Il Movimento Sacerdotale

 

Nel pomeriggio della Giornata «Il sacerdote oggi. Il religioso oggi» d. Silvano ha parlato sull’impatto che la spiritualità dell’unità ha avuto sin dagli anni ’50 su centinaia e poi migliaia di sacerdoti, e sulla conseguente nascita del Movimento sacerdotale in seno al più vasto Movimento dei focolari (Opera di Maria).

Ricordate quella frase di Agostino che ci veniva ripetuta ogni anno agli esercizi spirituali: «Si isti et illi, cur non ego?». Bene, a me è successo proprio così: immerso in una vita indaffarata piena di ideali, di sacrifici e di frustrazioni, mi sono imbattuto in persone impegnate nel mondo ma che davanti a me sembravano non aver nient’altro da fare se non ascoltarmi – ho poi capito che in me vedevano Gesù –, in persone che anche nei momenti di sofferenza continuavano a sorridere e ad amare, perché la sofferenza per loro era Gesù; in cristiani che per quanto medici, avvocati, architetti facevano i lavori più umili con la stessa gioia e senso di pienezza che se stessero realizzando le loro opere più grandi: realizzavano infatti la volontà di Dio, come Gesù; in cristiani che molto più radicalmente di me avevano lasciato padre, madre, professione, patria per vivere liberi a servizio degli altri, e per quanto vivessero a volte nelle situazioni più assurde – umanamente – non riuscivi a scollargli dalla faccia la gioia. Il primo impatto con loro ha provocato un esame di coscienza interiore, quanto mai benefico, anche perché con tutta naturalezza mi chiedevano se veramente il mio ideale era Dio (mentre per me al primo posto c’era il sacerdozio, l’apostolato, l’insegnamento...); mi chiedevano se amavo Gesù e se quindi vivevo da Gesù; ma lo shock più forte fu forse l’accorgermi, in seguito, che loro le persone le convertivano, che gli andavano dietro, mentre un esame sincero della mia attività pastorale faceva registrare, sì, molte confessioni e molti battesimi ma scarse conversioni. Intendo quelle conversioni che si verificavano ad esempio nei primi secoli del cristianesimo quando una persona cambiava vita in modo radicale, quando ancora aveva senso parlare di passaggio dall’uomo vecchio all’uomo nuovo.

Lo shock, dico, era forte, poiché noi che avevamo il mandato di predicare e di convertire, l’unico sforzo vero che facevamo era di conservare nella fede e nella pratica cristiana quelle persone che già la praticavano. Ed è stato proprio a contatto con la spiritualità del Movimento che è avvenuta una seconda revisione di vita; mi sono domandato: non è, per caso, che ho capovolto i valori? che ho perso di vista l’essenziale e dato importanza a metodi o cose secondarie? In realtà per me era successo proprio cosi: il fare era più importante dell’essere, vale a dire che fare era più importante che amare; sì, perché anche la preghiera era un fare (fare le pratiche di pietà) e il ministero era un fare; non un essere in Dio, un essere la volontà di Dio; e allora veramente tutto crollava perché mi sentivo sempre svuotato interiormente e senza frutti all’esterno.

È vero: questa spiritualità mi ha aiutato a riscoprire quell’aspetto regale del sacerdozio di cui è modello Maria, la Vergine tutta sostanziata di Parola di Dio, la Madre che ha cresciuto Gesù, la Corredentrice che l’ha ricevuto morto diventando Madre nostra. La profonda devozione a Maria imparata in seminario ha avuto la sua logica continuazione in questo tendere a “essere”, a rivivere Maria, per crescere e maturare nel Cristo sacerdote. Mi accorsi poi – come ho detto – che non ero il solo sacerdote ad aver fatto questa esperienza interiore, a capire che ci trovavamo di fronte a un carisma che ci mostrava la strada per generare anche oggi – com’ebbe a dire Paolo VI – Gesù in noi e più ancora – ecco la novità – Gesù in mezzo a noi. E capii perché la Chiesa aveva dato alla struttura portante di questo carisma il nome di Opera di Maria.

Fu solo più avanti però, nel 1960, che ci guardammo tra noi sacerdoti e dicemmo: ma anche noi possiamo amarci, pronti a dar la vita l’uno per l’altro, e meritare cosi la presenza di Gesù da lui stesso pro-messa! Ci provammo, e fu una vera scoperta, perché mai coscientemente vissuta fino allora, mai – direi – sfruttata, privando così noi stessi e i fedeli di questa luce del Mediatore Risorto. Una realtà semplice e altissima: semplice, perché basta amare; altissima, perché è il compimento della vocazione sacerdotale. In realtà, il mondo ha bisogno di Gesù, non di me; il mondo andrà dietro a Lui, ma non verrà mai dietro a me. Ma non è proprio a noi preti che Gesù ha detto: «siate una cosa sola... affinché il mondo creda che il Padre mi ha mandato»? C’era bisogno che lo dicesse, se fosse bastata l’unità del carattere sacerdotale? Non può darsi, allora, che nel nostro ministero abbiamo disatteso proprio la prima condizione postaci da Gesù per testimoniarlo al mondo, in modo che sia Lui ad evangelizzare anche oggi? Forse che non possiamo fare in modo, se siamo uniti, di poter sempre dire – chiunque siamo, per quanti limiti e difetti abbiamo – «non siamo più noi a vivere ed agire, ma Cristo in mezzo a noi»?

Essere una cosa sola: quali conseguenze sul piano concreto! Scoprire Gesù nel Vescovo e amarlo e sentirsi uno con lui! Come potevamo ad esempio pretendere che i fedeli ascoltassero noi come se ascoltassero Gesù, quando noi stessi non sempre lo facevamo nei confronti del Papa e del nostro Vescovo? Non ha detto sant’Ignazio di Antiochia che non può dirsi unito a Gesù chi non è uno col proprio Vescovo? Essere una cosa sola. Abbiamo sperimentato che se lo siamo, se viviamo cioè la Parola di Gesù: «cercate prima il Regno di Dio, e tutto il resto vi sarà dato», ossia, se ante omnia ci amiamo veramente da avere fra noi Gesù, Lui mantiene la sua promessa e ci manda il centuplo. Certo non c’è amore se non c’è comunione sia spirituale che materiale: questa è la condizione. Ma se questa condizione si avvera, quando ciò che ho nell’anima non è più mio perché ne faccio dono, e quanto possiedo non è più mio perché lo metto in comunione, anche il problema della perequazione economica del clero si risolve d’incanto, non in forza di una legge, ma per l’onnipotenza dell’amore, così come d’incanto si risolve radicalmente il problema della solitudine del sacerdote. Se tutto questo l’abbiamo potuto sperimentare a livello mondiale tra chi ha capito e accettato di vivere nel carisma dell’unità, pensiamo si possa e si debba tanto più attuarlo a livello diocesano.

Essere una cosa sola fra sacerdoti vuol dire aiutare i fedeli a farsi comunità, vuol dire sentirsi responsabili della parrocchia altrui come della propria con lo stesso amore universale di Gesù; vuol dire aiutarsi reciprocamente, con totale apertura dell’anima, a configurarsi a Gesù nel mistero del suo abbandono sulla Croce, ciò comporta aiutarsi ad accettare ed amare ogni volontà di Dio, aiutarsi a vivere lo spirito e la pratica dei consigli evangelici che sono in definitiva la condizione necessaria per identificarsi con Gesù povero, casto e obbediente. Questa “unità” col Padre è condizione necessaria, dunque, per realizzare anche tra noi sacerdoti la piena unità e santificarci assieme.

Essere una cosa sola significa fare famiglia tra noi, quel tipo di famiglia di cui è modello in terra la famiglia di Nazareth, una convivenza di vergini, soprannaturale sì ma anche la più umana che si possa immaginare perché ha come unico vincolo quella carità umano-divina che sazia e supera le esigenze di qualunque affetto umano. Dove questa convivenza si verifica, infatti, non ci sono più crisi di celibato, di solitudine e di angoscia, perché si vive nel Risorto, in un’altra dimensione. E se siamo famiglia si risolverà anche il problema dei sacerdoti anziani, perché è assurdo e contrario al comandamento di Gesù permettere che un parroco, perché vecchio o malato, debba vivere abbandonato alla sua solitudine o nell’anonimato di una casa per anziani, quando dovrebbe poter rimanere col nuovo parroco, nella stessa casa, perché “è” un membro di famiglia che ha diritto di essere amato e assistito, di continuare a rendersi utile pastoralmente secondo le sue possibilità o di essere valorizzato per il valore più alto e fruttuoso che possiede, la sua sofferenza.

Questa famiglia è bella e attraente, perché in essa risplende l’armonia dell’uno; è casa aperta a confratelli e seminaristi, centro di comunione, perché dove vive Gesù non si sente lo stacco fra generazioni: Gesù è il sempre attuale, il sempre moderno; è il Logos di Dio, il teologo, è la Sapienza continuamente generata sulla terra da chi rivive Maria. Se Gesù è presente, ogni discorso di tradizionalismo o di progressismo diventa arcaico, anacronistico.

Queste certezze – e sono tali non solo aprioristicamente ma anche perché sperimentate – le hanno ormai migliaia di sacerdoti in tutto il mondo, legati fra loro per nessun altro motivo se non per attuare il comandamento di Gesù: «siate una cosa sola», così come lo abbiamo visto attuare dai membri del Movimento dei focolari dai quali abbiamo appreso – ed è questo il loro carisma storico confermato dalla Chiesa – il modo, la pratica per essere uno. Uno fra noi, uno con loro nella cui vita ci specchiamo come in Maria per cogliere ed eliminare in noi stessi ogni riaffiorare di individualismo, di autosufficienza, di orgoglio spirituale; uno con loro, la cui vita ci grida continuamente che ciò che vale è Dio, l’amore, l’unità, che il nostro sacerdozio è se siamo Gesù in croce, fattosi nulla per riunire l’umanità al Padre e i figli tra loro; che il nostro sacerdozio è se è al servizio del sacerdozio comune dei fedeli, e non viceversa.

Il Movimento sacerdotale dell’Opera di Maria non è stato – per così dire – voluto o programmato; è semplicemente nato, fiorito dal carisma del Movimento dei focolari, innestato nell’Opera di Maria da-ta da Dio al mondo d’oggi per ridire anche nel mondo ecclesiastico non a parole ma a fatti la sintesi del Testamento di Gesù: l’unità.