica Dei Verbum ricorda che la Chiesa, nata dalla Parola, trova in essa il sostentamento e la luce. In essa «è insita tanta efficacia e potenza, da essere sostegno e vigore della Chiesa, e per i figli della Chiesa la forza della loro fede, il nutrimento dell’anima, la sorgente pura e perenne della vita spirituale» (n. 21). Ora il Concilio ha rimesso la Bibbia in mano a tutto il Popolo di Dio, per tornare ad essere quello che era all’inizio della Chiesa.

 

La Parola via all’unità

 

Le Scritture sono il pane quotidiano di ogni Chiesa. Soltanto partendo da qui possiamo ritrovare l’unità piena chiesta da Gesù al Padre. Nonostante le diversità di interpretazioni, il Concilio Vaticano II afferma che la Scrittura, nel dialogo ecumenico, «costituisce l’eccellente strumento nella potente mano di Dio per il raggiungimento di quella unità, che il salvatore offre a tutti gli uomini»18. «L’unità delle Chiese – si scrisse all’inizio del dialogo tra la Chiesa cattolica e le Chiese luterane – può essere solo un’unità nella verità del Vangelo»20. Come si affermava già dai primi passi del cammino ecumenico nel secolo scorso, quanto più comprendiamo e viviamo il Vangelo, tanto più ci avviciniamo tra noi, perché allora diventiamo più simili a Cristo. Se la Parola fa la Chiesa, la condivisione della stessa Parola farà l’unità delle Chiese. Dobbiamo tornare al Vangelo insieme e con cuore aperto. Sarà la Parola vissuta che ci darà la sapienza di trovare quella lettura che unisce, nel rispetto delle legittime diversità.

 

Una via «dritta» verso l’unità

 

C’è una via dritta che può condurci tutti subito nel Vangelo? Sì, è Gesù abbandonato, chiave d’accesso all’unità. È la via che Dio ha svelato a Chiara Lubich.

Tutta la vita di Gesù era stata una spiegazione, o meglio, un adempimento delle Scritture. Ma il vertice dello svelamento e del compimento è nel momento più alto della sua vita, nell’evento pasquale. Tutta la tradizione cristiana l’ha compreso.

Ma c’è un momento tutto particolare, all’interno del mistero pasquale, nel quale la Parola si apre, si dice e si dona nella sua massima espressività: nel grido che verso le tre del pomeriggio si leva dalla croce: «Elì, Elì, lemà sabactàni?», che significa: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (Mt 27, 46; Mc 15, 34). È il culmine della Rivelazione e della Redenzione. Lì Gesù mostra il modo e la misura dell’amore, dell’unico amore che egli può vivere, ossia quello trinitario.

Chiara aveva compreso profondamente, con fede carismatica, sapienziale e vitale, quanto la Scrittura è Parola di Dio. E siccome la sua prima grande esperienza era stata Dio come Amore, aveva anche compreso che ogni Parola, che ha come fonte Dio Amore, è amore. Aveva scoperto «sotto ogni Parola la carità». Ma non c’è amore più grande di chi dà la vita per gli amici (Gv 15, 13). Per questo Gesù Abbandonato le apparve come l’amore più grande, la massima espressione dell’amore: il dolore più grande e quindi il più grande amore.

Se ogni Parola è amore, Gesù Abbandonato, che è l’amore per eccellenza, è la Parola per eccellenza, quella che spiega l’amore, che spiega Dio che è Amore. In Lui si compie la rivelazione di Dio e Dio si dona totalmente: «Mai – ha scritto Chiara – Gesù è Parola più viva di quando là in croce grida: “Dio Mio, Dio mio...”. Là parla l’Amore, esprime l’Amore, l’Amore che è Dio». Per questo, ella continua, «Gesù Abbandonato ci era apparso come la Parola per eccellenza, la Parola tutta spiegata, la Parola aperta completamente . (...) Chi punta l’occhio del cuore su di Lui trova (...) il Vangelo puro».

Possiamo terminare leggendo in proposito alcuni brani di una sua pagina: «Se prendessimo in rilievo ogni esortazione di Gesù fatta nel Vangelo, vedremmo che Egli in quel momento le ha vissute tutte.

Il Vangelo domanda che si ami Dio con tutto il cuore, la mente, le forze? Gesù abbandonato è il modello di coloro che lo amano così (...). Infatti Egli ama Dio persino quando si sente da Lui abbandonato. Si riabbandona in Dio che lo abbandona, con le parole: “Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito” (Lc 23, 46).

Gesù abbandonato è il modello perfetto di ogni povero di spirito: è così povero che non ha, per così dire, nemmeno Dio, non lo sente più. Gesù abbandonato può ripetere in sé tutte le beatitudini. È lì soprattutto che si mostra sommamente misericordioso, che versa tutta la sua misericordia; che si mostra affamato e assetato di giustizia; è lì che appare perseguitato misteriosamente persino dal Cielo; dove lo ammiriamo mite e mansueto, staccato anche da ciò che ha di più sacro e divino.

Gesù abbandonato è il modello del rinnegamento di sé e della mortificazione evangelica. Egli infatti non è solo mortificato in ogni senso esteriore, perché crocifisso, ma anche mortificato nell’anima: nell’anima rinuncia in certo modo a ciò che ha di più caro: la sua unione con Dio. (...) Gesù abbandonato, che, prima di morire, dopo aver lasciato agli altri la madre sulla terra, perde, per così dire, il Padre, rivive in sé nel modo più sublime: “Se uno non odia padre, madre... e persino la propria vita” (Lc 14, 26).

Il Vangelo dice: “Se il chicco di grano non cade in terra e vi muore, resta solo; ma se muore porta molto frutto” (Gv 12, 24). Gesù è veramente la figura del chicco di grano che muore ma che non resta solo, perché porta come frutto il Popolo di Dio, la Chiesa...»21.

In lui convergono tutte le parole della Scrittura, tutte le nostre Chiese. In lui la chiave che fa possibile l’unità fra i cristiani.

Fabio Ciardi omi

 

 

1)        A. Ambresanio, La Parola di Dio e l’Ecumenismo, in AA.VV., La Parola di Dio e l’Ecumenismo, AVE, Roma 1972, p. 59.

2)        B. Corsani, Rinnovamento biblico e movimento ecumenico. L’esperienza evangelica, in AA.VV., La Bibbia lacerata. L’interpretazione delle Scritture cammino di unione tra i cristiani, Ancora, Milano 2003, p. 75.

3)        Varcare la soglia della speranza, Mondadori, Milano 1994, p. 167.

4)        Karekin I, Che cos’è la felicità? Dialoghi di Giovanni Guaita con il Catholicos di Tutti gli Armeni, Guerini e Associati, Milano 2001, pp. 101-107.

5)       Cit. in: T. Spidlik, I grandi mistici russi.

6)       Difesa delle immagini sacre, Primo discorso, 46, Città Nuova, Roma 1983, p. 71.

7)       Ibid., Terzo discorso, 12, pp. 122-123.

8)       Ep. 1, 36. Ibid., p. 51.

9)          WA 30/III, 300.

10)              WA 30/III, 336, 26.

11)              WA 50, 657, 23s.

12)              WA 12, 259.

13)              WA 10/1-1, 8.

14)              WA 6, 301.

15)              WA 5, 131, 26.

16)              La Riforma a Strasburgo. Le carenze e i difetti delle chiese: come porvi rimedio, a cura di E. Genre, Claudiana, Torino 1992, pp. 95-97.

17)              Èpitre a tous amateurs de Jésus-Christ (1535), Pischbacher, Paris 1929, pp. 48-49.

18)              R.H. Moorman, TheAnglican Spiritual Tradition, Dar-ton, Longman and Todd, London 1983, p. 211.

19)              Unitatis redintegratio, 21.

20)              Il Vangelo e la chiesa. Rapporto di Malta, 1972, 14, Enchiridion Oecumenicum I, 1141. La stessa convinzione guida il dialogo delle Chiese luterane e riformate: la comune comprensione dell’evangelo appare necessaria per fondare la comunione ecclesiale (cf Concordia di Leuenberg, 1973, ibid., II, 324).

21)              Cit. da A. Pelli, L’abbandono di Gesù e il mistero del Dio Uno e Trino. Un’interpretazione teologica del nuovo orizzonte di comprensione aperto da Chiara Lubich, Città Nuova, Roma 1995, pp. 268-269.