Il «castello esteriore» e la catechesi

di Giuseppe Maria Zanghì

L’autore, dopo aver svolto nel Convegno il tema di cui nell’articolo precedente, ha concluso il suo intervento con alcune indicazioni e riflessioni di fondo su cosa può significare, per il metodo e per i contenuti della catechesi, la prospettiva dell’unità trinitaria, descritta – seguendo l’originale espressione di Chiara Lubich, con il concetto di «castello esteriore».

Il primo impegno di chi fa catechesi

Pensando ai corsi di teologia, tante volte mi sono domandato: «Com’è possibile fare, ad esempio, un corso sulla Trinità senza che coloro che ne partecipano vivano a mo’ della Trinità?». Infatti si parla di Dio che è Padre, Figlio, Spirito, perché è Amore, ma se non si ama il prossimo sul serio, con tutte quelle caratteristiche che il Vangelo ci insegna, cominciando con quelli che fanno parte del corso, cosa si potrà capire delle affermazioni della fede e della teologia trinitaria e delle sue conseguenze per la vita personale e comunitaria, sociale, culturale? Lo dice chiaramente la prima Lettera di Giovanni, con quell’affermazione di immensa portata che Chiara Lubich ha chiamato il motto fondamentale per ogni teologo: «Chi ama… conosce Dio; chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore» (4, 7-8). Perciò Agostino poteva incalzare: «E tu, senza la carità, pretenderesti di penetrare i più alti misteri? Senza quella radice acchiappi le nuvole!» (Sermo 117, 10).

Questo è decisivo anche per la catechesi, perché dobbiamo comprendere che le verità della fede non sono teoremi di filosofia, teoremi della logica, sono vita di Dio, e se chi le ascolta non entra in questa ottica, non capirà niente, anche se pensa di capire.

Mi sembra che la prima cosa che dovrei curare come catechista – prima ancora di insegnare le meraviglie della fede: Dio Uno e Trino, la creazione, Gesù, la Chiesa, i sacramenti, ecc. – è fare in modo che le parole che dico sulla fede non restino flatus vocis. Altrimenti corro il rischio di perdere tempo e la catechesi produrrà ben poveri frutti. Ciò è vero a tutti i livelli della catechesi, da quella per gli adulti a quella dei bambini.

San Tommaso d’Aquino ha un’espressione forte quando scrive che lo stesso Nuovo Testamento, se viene letto senza lo Spirito Santo, diventa lettera che uccide. Ma cosa vuol dire «senza lo Spirito Santo»? Lo Spirito Santo è il Dio-Amore, l’ipostasi dell’Amore. Grandi teologi hanno detto che dei Tre della Trinità lo Spirito è l’unico che non ha un nome proprio, perché il Padre è solo il Padre, il Figlio è solo il Figlio, ma Spirito è Dio, il Santo è Dio, per cui si chiama lo Spirito Santo, perché è l’amore puro, non ha neanche un nome proprio. Se lo Spirito Santo è lo Spirito dell’Amore, come posso pensare di cominciare un corso di catechesi se prima non preparo le persone, abituandole a volersi bene fra loro e con me, a vedere che io voglio bene a loro sul serio?

La pedagogia di Chiara

Certo, non è qualcosa di facile né di scontato, ma è la strada maestra, la premessa di tutto. Così ci ha insegnato Chiara in quel centro di studi che è stato chiamato «Scuola Abbà», dove studiosi delle più svariate discipline c’incontravamo con lei per anni e anni per sviscerare la luce che il suo carisma e la sua spiritualità sprigionano sulle scienze e su tutti gli ambiti del sapere e dell’esistenza. Cominciavamo sempre – e continuiamo a farlo anche adesso – con il «Patto d’unità». Ognuno diceva dentro di sé: «Gesù, io ti prometto di farmi niente, perché quello che io cercherò di dire nasca dallo Spirito Santo in me e quello che ascolterò venga dallo Spirito Santo e mi penetri nel profondo del cuore senza trovare ostacoli in me che ascolto». Solo su questa base ci muovevamo e ci muoviamo per studiare le cose che dobbiamo studiare. Chiara ci ha insegnato a far questo, perché sapeva bene che se non si parte secondo la logica che il testo mi domanda, è tutto inutile. Ora la logica che il testo mi chiede è quella dell’amare. È questa la prima cosa che bisogna fare.

Naturalmente non possiamo portare questo agli altri se non cominciamo noi per primi. Chiara, da giovane, era maestra nell’Istituto Serafico a Trento, e lo era veramente in questo senso. Dobbiamo cercare di portare coloro che abbiamo davanti, a seconda dell’età – ma si può fare con tutti – a volersi bene fra di loro, a capire che non sono degli estranei, che sono lì tutti insieme non per ascoltare delle cose che poi alla fine magari non interessano. Bisogna riuscire a costituire insieme un soggetto originale, capace di accogliere la Parola di Dio che voi dovete seminare nei loro cuori, nella loro vita, con le loro circostanze ed ambienti. Ora siccome è Parola di Dio, solo Gesù presente in mezzo a noi, attraverso l’amore scambievole, la può accogliere pienamente.

I catechisti devono imparare il meglio possibile quale didattica usare secondo l’età e l’ambiente, ma la meta fondamentale della catechesi è portare a capire l’amore, che è il centro del messaggio evangelico, il significato più profondo di tutto ciò che esiste, la realizzazione del disegno di Dio sull’umanità.

Una grande piaga del mondo d’oggi è l’individualismo. Io ho curato per 7 anni i giovani del Movimento, i gen, sin dalla loro nascita. Erano i giovani del ‘68, gente abituata alla rivoluzione, alla lotta. Ricordo quando si fece la cosiddetta “formula gen”, si discusse a lungo se mettere «noi vogliamo la comunione del superfluo» o «la comunione piena dei beni». E loro vollero «la comunione piena dei beni». Fu una conquista.

Chiara venne per dare lei la consegna della “formula” e disse loro: «Gen, vi siete crocifissi con le vostre mani, però mi avete dato una gioia grandissima, perché volete vivere il Vangelo con radicalità».

La situazione del nostro mondo

Qualche anno dopo fui invitato a parlare ad un incontro di giovani e iniziai a fare il discorso sul dare evangelico. Un ragazzo alzò la mano e disse: «Scusa, ma se la roba è mia perché la devo dare?». Mi resi conto di colpo che non avevo avvertito che si era prodotto un salto generazionale. «Questa è mia, perché la devo dare? Me la tengo».

Questa è la tragedia che stiamo vivendo. Qui si trova in radice il pericolo degli scontri di civiltà, degli scontri generazionali, degli scontri fra culture, perché ognuno prende come regola assoluta il proprio interesse! Dovremmo andare incontro a Stati totalitari che c’impongono come fare ad andare d’accordo. Ma il rimedio in questo caso sarebbe peggiore del male che si vuole evitare.

Voi catechisti avete davanti giovani e ragazzi che sono allo stesso tempo “figli e vittime” di una tale mentalità. Questo è il male della cultura occidentale in particolare, ma che si diffonde sempre di più nel mondo.

Io sono profondamente convinto che in questa direzione si trova la causa del grande contrasto che c’è fra il mondo occidentale e l’Islam. È vero che l’Islam in certi punti, in certi momenti può essere anche integralista – ma non tutti i Musulmani sono così. Anche in mezzo a loro ci sono tantissime persone con una grande sensibilità spirituale. Il motivo reale di un certo integralismo sapete qual è? Essi sentono nella cultura che l’Occidente esporta con la globalizzazione un attentato alla loro fede. Questo sentono, perché per loro Dio è al vertice dei pensieri, Dio è quello che regola tutto. Cosa vuol dire Muslim, Islam? Vuol dire consegna totale a Dio. Ora per l’Occidente, come ci ricordava Nietzsche, Dio è morto, se n’è andato, è emigrato, è scappato. E questo i Musulmani lo avvertono e cercano di preservarsi. Poi alcuni utilizzano la violenza e questo ovviamente supera i limiti e non lo possiamo accettare. Noi però non possiamo difenderci rispondendo a nostra volta con la violenza, ma dovremmo essere capaci – e non so se la cultura occidentale ne è capace – di fare un serio esame di coscienza e di comprendere dove noi abbiamo sbagliato e continuiamo a sbagliare.

Ora tanti di voi fate catechesi alle nuove generazioni. Bisogna aiutarle a fare un’esperienza di rapporti d’amore evangelico, di comunione, qualcosa alla quale non sono abituati.

Raramente oggi la famiglia aiuta in questo senso, perché anche dentro le pareti domestiche spesso, nel rapporto tra i genitori, regna l’egoismo, perché le persone non sono state formate al vero amore: ad ascoltare, dialogare, fare comunione.

La psicologia, e non solo, ci dice in tutti i modi che la realtà ci domanda di saper perderci negli altri per riuscire a ritrovarci. Ma dove il bambino impara a realizzarsi come persona? Lo può apprendere nel rapporto fra il padre e la madre. Ma se il padre e la madre passano i giorni a litigare, allora cosa impara? Spesso non ci si rende conto del trauma che è per un bambino il divorzio dei genitori. Non ci pensi, perché prevale il proprio interesse, prevale quello che a ognuno piace e gli fa comodo.

La verità accade nella carità

Tutto ciò non vale solo per i catechisti e gli altri educatori, riguarda un ampio progetto culturale che è necessario portare avanti. Questo tanti nella Chiesa lo avvertono, ma si deve essere capaci di farlo. Se non si riesce a realizzarlo, è perché ancora non abbiamo messo a fuoco l’importanza del comandamento dell’amore nella vita cristiana. Per esempio ci sono tanti teologi che difendono in maniera dura la Verità; va bene difendere la Verità, però se per difendere la Verità tu perdi la carità, hai perso anche la Verità, perché Dio è Amore. Questo è un processo nel quale la Chiesa, in tutti suoi ambiti, deve quotidianamente crescere, sia a livello di categorie teologiche e antropologiche che di esperienza, perché i due aspetti sono intimamente legati. È questa la conversione a cui lo Spirito ci sta spingendo oggi in mille modi, ma ancora bisognerà crescere tanto perché la Chiesa-comunione passi dagli enunciati alla pratica, alla vita delle comunità, alle strutture. Non per niente Giovanni Paolo II, nel discorso di chiusura del Sinodo della diocesi di Roma, diceva che abbiamo bisogno di «scuole di ecclesiologia di comunione». Ogni gruppo di catechesi, in tutti i posti, a tutti i livelli di età, dovrebbe costituire una di queste scuole di vita.

Educare all’amore concreto



Bisogna che la nostra catechesi ci abitui a vivere il «castello esteriore»: a capire che la persona a cui faccio catechesi non è una figura che è lì chissà perché, ma è in questo momento quella realtà che devo amare se voglio essere amore e mettere le condizioni perché possa capire quelle verità di fede che vengono offerte nella catechesi.

Bisogna educare non ad amare adesso il padre e la madre che non sono qui, la propria ragazza o ragazzo che non è qui, ma amare quelli che ci sono accanto adesso.

Amare cosa comporta? Comporta superamento, rinuncia, perché devo rinnegare me per amare l’altro. Se uno ti percuote una guancia offrigli l’altra, se uno ti chiede di fare un miglio fanne con lui due. Tutte quelle caratteristiche dell’amore che Gesù ci ha insegnato, dobbiamo imparare a viverle sempre meglio. All’interno di questa esperienza, la Parola di Dio si apre alla nostra comprensione e regola il nostro agire.

Voi catechisti potete fare tanto per cominciare a formare persone che mettono in atto la legge dell’amore con quella ricchezza e profondità che ci insegna il «castello esteriore», e che risponde a fondo alle esigenze del mondo contemporaneo. Solo un cristianesimo con questa caratteristica al suo centro potrà rendere possibile la fede nel mondo d’oggi e del futuro.

Il Papa nel 1982, in Spagna, durante una celebrazione in onore di san Giovanni della Croce, ha detto che cresce nell’umanità una notte oscura che acquista «dimensioni epocali e proporzioni collettive». Voi siete capaci di superare questa notte, perché avete avuto la grazia di conoscere e sperimentare il carisma dell’unità, la spiritualità di comunione, per cui in qualche misura siete esperti in questo campo.

Oggi si dice correntemente negli studi specialistici e nei documenti del magistero che la catechesi sta passando da una comunicazione nozionistica delle verità della fede ad una trasmissione di uno stile di vita modellato sul Vangelo. Ma per riuscire a trasmetterlo bisogna che i catechisti, per primi, l’abbiano sperimentato.

Questo vuol dire che la catechesi, pur dovendo costituire un vero insegnamento con i migliori strumenti pedagogici a disposizione, deve sempre più passare da una comprensione teorica ad una comunione reale con Dio nell’incontro con Cristo. Ma tale incontro avviene in modo privilegiato quando si ama Cristo nel fratello, quando la comunità diventa «un cuor solo e un’anima sola». Ciò permette a quella presenza del Risorto in mezzo a noi, a cui abbiamo accennato nella prima parte del nostro intervento, di manifestarsi con tutti i suoi frutti tipici, dando una ricchezza unica anche alla catechesi.

a cura di Enrique Cambón