Il «castello esteriore»

di Giuseppe Maria Zanghì



Il presente articolo è stato uno dei temi fondamentali del Congresso. Siccome l’autore l’ha svolto a braccio, abbiamo pensato di far cosa gradita ai nostri lettori attingendo la prima parte da un’opera dello stesso autore, appena uscita di stampa: «Gesù abbandonato maestro di pensiero» (Città Nuova, Roma 2008, pp. 59-65). Per la seconda rinviamo invece alla rielaborazione della trascrizione del discorso alle pp. 39-42 di questo quaderno.





Immersa nella vita trinitaria, Chiara Lubich è stata spinta a dar forma “trinitaria” a ogni realtà. Così è per la vita spirituale. Chiara ci ha fatto sperimentare un processo del cammino nello Spirito, inedito nella sua dispiegata consapevolezza.

Il Castello interiore

Teresa d’Avila, castigliana, ha simboleggiato la via nelle profondità di Dio in se stessa nella figura del castello. Una successione di stanze, “dimore”, che vanno dall’esterno all’interno, sino a quel centro, a quella “cella vinaria” nella quale l’anima si smarrisce nelle esalazioni del vino fermentante, nell’estasi dell’amore raggiunto: l’Amato nel cuore dell’amata. In questo cammino, come dirà Giovanni della Croce, se vuoi farti tutto devi passare per il nulla; se vuoi sapere, devi passare per il non sapere.

Con una “torsione” delle spinte naturali verso l’“esterno” in un negarsi che fa emergere la nuda essenza dell’anima.

Tutto questo – Chiara ce lo commentava – è assolutamente vero in un certo percorso spirituale affidato soprattutto al singolo nella sua solitudine, alle forme di vita ascetiche e monacali. Anche se non dobbiamo dimenticare che il pellegrino di Dio compie il suo cammino sempre nella e come Chiesa. Per questo, al culmine della sua grande esperienza mistica Teresa intese queste parole di Gesù: «Non affannarti per chiudere me in te, ma cerca di chiudere te in me»1. Ogni grande via spirituale raccoglie in sé tutte le esperienze vissute e, superandole nella sua novità, prepara in sé le nuove forme che a loro volta la trascenderanno: nuove penetrazioni nel cuore di Dio.

Il «castello esteriore»

Chiara, nella intensa e continua comunione-unità che caratterizza il suo messaggio spirituale, ci ha condotti a vivere una “mappa” diversa del cammino spirituale. Appunto, il castello esteriore. Il percorso spirituale aperto alla vita nella sua quotidianità: laico.

L’immagine delle “dimore” rimane, ma in un “esteriore” che non si oppone all’interiorità. Come?

La risposta di Chiara è decisamente cristocentrica, e per questo intensamente umana. La proposta di un compiuto umanesimo dell’incarnazione e della risurrezione, nel quale più si fa duro, “spietato”, il nulla da raggiungere per essere, più l’umano viene condotto alla sua pienezza proprio in quanto umano. Io l’ho compresa così.

Non puoi raggiungere l’intimità di Dio, chenosi d’Amore, se non nella chenosi della tua natura di creatura, e che è rivelata, così, amore. Tutti i grandi spirituali, anche non cristiani, lo hanno sempre saputo, per esperienza. Ma la via che suggerisce Chiara non è tanto quella della “torsione”, come ho detto, degli slanci verso “il fuori” del conoscere, del volere, del sentire, per farli nulla di sé e quindi, al di là di essi, fare incontrare l’essenza dell’anima, l’anima nuda, con la nuda essenza di Dio; è sempre quella del farli “nulla”, e non può essere diversamente, ma seguendoli nella loro vocazione naturale, nel lasciarli fluire, cioè, “verso l’esterno”, fino a perderne il possesso, il radicamento nell’io. Il nulla-di-sé è raggiunto non in una sorta di violenza su di essi, ma nel seguirli nella loro tensione senza limiti e, perdendoli nel donarli agli altri, senza attendere ritorno, farli amore. In un exitus che non ha reditus nel suo punto di partenza.

Il pensare come amore. Il volere come amore. Il sentire come amore. Ma quell’amore aperto e spiegato dal Crocifisso nell’abbandono. L’amore supera i “perché?”: l’amore è uscita radicale dall’io, ed è l’io dell’Adam che si interroga. Nell’abbandonarsi, dopo il “perché?”, a Chi non gli risponde, Gesù ci insegna la vera natura dell’amore: il senza “perché?”. Il “Figlio dell’uomo” ha chiesto, per insegnarci a non chiedere: ma ad amare.

Amo perché amo. Dio ama perché ama. L’io è sciolto nelle acque trasparenti dell’amore.

Ancora un passo in avanti

Ma qui siamo ancora al “primo movimento” del cammino nel castello esteriore: “movimento” che vorrei definire fondamentalmente ascetico, ma di una ascesi che è già amore e, quindi, mistica. Se tutto si arrestasse qui, il non-essere-delle-facoltà perse nell’assenza del reditus, sarebbe il puro non-essere: ogni spinta verso l’esterno seguendo la spinta-chiamata della natura, approderebbe nel vuoto, senza più il “riparo” di un io, purificato ma sempre io, il noto-a-me.

Penso che lo sbocco nichilistico della cultura dell’Europa, dell’Occidente in genere, sia dovuto proprio al non aver ancora condotto sino al termine la vocazione della natura umana rivelata nella luce dell’umanesimo del Cristo e chiamata a rispondere – e non riuscire a farlo – a questa vocazione, in unità di vita e di pensiero.

Ma il comando proprio e nuovo di Gesù supera quello dell’amore del singolo, è quello dell’amore reciproco (cf Gv 13,34). Ed è questo il “secondo movimento” per uscire da me ed entrare nel castello esteriore.

All’uscita piena del Figlio da Sé, abbandonato, ma nello Spirito che è l’Amore, risponde l’accoglimento del Padre “rifattosi” presente, Amore, nello Spirito che è l’Amore.

In un’ottica trinitaria, sul nostro piano esistenziale, è necessaria la risposta dell’altra creatura umana che mi sta di fronte nel mio uscire da me, in un medesimo uscire di sé da sé verso me in dono totale. Ella mi apre quel “vuoto-che-è-amore”, nel quale sentirmi accolto perché non mi smarrisca nel nulla senza volto del non-amore. Mentre anche io compio la medesima operazione, nell’accoglimento di lei vuotandomi, donandomi. Il non, come realtà vissuta nella solitudine, è cancellato nel del dono reciproco come realtà vissuta nella comunione.

Un’obiezione pertinente

Prima di continuare in questa riflessione, devo rispondere ad una domanda che può nascere – e sovente mi è stata posta – dopo quanto sto dicendo.

Se l’altra creatura umana non risponde al mio donarmi, non è inevitabile il nichilismo? La mia risposta è fondata sull’esperienza di anni di vita e soprattutto sull’esempio di Chiara.

Sotto tutto quanto vado dicendo c’è intenzionalmente la tensione verso Dio. La mia uscita da me è originariamente – e sempre resta tale – verso Dio, non verso una qualsiasi socializzazione nella spinta di una debolezza che cerca comprensioni. L’altra creatura umana è come un “sacramento” che custodisce e mi dona la res (il contenuto) del rapporto con lei: res che è Dio stesso.

E Dio non manca all’appuntamento. Egli mi chiede soltanto di dilatare la mia agàpe, il mio amore, in risposta al Suo, sulla misura del Logos crocifisso e abbandonato che mai mi lascia solo.

Prima o dopo, la risposta, il pieno, arriva: forse da un altro cuore e non da quello pensato. Ma arriva. Bisogna abituarsi a vivere secondo i “tempi”, i kairòi di Dio, che non sono i nostri. E con Dio è tutta la Chiesa, il Corpo del Crocifisso Risorto, all’interno della quale ho, come cristiano, la vita, il movimento, l’essere: il pieno di grazia che ci sostiene nel vuoto che va attraversato.

Torniamo al castello esteriore.

Ma dov’è il «castello esteriore»?

Io esco da me, nella chiamata dell’amore; l’altra creatura umana esce da sé nella chiamata dell’amore. Queste due uscite, questi due non, dove si incontrano per essere un ? In me? Nell’altro?

Sarebbe, questo, per i due, il ritorno in un io, certamente dilatato dalla presenza viva di un’alterità, ma senza quella radicalità di annientamento d’amore che il castello interiore e quello esteriore domandano. In fondo, non otterremmo una maggiore densità dell’io? dilatato, certo, dalla presenza dell’alterità, ma sempre io?

D’altra parte, l’incontro deve accadere in uno spazio interiore, pena la esteriorizzazione – e distruzione – della vita interiore, ridotta a psicologismi dilatati o a socializzazioni dove il noi prenderebbe il posto dell’io, con tutti i limiti amplificati e moltiplicati.

E qui l’umanesimo di Chiara fiorisce nella sua fortissima fede cristiana fedele all’oggi. L’esternità d’amore dei due che cercano Dio ha il suo spazio interiore nella interiorità stessa di Gesù, il Verbo incarnato e risorto. «Là dove due o tre si trovano riuniti nel mio nome, io sono in mezzo ad essi» (Mt 18, 20). Nel mio Nome: nella mia Persona di Dio-uomo.

La mia interiorità è condotta nella sua, diventa la sua: «noi abbiamo il pensiero del Cristo», scrive Paolo (1Cor 2, 16).

È quella mistica identificazione del discepolo con il Maestro, della creatura umana con il Dio nella carne del Cristo, cui tutti i grandi spirituali cristiani hanno sempre teso. Nell’ottica di Chiara, ciò accade grazie al fratello: e questo produce un “di più”, nel piano della sperimentazione. E, oso dire, dell’essere stesso.

È solo con il fratello che l’io può veramente uscire da sé in quel Nulla-Amore che è il Cristo. Il fratello è quella “porta stretta” per la quale posso entrare – spogliato di me dal fratello, e il fratello con me – nel Cristo: che lasciandoci distinti per la chenoticità divina del suo amore, ci fa Sé in Lui. Così da poter chiamare in tutta verità il Dio cercato: Padre!

L’amatevi l’un l’altro non è una variante del comandamento dell’amore, ma la dilatazione di esso nel respiro trinitario – l’accadimento della vita dell’uomo là dove essa sta oramai con il Cristo risorto: nella realtà trinitaria.