Laici e presbiteri insieme per l’umanità

Esiste da decenni nel contesto ecclesiale e sociale, una diffusa insofferenza verso il clericalismo, così come è tuttora aspra la rivendicazione del femminile. Da questo «status quo» trae spunto la seguente conversazione, tenuta nel maggio 1988 a Castel Gandolfo davanti a 1300 sacerdoti diocesani. Una sintesi biblico-teologica nata dall’esperienza a contatto con l’Opera di Maria, che vede nel sacerdozio comune, detto anche battesimale, regale e mariano, la fondamentale vocazione cristiana che ci rende popolo di Dio. (da gen’s 6-8/1988, pp. 40-45).

Il piano di Dio sull’umanità

Il testamento di Gesù, in quanto dichiarazione della sua suprema volontà, è chiaramente il “fine” della sua stessa incarnazione, passione e resurrezione: «Affinché tutti siano una cosa sola. Come tu, Padre, sei in me ed io in te» (cf Gv 17, 21).

La vita trinitaria che ci viene presentata all’inizio come luogo di partenza dell’incarnazione del Verbo – «In principio era il Verbo e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio» (Gv 1, 1) –, la ritroviamo alla conclusione della vita di Gesù come il luogo di ritorno, la casa dell’umanità: ma è una casa che si costruisce su questa terra vivendo il comandamento dell’amore scambievole nella misura in cui Gesù stesso ci ha amati – «come io vi ho amati» (Gv 15, 12) –, imperfettamente certo da parte nostra, ma condizione per entrare nella vita trinitaria del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo – «Vado a prepararvi un posto» (Gv 14, 3).

Il piano di Dio sull’umanità era stato manifestato da lui stesso per bocca del profeta Osea: «A chi non è mio popolo io dirò: Tu sei il mio popolo e lui mi dirà: Tu sei il mio Dio» (Os 2, 25) e la promessa si compie in Gesù: «Voi che una volta eravate non-popolo ora invece siete popolo di Dio» (1Pt 2, 10). Un’ altra promessa fatta da Dio nell’Esodo quando dice: «Voi sarete per me un popolo sacerdota­le» (Es 19, 16), si realizza con Gesù: «Ma voi, stirpe eletta, sacerdozio regale, popolo santo...» (1Pt 2, 10).

La strada ossia la legge della vita

Il fatto è che tra la promessa, tra la proclamazione della finalità ultima che Gesù attribuisce alla propria missione («che tutti siano una cosa sola» Gv 17, 21) e il compimento si interpone la passione che si conclude con la sua morte e risurrezione. Se questa è la strada da lui percorsa perché l’unità fosse possibile, noi non potremo contribuire a rendere storicamente reale il suo disegno sull’umanità se non percorrendo la stessa strada, perché è chiaro che Gesù non fa nulla solo a scopo dimostrativo: fa ciò che è, non può fare se non ciò che è.

Radicalità evangelica

Se Gesù “è” quello che esprime, se Gesù è il suo Vangelo, le sue parole non sono degli optional che gli uomini possono accettare solo se desiderano vivere più spiritualmente, più uniti a Dio, vale a dire se vogliono religiosamente elevarsi al di là di se stessi; sono bensì valori da interiorizzare e da vivere per realizzarsi uomini. Ora, se Gesù, l’Uomo, è ciò che fa, non è possibile raggiungere come uomini la pienezza umana se non accettando, riconoscendo e vivendo la legge della vita: «chi vuol salvare la propria vita la perde» (cf Mc 8, 35) ossia: il chicco di grano che non accetta di marcire non diventa se stesso, spiga; ogni uomo, bambino o adulto, che non si estroverte per amare rimane psicologicamente infante e muore spiritualmente. È una legge che non ha eccezioni nel creato perché è la stessa legge, per quanto ineffabile, della vita trinitaria in Dio.

Questa radicalità evangelica non ha perciò nulla di paradossale, nulla di utopico: è per la vita stessa dell’uomo. Ci sono molti modi di viverla, è vero, come ha detto Giovanni Paolo II in un suo discorso fatto al Centro dei focolarini: «C’è stata la radicalità di un san Francesco, c’è stata quella di un Charles de Foucauld; c’è la vostra radicalità, quella di Chiara e dei focolarini...» .

In ogni epoca c’è stato chi ha vissuto radicalmente il Vangelo. Io devo dire che questa radicalità l’ho incontrata personalmente nella spiritualità appunto dei focolarini, e forse neppure l’avrei colta se non avessi intuito che, per quanto sacerdote, ne ero lontano. Mi vidi radicato non tanto nella vita del Vangelo quanto sul privilegiato potere conferitomi dal sacramento dell’ordine sacro.

“Potevo” agire in persona Christi, potevo dunque consacrare e rimettere i peccati, potevo predicare e presiedere una comunità di cristiani... Ma un giorno sentii una frase di Chiara che mi sconvolse. «Ogni sacerdote ordinato, ogni presbitero prima di essere tale, dev’essere un crocifisso vivo come lo fu Gesù che sulla croce fondò la sua Chiesa e si manifestò di essa capo». In quel momento mi si aprì di colpo la comprensione delle parole di san Paolo mille volte lette e mai interiorizzate: «Egli era come Dio, ma non conservò gelosamente il suo essere uguale a Dio. Se ne spogliò, diventò come un servo, fu uomo tra gli uomini e visse come uno di loro. Abbassò se stesso, e fu obbediente fino alla morte, alla morte di croce. Perciò Dio l’ha innalzato... e ogni lingua deve proclamare che Gesù Cristo è il Signore» (Fil 2, 6-11). Capo dell’umanità rigenerata, capo del suo corpo mistico che è la Chiesa. Per me era facile, oltre che gratuito, fare il capo solo perché ordinato presbitero. Mi ero spogliato però di me stesso? Mi ero fatto servo degli altri? Avevo vissuto in obbedienza alla volontà di Dio in ogni circostanza della vita fino anche al sacrificio di me? Eppure nell’inno di san Paolo si capisce che tutta l’esistenza di Gesù, dal momento dell’incarnazione, era stata sacerdotale, ossia offerta di se stesso a Dio.

Se la kenosi ha il suo primo atto nell’incarnazione, prosegue poi per tutta l’esistenza umana di Gesù nell’obbedienza ininterrotta al Padre. Spogliandosi della “condizione divina”, rinuncia anzittutto al potere divino di disporre di sé, di autogestirsi, per diventare colui che d’un modo del tutto unico obbedisce al Padre e lo fa in modo così totale che la sua obbedienza non è se non la versione creata dell’amore totale ed eterno che come Verbo ha nei confronti del Padre. Questa sua obbedienza alla volontà del Padre, dopo aver assunto in piena libertà la condizione di servo, non è che il sacrificio che Gesù fa di sé durante tutta la sua esistenza umana. Gesù, direbbe Origene, è stato sacerdote del proprio sacrificio sempre. Prima di morire Gesù non si è mai presentato come signore e capo; è stato dopo la morte in croce che, risorto, assume la signoria sulla Chiesa che col suo sangue ha generato. Durante la sua vita, insomma, Gesù era sacerdote perché era Gesù, non perché vantava dignità sacerdotali.

Il sacerdozio regale

Come avete senz’altro capito, qui c’è tutta la teologia del sacerdozio regale, comune a tutti i battezzati. È su questo argomento che ci soffermiamo, per capire che l’unità voluta da Gesù è un’unità che si modella sulla vita di comunione delle tre Persone divine, ma che questa comunione non è possibile tra noi esseri umani se non vivendo ciascuno quel sacerdozio che ha contraddistinto l’esistenza umana di Gesù per l’ubbidienza al Padre e con l’esporsi per gli altri fino a dar la vita.

Non sembra casuale allora, notare questo fatto: se Dio ha voluto mandare oggi sulla terra un carisma particolare per aiutare la Chiesa e l’umanità a camminare più speditamente verso l’unità, allo stesso tempo ha voluto che questo carisma mettesse in risalto il sacerdozio comune. Chiara lo esprime in termini eloquenti: «Mi sembra - dice - che Dio attraverso la nostra Opera voglia mettere in rilievo, come ha fatto lo Spirito Santo nel Concilio, in modo del tutto particolare il sacerdozio regale (...). L’Opera di Maria, con la sua spiritualità, sottolinea qualcosa che è già nella spiritualità sacerdotale di tutti i sacerdoti del mondo; pur tuttavia 1’Opera di Maria la sottolinea, e voi sapete che la spiritualità è Gesù abbandonato e l’unità».

Abbiamo visto il sacerdozio regale di Gesù. Ma come lo devono vivere i battezzati? Tutti noi fedeli, lo sappiamo, formiamo un sacerdozio santo e possiamo esercitarlo offrendo a Dio sacrifici spirituali e annunziando, testimoniando con la propria vita, la grandezza di colui che ci ha tratti fuori dalle tenebre per accoglierci nella sua luce.

Ma che cosa significa «offrire sacrifici spirituali»? Lo spiega bene Origene quando scrive che siamo una stirpe spirituale perché ciascuno di noi ha in sé il proprio olocausto da offrire, ed esemplifica con queste parole: «Se rinunzio a tutto ciò che possiedo, se prendo la mia croce e seguo Cristo, offro me stesso in olocausto all’altare di Dio..., se amo i fratelli tanto da dare per loro la mia vita, offro me stesso in olocausto all’altare di Dio. Se mortifico le mie membra da ogni concupiscenza carnale, se il mondo è crocifisso a me ed io al mondo, ho offerto un olocausto all’altare di Dio e sono diventato il sacerdote del mio sacrificio». Questo sacerdozio regale è dunque una partecipazione reale alla vita di Gesù e al suo sacrificio sulla croce dove in modo unico e tipico hanno coinciso l’offerente e l’offerta.

Non altrimenti intende il sacerdozio dei fedeli il Crisostomo quando dice al cristiano: «Sii sacerdote del tuo corpo» (Om. 20) ed altri padri che parlano di sacerdotium caritatis e di sacerdotium castitatis. È il sacerdozio fondamentale che riguarda tutti, presbiteri e laici. Le Costituzioni apostoliche (1, 3-21) già dichiaravano: «Né il vescovo si ritenga superiore ai diaconi e ai presbiteri, né i presbiteri presumano di essere superiori al popolo; la Chiesa infatti è costituita da entrambi... l’essere cristiani dipende da noi...», mentre l’essere presbiteri o vescovi è un carisma, un dono da porre a servizio degli altri.

Maria modello del sacerdozio regale

Se Gesù, col suo abbandono e con la sua morte in croce, genera la Chiesa e ne diventa di essa il capo, Maria, la cui vita è stata una continua offerta di sé nella radicale obbedienza a Dio, raggiunge il vertice del suo sacerdozio regale al momento della desolazione, quando offre se stessa assieme al Cristo suo figlio, e diventa madre della Chiesa nascente e di tutta la Chiesa futura. Per questo il sacerdozio regale è chiamato anche sacerdozio mariano. Nel nostro movimento abbiamo spesso sentito Chiara insistere su questo punto: il sacerdote ideale si ha quando il carisma presbiterale si innesta su Maria, ossia sul sacerdozio regale vissuto e stravissuto, perché allora non potrà che essere servo degli altri; Maria infatti non la si comprende se non come ancella, e quindi non come un capo; allora il sacerdote avrà la piena autorità mariana.

La Mariapoli popolo sacerdotale

Bello è questo “popolo sacerdotale” dove se c’è un primato ce l’ha chi ama di più, chi genera più unità. Molti di noi questo popolo sacerdotale l’hanno trovato nell’Opera di Maria. Ricordo quando nelle prime Mariapoli estive dove, come oggi del resto in tutto il mondo si ripetono, convenivano famiglie, laici consacrati, bambini e preti, giovani, religiosi e religiose, si cantava: «Tranvier, studenti e medici, speziali e deputati entrando qui in Mariapoli son già parificati», perché l’unica legge della Mariapoli era ed è l’amore scambievole, e l’amore, si sa, porta a considerare l’altro uguale a sé, anzi più grande di sé; così che anche noi preti dovevamo in genere tacere e imparare a vivere, e pur coscienti dell’ordine sacro imparavamo a non farcene una prerogativa di distinzione (e qui parafraso la Lettera ai Filippesi), ma a spogliarcene, a diventare servi, uomini tra gli uomini, a vivere come uno di loro e a farci obbedienti a tutti. Fu allora che ci sentimmo finalmente sacerdoti. Fu proprio nelle Mariapoli che scoprimmo Maria non tanto come devozione ma come vita, perché vedevamo che Maria riviveva in quei laici per i quali non aveva importanza il fatto di essere architetti o medici, ma di essere cristiani. L’essenziale era vivere Maria per essere più Gesù, tutti insieme. In questa unità di un corpo che vive, ciascuno aveva poi suoi doni personali da offrire o, se vogliamo, i propri carismi. L’essere preti, per noi, diventava il nostro servizio.

La meraviglia era di vedere finalmente un pezzo di Corpo mistico di Cristo che si muoveva come corpo sociale. L’unità era possibile! E non solo perché avevamo un solo Dio, una sola fede e un solo battesimo, ma perché si era compaginati dall’amore concreto, sì che tutti davano e tutti ricevevano, dalle realtà più spirituali a tutte le cose materiali. Lì si faceva l’esperienza che siamo stati creati per essere un dono l’uno all’altro, e che nella casa della madre comune, Maria, non esistevano discriminazioni di sorta. L’essere laico o prete, uomo o donna, ricco o povero, vergine o sposato, nero o bianco, non erano che delle chances che individualmente avevamo per farne dono e arricchirci ognuno personalmente dell’infinita varietà dei doni di Cristo. Non è forse questa la pericoresi trinitaria, la comunione divina vissuta sulla terra? Non è questo il testamento di Gesù realizzato anche se solo in una ristretta porzione di umanità?

Incongruenze possibili nella vita dei presbiteri

Quanti di noi sacerdoti in quelle Mariapoli che vedevamo come uno spaccato autentico di Regno di Dio sulla terra, abbiamo cominciato a riscoprire con gioia la logica del Vangelo, a trovare vivificante ciò che prima ci poteva apparire mortificante e a capire che era invece mortificante ciò che prima cercavamo di custodire gelosamente!

Voglio accennare soltanto ad alcune incongruenze che tutti più o meno conosciamo per esperienza:

L’io sacerdotale confuso con il ruolo sacerdotale, quando invece dovrebbe coincidere con l’io di Gesù crocifisso il quale con l’abbandono e la morte genera la Chiesa. Conseguenze pratiche: ogni dolore è nostro perché è di Gesù, e va amato perché ci fa più Gesù ossia più sacerdoti, più madri dell’umanità.

I consigli evangelici di povertà, castità e obbedienza lasciati volentieri da vivere ai religiosi quando invece sono le condizioni concrete per vivere il testamento di Gesù. Gesù abbandonato è il povero, Gesù abbandonato è il casto, Gesù abbandonato è l’obbediente fino alla morte.

Conseguenze concrete: la povertà ha valore se è comunione spirituale e materiale, perché solo così è inscritta nella comunione trinitaria; la castità ha valore se è maternità spirituale, possibilità anzitutto di vivere tra sacerdoti la vita dei tre vergini di Nazareth dai quali Chiara ha avuto l’ispirazione per creare in mezzo al mondo queste cellule di vita trinitaria che sono i focolari; l’obbedienza ha valore se è dono di sé, perché solo così è inscritta nelle reciproche relazioni trinitarie, perché solo così Gesù l’ha vissuta nei confronti del Padre e degli uomini, perché solo così la concepisce san Paolo quando dice: «Ubbiditevi, fatevi servi gli uni degli altri» (Gal 5, 13) in quanto l’altro dobbiamo considerarlo sempre più grande di noi (cf Fi1 2, 4), il che è l’equivalente dell’espressione: in ogni prossimo vedere Gesù.

Senza la vita dei consigli evangelici non è possibile vivere l’unità nella misura dataci da Gesù: «Siate una cosa sola come il Padre e io siamo una cosa sola» (Gv 17, 21). Se non viviamo i consigli evangelici ci è impossibile uscire dall’individualismo che è contro-testimonianza del Vangelo. Così come lo è stato per i focolari laici, la casa di Nazareth è stata il modello che ha permesso ormai a centinaia e centinaia di sacerdoti di costituire quella vita comune di cui tanto si è parlato in questi giorni. Comunione di vita che rende reale il Re-gno di Dio, ti fa sperimentare la verità del centuplo spirituale e materiale e ti fa vivere in Gesù risorto.

Incongruenze nel campo dell’apostolato: la predicazione staccata dalla testimonianza di vita, quando invece dovrebbe essere l’annuncio del Regno di Dio in mezzo a noi, ossia che Gesù è veramente risorto: «Ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato, e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita» (1Gv 1, 1).

Ne segue che qualsiasi programmazione e attività pastorali sono insignificanti nelle anime e nel tessuto sociale se non sono originate da quella priorità assoluta che Gesù dice essere “il” comandamento, l’amore scambievole, e che san Pietro enuncia dinamicamente con le parole: «ante omnia – prima di fare qualsiasi cosa – abbiate fra voi l’amore reciproco e ininterrotto» (cf 1Pt 4, 8). L’amore infatti è la sintesi di tutte le parole del Vangelo: le illumina, le fa vivere e vivendole si diventa Cristo, Parola viva.

Incongruenze nel campo dei rapporti: la Trinità è la somma armonia (tre che sono uno), e la Chiesa costituita a modo della Trinità dovrebbe presentarsi come la massima armonia creata in un’articolata comunione di ruoli e di carismi che salvano l’individualità senza creare divisione; mentre invece siamo spesso malati di individualismo che crea contrapposizione. Diamo infatti poco ascolto ai vescovi e pretendiamo poi di essere ascoltati dai fedeli; parliamo di valorizzazione dei laici e non sappiamo ascoltarli; contrapponiamo ministeri e carismi, movimenti e Chiesa particolare invece di armonizzarli trinitariamente come doni dell’unico Spirito.

La Chiesa è comunione, ossia unità che non è uniformità e pluralità che non è dispersione. E la Chiesa a sua volta crea armonia nell’umanità quando dialoga con l’uomo di qualsiasi appartenenza religiosa o etnica, completamente aperta alla cultura moderna e ai problemi della comunità umana.

Azione materna della Mariapoli

Sono queste alcune incongruenze della nostra vita sacerdotale di cui prendevamo coscienza nelle Mariapoli, in queste città di Maria dove la comunione effettivamente si vive. Ma prendevamo coscienza anche di un altro fatto: se è vero che nessuno può generare Gesù se non Maria, ebbene, la Mariapoli era veramente Maria perché le conversioni fioccavano: Gesù nasceva e rinasceva nel cuore di atei e lontani, di cristiani in catalessi, di chi aveva abbandonato la pratica cristiana perché tediato da un cristianesimo puramente cultuale, o di chi per mancanza di un ambiente cristiano si era rassegnato a cedere alle tentazioni del mondo. Per noi preti, all’inizio fu una constatazione sconvolgente: i laici operavano conversioni, mentre noi ci limitavamo nella nostra pastorale a battezzare, confessare, celebrare, vedendo però il numero dei praticanti, in questo mondo secolarizzato, sempre più restringersi.

Il decreto Presbyterorum Ordinis del Concilio Vaticano II sul ministero e la vita sacerdotale dice che i presbìteri devono educare i cristiani a vivere non egoisticamente, ma secondo le esigenze della nuova legge della carità, la quale vuole che ciascuno amministri in favore del prossimo la misura di grazia che ha ricevuto (cf n. 6). Non che volessimo proprio educarli egoisticamente, ma ci siamo resi conto che, nella realtà dei fatti, la nostra pastorale era orientata in modo tale che – a parte la celebrazione dell’Eucaristia e altri momenti dedicati ai riti sacramentali – i cristiani, fuori della chiesa, vivevano praticamente in modo individuale, poiché nella vita concreta la comunità era completamente assente nei loro pensieri ed era nulla l’interazione sociale fra di essi. Il “Corpo mistico di Cristo” lo si predicava volentieri ma restava appunto “mistico”, invisibile; non si traduceva cioè in corpo sociale, in comunità ecclesiale.

Nelle Mariapoli, invece, dove ognuno vive per l’altro, vedevamo che ognuno effettivamente amministrava in favore del prossimo la misura di grazia che aveva ricevuto da Dio, e questo reciproco servizio era comunione anche visibile, e così capimmo il perché delle conversioni. È un perché spiegato ancora dal decreto appena citato quando afferma che la comunità ecclesiale – quando è visibile come comunità fatta di creature nuove che vivono secondo le esigenze della nuova legge dell’amore e quindi in modo trinitario – «esercita una vera azione materna nei confronti delle anime da avvicinare a Cristo. Essa infatti viene ad essere, per chi ancora non crede, uno strumento efficace per indicare e per agevolare il cammino che porta a Cristo e alla sua Chiesa» (ibid).

È la comunità, in quanto visibile “Chiesa-comunione”, che è strumento efficace per generare. E allora si capisce che questa “Chiesa-comunione” è Maria, poiché – cito ancora Origene – se Gesù è nato dalla Vergine, nessuno che non sia Maria può generare Gesù. Ma vivere Maria vuol dire vivere “insieme” quel sacerdozio regale di cui lei è modello e tipo nonostante sia persona individuale, perché contiene in sé anche la pericoresi ecclesiale, quella per cui nell’amore scambievole ciascuno porta in sé l’altro e dà se stesso all’altro.

Soltanto insieme si è popolo sacerdotale

Che il sacerdozio regale vada vissuto normalmente “insieme” appare molto chiaro dal termine hiérateuma che ha un significato chiaramente corporativo, ma anche dal fatto che san Pietro parla dei cristiani come «pietre vive che formano insieme un edificio spirituale» (1Pt 2, 5). I cristiani, insomma, non sono individui giustapposti gli uni agli altri che vivono il proprio sacerdozio per conto proprio. Un cristiano che pretendesse di andare a Dio da solo si autoescluderebbe dal sacerdozio cristiano (cf A. Vanhoye, Prêtres anciens, prêtre nouveau). È la stessa idea di san Paolo quando dice che i credenti tutti insieme formano una costruzione che è l’abitazione di Dio (cf Ef 2, 21-22) nella quale alcuni sono apostoli, altri sono profeti o evangelisti o pastori... così coordinati gli uni agli altri nel servizio reciproco, uniti alla testa che è Cristo, non soltanto ne fanno crescere il corpo, ma vivendo per il corpo ognuno costruisce se stesso nell’amore (cf Ef 4, 11-16). Questo edificio è fatto di tutti, laici e presbiteri, ma l’unità di tutti nel sacerdozio regale precede la distinzione dei diversi ruoli.

Accentuare i ruoli al di sopra della fondamentale uguaglianza vuol dire creare caste di potere, poiché seppure il collegio apostolico e tutti i presbiteri siano maschi, il maschile già a livello individuale si deteriora in potere clericale se l’ordine sacro non si innesta in Maria, così come anche socialmente l’unità tra presbiteri si deteriora in casta di potere se non si mantiene nel dinamismo della comunione presbiteri-laici.

Ecco Giovanni con Maria. Ecco Maria fra gli apostoli che sta a ricordar loro che ciò che vale è l’amore, Dio, e che senza l’amore-servizio ogni ruolo è dittatura, antitesi del sacerdozio di Cristo.

Ed ecco allora perché l’Opera di Maria pone oggi l’accento sul sacerdozio regale: perché non c’è santità né individuale, né collettiva se non vivendo Maria. Maria, questa persona storica che è stata e rappresenta certo il modello, il tipo del cristiano, ma che soprattutto è da rivivere quale conditio sine qua non per rapportarci gli uni agli altri a modo della Trinità per formare così la “nazione santa”, una società divina ma socialmente visibile, la Chiesa, che non può non costituire allora l’attrattiva di tutti gli esseri umani, i quali, se hanno una nostalgia ontologica e – direi – perciò psicologica per quanto inconscia, è di sicuro quella di ritrovare la casa dalla quale originariamente sono emigrati, la Trinità. Ecco perché il testamento di Gesù è: «tutti siano una cosa sola».