Il significato della promessa di Mt 18, 20 sullo sfondo della teologia veterotestamentaria dell’alleanza

 

L’Emmanuele, il Dio-con-noi

di Gérard Rossé

 

L’autore, noto biblista, in questo articolo ci offre uno studio puntuale, profondo e contestualizzato sulla presenza di Gesù nella comunità secondo l’evangelista Matteo.

1. Il Dio-con-noi, caratteristica
   della teologia di Matteo

La presenza di Gesù in mezzo alla comunità dei discepoli è senza dubbio una caratteristica dell’ecclesiologia di Matteo. L’evangelista menziona esplicitamente tale presenza, anche tra due o tre radunati nel suo nome, all’interno del cosiddetto “discorso comunitario” del cap. 18.

L’affermazione cristologica di Mt 18, 20 potrebbe sorprendere all’interno di un discorso che fin lì era prettamente “teologico”, ma non è nuova per il lettore che ricorda Mt 1, 22-23: «Tutto questo avvenne perché si adempisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta: Ecco, la vergine concepirà e partorirà un figlio che sarà chiamato Emmanuele, che significa Dio con noi».

Non sfugge la densità teologica di questi versetti. Il loro posto all’inizio dell’opera conferma l’importanza che l’evangelista attribuisce loro. In questo brano che può essere considerato il prologo del Vangelo, il narratore fornisce elementi basilari per caratterizzare colui che ne è il protagonista. Gesù viene presentato come colui che «salverà il suo popolo dai suoi peccati» (Mt 1, 21) e come «Emmanuele, il Dio-con-noi» (v. 23). In ambo i casi è Dio stesso a parlare ed egli parla per il tramite di un angelo e per mezzo del profeta e quindi nella Sacra Scrittura. Così l’autore sin dall’inizio svela implicitamente il punto di vista di Dio stesso sul ruolo e l’identità di Gesù, punto di vista che sarà per il lettore il criterio di lettura attraverso l’intero Vangelo.

Notiamo come Matteo introduce la citazione del v. 23: «tutto ciò avvenne...», cioè tutto ciò che l’evangelista ha scritto nei versetti precedenti – l’origine divina del protagonista e la sua funzione salvifica già contenuta nel nome “Gesù” – tutto questo fa parte della Scrittura, di una Parola di Dio che giunge alla sua realizzazione in Colui che è l’Emmanuele: l’accento cade su questo titolo (ancora confermato dall’inclusione con Mt 28, 20b). Per Matteo non c’è rottura storico-salvifica tra Israele e Chiesa, anzi la storia di Dio con il suo popolo giunge a compimento con la venuta di Gesù. L’evangelista inoltre lega i due “nomi” (“Gesù” e “Emmanuele”): la funzione di salvezza fa parte della vocazione dell’Emmanuele; la presenza del Dio-con-noi è per vocazione una presenza salvifica in mezzo al suo popolo.

L’epilogo dell’opera, come detto, mostra che l’attenzione dell’autore sacro si porta in modo speciale sul secondo nome1: Emmanuele. Questo nome rimanda all’identità divina, misteriosa del protagonista di cui l’evangelista aveva parlato già in occasione del suo concepimento. Gesù presente è il luogo dell’auto-rivelazione ultima di Dio2. Egli realizza la presenza di JHWH in mezzo al suo popolo; non perché prendesse il posto di Dio, ma perché nella presenza dell’Emmanuele la vicinanza del Dio dell’alleanza giunge a compimento a favore di un popolo chiamato ad abbracciare l’intera umanità (cf Mt 28, 18ss). La cristologia di Matteo è eminentemente teocentrica: essa rinvia a Dio chiamato «Padre che è nei Cieli».

E così, il nome “Emmanuele, cioè Dio-con-noi” illumina la storia di Gesù narrata nel Vangelo, come una storia in cui parla ed agisce il Dio vicino. Nello stesso tempo l’evangelista, attribuendo questo nome al Risorto, va al di là di questa storia narrata, riferendosi, a livello extradiegetico3, al tempo del lettore, un tempo che si estende alla storia intera dell’umanità e cioè «fino alla fine del mondo» (Mt 28, 20b).

Il lettore è dunque invitato a leggere il Vangelo non soltanto come una storia passata e a capirla alla luce della fede pasquale, ma anche come una storia sempre attuale. Di conseguenza il lettore, seguendo la narrazione del Vangelo, si trova ad ogni pagina in contatto col “Dio-con-noi”, anche se l’evangelista non lo ricorda esplicitamente. Gesù risorto incarna la presenza salvifica di Dio, con la sua parola come unico Maestro (cf Mt 23, 8), con il suo agire come Colui che cura e sana le infermità, perdona i peccati (cf Mt 8, 17), con la sua legge come Signore che ha ricevuto ogni potere (cf Mt 28, 18).

2. L’Emmanuele alla luce
    della teologia dell’alleanza

Per afferrare il pensiero che fa da sfondo alla teologia di Matteo, occorre rivolgersi all’Antico Testamento. L’evangelista che è giudeo-cristiano pensa con categorie bibliche.

La stessa espressione “Dio-con-noi”, che suona familiare ad un lettore giudeo-cristiano, invita a rivolgersi alla teologia dell’alleanza che percorre la Bibbia (in particolare il Deuteronomio). Questa visione storico-salvifica illumina l’ecclesiologia matteana e permette di capire più in profondità ciò che significa e implica per l’evangelista la presenza di Cristo in mezzo ai suoi, e di cogliere il nesso sostanziale che lega, nella sua opera, cristologia, ecclesiologia ed etica.

La scelta di una tale teologia non è casuale, ma risponde senz’altro ad una necessità interna della comunità alla quale Matteo rivolge la sua opera. La Chiesa matteana aveva bisogno di un risveglio: lo lascia intendere l’espressione “gente di poca fede” che percorre come un leitmotiv l’intero Vangelo; il costante rimprovero che Gesù rivolge ai discepoli: mai una lode! (riservata unicamente ai “pagani” come la donna cananea e il centurione di Cafarnao); i numerosi avvertimenti e minacce di giudizio («là sarà pianto e stridore di denti») all’indirizzo degli stessi discepoli. In particolare sembrava spegnersi l’amore, come lascia intendere la parola redazionale di Mt 24, 12: «per il dilagare dell’iniquità, l’amore di molti si raffredderà». Ed è lì, per Matteo, il punto dolente, poiché se l’amore fraterno viene a mancare la comunità smarrisce la propria identità datale proprio dalla presenza di Cristo in mezzo ad essa.

Parlando alla sua Chiesa nella prospettiva di una teologia dell’alleanza, l’evangelista riesce a mettere la vita della comunità a confronto con l’esperienza che Israele aveva fatto nella propria storia con il suo Dio. È un modo efficace  per coscientizzare la comunità sul legame intrinseco che esiste tra “il Dio-con-noi”, il comportamento etico e le conseguenze di benedizione/maledizione, cioè di salvezza (entrare nel Regno dei Cieli) o di giudizio di condanna. Matteo ha trovato nella teologia dell’alleanza la coerenza interna capace di dare al suo insegnamento forza di convincimento.

Vorrei sottolineare qualche aspetto della teologia dell’alleanza presente nel primo Vangelo.

a) L’alleanza è con la comunità

L’alleanza è fatta non con un singolo, ma con Israele costituito come popolo e mantenuto nella sua identità di popolo di Dio dalla presenza di JHWH in mezzo ad esso.

Matteo ama rappresentare la Chiesa come gruppo di discepoli attorno a Gesù: così la pericope della famiglia di Gesù, con i ritocchi che l’evangelista ha fatto rispetto alla sua fonte (Mt 12, 46-50; cf Mc 3, 31-35): lo sguardo di Gesù avvolge ora direttamente ed esclusivamente il gruppo dei discepoli; essi sono i fratelli suoi, ma questo rapporto personale è condizionato dal fare la volontà del Padre pienamente rivelata da Gesù.

Significativa anche la reinterpretazione, compiuta da Matteo, dell’episodio della tempesta calmata (Mt 8, 18-22.23-27; cf Mc 4, 35-41): egli fa precedere il racconto da una serie di loghia sul discepolato, e così trasforma l’episodio in un racconto di vocazione vissuta: i discepoli con Gesù presente nella barca, immagine di una Chiesa ancora nelle prove del suo cammino storico.

L’epilogo (Mt 28, 16-20) del vangelo è particolarmente importante per far conoscere l’interesse del redattore: Gesù appare ai discepoli nella pienezza del potere divino ed è in questa sua autorità che egli invia i discepoli in missione. Da notare la scelta del vocabolario per caratterizzare la missione: non la terminologia tipica del kerygma apostolico (reso con i verbi “annunciare”, “proclamare”), ma con i verbi “fare discepoli” e “battezzare, insegnare”. E l’insegnamento sta nel fare osservare i comandamenti di Gesù. La missione non è tanto messa in relazione col kerygma da proclamare, ma con la costituzione della comunità dei discepoli. Matteo ha di mira la vita della Chiesa come popolo di discepoli (cf Mt 21, 43), al quale Gesù promette la sua presenza salvifica che richiede come risposta l’obbedienza alla sua Legge, popolo del quale tutte le nazioni sono invitati a farne parte. La permanenza della presenza del Signore – «fino alla fine del mondo» – conferma che essa non è soltanto messa in relazione con l’invio in missione, ma anche con il frutto di tale invio: la comunità dei discepoli che si definisce proprio per la sua relazione con il Risorto presente (cf Mt 8, 23ss; 12, 47-50; 21, 14-16).

L’epilogo del Vangelo non fa dunque che sottolineare l’interesse dell’evangelista per la vita della comunità, una comunità giudeo-cristiana apertasi alle nazioni: un motivo in più per ricordarle la sua responsabilità di testimonianza. Non c’è infatti dubbio che Matteo chiama la sua Chiesa ad essere sale e luce, mediante la propria vita interna, per il mondo intero.

La Chiesa deve essere “la città posta sul monte” per essere “luce del mondo”, e perché «risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al Padre vostro che è nei Cieli» (Mt 5, 14-16). Il tema della luce è frequente nella Bibbia, e riceve diverse applicazioni; messo in relazione con la “città sul monte”, evoca le profezie riguardo alla Città santa, luce delle nazioni per la presenza di JHWH in essa (cf Is 60, 1.3; 62, 1; 2, 1ss; Sal 121/122, 3 ecc.), ma ora applicato non più ad un luogo geografico ma ai discepoli come popolo convocato.

Per Matteo la luce è riflessa dalle “opere buone”, cioè dall’esistenza dei discepoli che vivono in conformità con la volontà del Padre; in particolare nel loro amore fraterno essi sono luce (e non luci), e testimoniano l’unica fonte luminosa, la presenza dell’Emmanuele. Il lettore è già stato preparato a mettere il motivo della luce in relazione con Gesù: Mt 4, 16 applica alla venuta di Cristo il testo di Is 9, 1: «Il popolo che giace nelle tenebre ha visto una grande luce...».

b) Altra caratteristica dell’alleanza:
   il dono della Legge

Gesù è presentato in veste di legislatore e unico Maestro (cf Mt 5-7; 23, 8), che comunica le sue esigenze sul monte, il nuovo Sinai (cf Mt 5, 1), esige obbedienza, promette il suo aiuto e minaccia il giudizio.

Di conseguenza, e a differenza di Paolo, Matteo pone l’accento non tanto sulla gratuità della salvezza (che evidentemente riconosce: cf Mt 18, 27; 22, 2ss; ecc.), ma sul comportamento etico come risposta a tale dono. Egli inserisce – nella linea della teologia dell’alleanza4 – l’etica nella soteriologia. L’obbedienza alla volontà del Padre comunicata da Gesù è la condizione per entrare nel Regno dei Cieli.

Il Decalogo, cuore della Legge di Mosè, mostra quanto sia fondamentale la dimensione sociale dei comandamenti: è all’interno di Israele come popolo col quale JHWH ha concluso l’alleanza, che il singolo membro vive il suo rapporto con JHWH; e questo rapporto richiede necessariamente il legame con gli altri, l’essere appunto popolo.

Le esigenze di Gesù non sono diverse. La ripetuta esortazione a fare “opere buone” non è soltanto un invito ad una vita moralmente buona; l’insistenza stessa sull’agire cristiano rivela che per Matteo si tratta di ben più del dare buon esempio: occorre prendere sul serio la dimensione “Chiesa” del proprio comportamento. Una comunità che non mette in pratica «ciò che vi ho comandato» mette in gioco la propria identità che le viene dalla presenza di Cristo, e perde la sua ragione d’essere.

Etica ed ecclesiologia sono inseparabilmente legate proprio dalla costitutiva presenza del Risorto in mezzo ai discepoli.

Nella stessa logica, l’etica di Matteo (come quella biblica) è fondamentalmente non una etica delle virtù tesa alla santificazione individuale dei membri della comunità, ma una etica di comunione: essa tende alla fratellanza (cf Mt 5, 22; 23, 8ss; ecc.) e in tale fratellanza il credente vive il rapporto personale con l’Emmanuele e con il Padre (cf Mt 5, 23s; 6, 12.14-15; ecc.). La Chiesa è continuamente “creata” dalla presenza dell’Emmanuele e dall’amore fraterno: le due realtà sono inseparabili anche se la seconda è sempre soltanto risposta all’iniziativa della prima.

Non stupisce, di conseguenza, l’importanza che l’evangelista attribuisce all’amore fraterno nella comunità, tema che egli tocca esplicitamente nel cosiddetto “discorso comunitario” di Mt 18.

3. Il discorso comunitario di Mt 18

Come gli altri “discorsi” del primo Vangelo, anche Mt 18 è una raccolta di “detti di Gesù” provenienti da varie fonti, che il redattore ha combinato e rielaborato con intelligenza, a secondo della propria finalità. Senz’altro l’insegnamento incluso in questo capitolo ha valore universale, ma esso non appare come una istruzione sull’amore fraterno in generale. Piuttosto siamo in presenza di un pressante appello alla fratellanza quando, in un modo o nell’altro, quest’ultima rischia di venire meno ed è minacciata essenzialmente da due tipi di pericoli: il pericolo di disprezzare o scandalizzare “i piccoli”, e il pericolo di respingere il fratello peccatore. Il primo caso riguarda credenti che sono vittime del male fatto da altri, il secondo caso concerne credenti che fanno il male. Nei due casi comunque, è la fratellanza che si tratta di salvaguardare o di recuperare non tanto con regole disciplinari ma con l’amore senza misura.

L’evangelista rivolge il suo discorso ad una comunità nella quale la realtà di “Chiesa” come popolo dell’alleanza è vissuta nella fragilità della condizione umana. La luce della presenza di Cristo si vede condizionata dal comportamento più o meno fraterno dei membri. In questa prospettiva si può cogliere nella giusta luce l’intenzione globale di questo discorso e la sua dinamica. Non è il caso di farne l’analisi dettagliata5.

a) La cura per i piccoli

La prima parte è dominata dal tema della cura per “i piccoli”. Tuttavia l’evangelista non inizia con esortazioni o consigli su come occuparsi di questi membri più fragili della comunità. Proprio per essere nella condizione di poterlo fare correttamente, egli chiede al lettore (al cristiano di ogni comunità) di rivolgere lo sguardo per primo su se stesso!

«In quell’ora i discepoli si avvicinarono a Gesù dicendo: chi dunque è il più grande nel Regno dei Cieli ?» (v. 1).

Suggestivo come l’evangelista trasforma una scena di rivalità tra i discepoli su una questione di preminenza  (cf Mc 9, 33-36) in una domanda che i discepoli fanno rispettosamente all’unico Maestro della comunità, domanda che riguarda la vera grandezza nel Regno dei Cieli, non soltanto nel Regno futuro, ma nel Regno come realtà di salvezza già in atto nella comunità di fratelli. Quindi più che una chiave per giungere in Paradiso, Matteo formula una legge che vale ora nel Regno di Dio presente; siamo alla scuola di Gesù presente in mezzo alla sua Chiesa.

Paradossalmente la vera grandezza sta nell’essere piccolo come un bambino (vv. 3-4). Il bambino non è però presentato come un modello da imitare in qualche sua virtù. La caratteristica del bambino è proprio l’essere piccolo, quindi dipendente dall’adulto. L’essere piccolo come un bambino è innanzitutto l’atteggiamento di colui che sa di avere tutto da ricevere in ordine alla salvezza. Il “piccolo” è il povero di sé (cf Mt 5, 3) dinanzi a Dio e nei confronti del fratello. In Matteo tuttavia non si può negare l’attenzione anche al comportamento etico, allo sforzo del credente per diventare tale, ad un atteggiamento di umiltà quindi6. Con un tale atteggiamento occorre rivolgersi al fratello più debole: accoglierlo (v. 5). Il diventare come i bambini evita di giudicare chi è debole, dispone alla comunione fraterna con tutti anche e soprattutto con quelli che si sarebbe tentato di scartare, passando oltre. Al contrario, proprio i fratelli più fragili hanno bisogno di un’attenzione speciale. Il versetto aggiunge un motivo supplementare: la solidarietà di Cristo con questi credenti bisognosi: «chi accoglierà un bambino come questo nel mio nome, accoglie me» (v. 5).

Matteo non ha in mente l’inabitazione di Cristo nel cuore del credente, ma pensa al Risorto presente nella comunità7; come JHWH, anche Gesù sta dalla parte dei poveri, dei deboli, dei sofferenti. Chi dunque si apre al più fragile nella comunità rafforza la sua comunione con Cristo presente in mezzo alla Chiesa.

Come la sua fonte (Mc 9, 42-47), Matteo insiste particolarmente sullo scandalo che può accadere nella vita della comunità: occorre assolutamente evitarlo. L’evangelista accentua l’avvertimento scrivendo che l’autore dello scandalo meriterebbe di essere affogato nel più profondo del mare (e non soltanto di essere gettato nel mare: Mc 9, 42). Lo scandalo provoca la perdita dei più deboli nella fede e uccide i rapporti fraterni.

Matteo poi aggiunge un avvertimento proprio: «guardatevi dal disprezzare uno solo di questi piccoli» (v. 10).

Lo scandalo, certo, è gravissimo, ma è pur sempre eccezionale, occasionale. Matteo ammonisce: ogni gesto, nella quotidianità, che prende in giro, che trascura, che tende a scartare “i piccoli” è già grave, perché nuoce all’amore fraterno.

La parabola della pecora smarrita illustra il comportamento da avere: fare del tutto perché nessuno si perda. «Il Padre vostro celeste non vuole che si perda neanche uno solo di questi piccoli» (v. 14).

Questa morale della parabola di Matteo fa capire bene dove sta la preoccupazione del redattore, e può sintetizzare l’insegnamento finora svolto. La conclusione è anche un’ottima introduzione alle esortazioni che seguono nella seconda parte del discorso. “Uno di questi piccoli” che non si tratta di perdere, è anche “il fratello che pecca”. L’orientamento cambia: non soltanto la cura per chi è vittima di scandalo, di disprezzo e di disattenzione, ma occorre fare il possibile per recuperare coloro che fanno il male nella comunità, coloro che vengono meno alla reciprocità dell’amore.

b) Il rapporto con i fratelli che vengono
    meno alla reciprocità dell’amore

Matteo assume una regola disciplinare preesistente – la cosiddetta correctio fraterna (vv. 15-17) – già rafforzata dal v. 18: la decisione della Chiesa viene sancita anche da Dio. Ma pur conservandola, la reinterpreta.

I vv. 15-17 si presentano come una regola che si conclude con una sentenza di scomunica formulata con un’espressione che difficilmente risale a Gesù o allo stesso redattore: «sia per te come il pagano e il pubblicano».

In origine, la regola disciplinare riflette l’ecclesiologia di una comunità piuttosto settaria, e manifesta lo sforzo di voler preservare, con provvedimenti disciplinari, l’identità di santità e quindi di purezza che compete al popolo di Dio degli ultimi tempi. Poter  realizzare la “società perfetta”!

Già la parabola del frumento e della zizzania (Mt 13, 24ss) rispecchia una ecclesiologia che reagisce contro questa pericolosa mentalità che vuole anticipare nella storia presente lo stato di purezza futura del popolo escatologico e così prendere il posto di Dio come Giudice ultimo: «Lasciate che crescano entrambi fino al raccolto» (Mt 13, 30). Su questa terra, la Chiesa è un corpus mixtum nel quale convivono sempre buoni e cattivi (cf Mt 22, 10).

Il nostro redattore si trova sulla stessa linea: egli sa che il peccato nella Chiesa è inevitabile; non è bene cadere nella pericolosa illusione di voler costruire la società pura e perfetta con decisioni disciplinari di esclusione. Occorre invece attivare l’amore fraterno, rafforzare i legami all’interno della comunità favorendo una mentalità di accoglienza in sintonia con quella del Padre celeste (cf Mt 5, 43-48). Matteo trasforma di conseguenza una regola disciplinare in una esortazione alla riconciliazione: l’agape fraterna costituisce infatti il motore del popolo dell’alleanza8.

Trasformando la regola disciplinare in un’esortazione alla riconciliazione, Matteo non può chiudere il discorso. Il cambiamento di mentalità richiede anche un cambiamento di condotta nella prassi. Il redattore dunque prosegue e rivolge la sua attenzione, nei vv. 19-20, all’ekklesia (cf v. 17) chiamata non a condannare ma a salvare il fratello peccatore. E quindi: «Di nuovo vi dico: se due di voi si accorderanno sulla terra per una qualunque cosa, se la chiederanno, sarà loro concessa dal Padre mio che è nei Cieli» (v. 19)9.

L’evangelista dà un valore nuovo alla comunità radunata per pronunciare una esclusione (sancita anche da Dio: v. 18): fare di quest’assemblea una Chiesa concorde nella preghiera! A questa preghiera (che riguarda una materia di contrasto, come indica il senso giuridico del termine greco pragma = cosa, affare) sarà promesso l’esaudimento da parte del Padre celeste.

Come capire questo in concreto? Matteo vorrà dire che la decisione di scomunica non deve provenire da una fredda applicazione di una regola disciplinare, ma deve semmai avvenire dopo essersi messi all’unisono con la volontà divina? In questo caso c’è l’augurio che la volontà di Dio avvenga in terra come in Cielo (cf il Pater Noster), e cioè che la volontà del Padre – che ama il peccatore – possa guidare sulla terra la decisione della ekklesia.

Ma com’è improbabile che l’assemblea sia invitata a pregare per sapere se escludere o meno il fratello ostinato (si è già escluso da sé!), il versetto potrebbe piuttosto invitare alla preghiera fatta a favore del fratello ostinato, come ultimo ricorso, per affidarlo a Dio. La preghiera detta “in sinfonia” è vista come il mezzo efficace per continuare ad amare il fratello che con la sua ostinazione si è escluso da solo dalla comunione fraterna.

Ma ora il redattore completa: «Dove infatti sono due o tre radunati nel (eiV) mio nome, là sono io in mezzo a loro» (v. 20).

Ecco la firma dell’evangelista! Alla preghiera della comunità radunata è garantita l’esaudimento in virtù della presenza di Cristo. Salta agli occhi l’inatteso passaggio ad un detto cristologico. Matteo interpreta l’insieme delle affermazioni teo-logiche del capitolo (tranne v. 5) nella prospettiva della sua concezione ecclesiologica dell’Emmanuele10.

La presenza di Cristo dà alla preghiera della Chiesa fatta all’unisono tutto il suo valore presso Dio. Matteo dunque presenta al lettore il fondamento cristologico della relazione della comunità con il Padre celeste.

Senz’altro, il fatto che il redattore non esiti ad utilizzare la formula “due o tre”, pur pensando nel contesto alla Chiesa radunata (v. 17), apre l’orizzonte a varie applicazioni: la presenza del Risorto non si limita ad un’assemblea ecclesiale, ma si attua ovunque cristiani, non importa il numero, vivono insieme (nel suo nome).

Come sempre, l’indicativo della salvezza precede l’imperativo etico, cioè la presenza del Signore in mezzo ad un gruppo radunato nel suo nome è sempre anteriore alla risposta dell’uomo. Ma, come è caratteristico per la teologia dell’alleanza assunta da Matteo, all’agire divino è strettamente collegata la risposta del credente come impegno che dà validità ed efficacia alla presenza di Cristo. L’agire etico condiziona il significato di tale presenza: Cristo come «colui che salva il suo popolo dai peccati», che guida, aiuta, soccorre nel presente, sarà anche il Giudice escatologico che realizzerà la separazione tra buoni e cattivi.

L’obbedienza richiesta ai “due o tre” è implicita nell’espressione “nel mio nome”11. Non qualsiasi incontro tra discepoli gode della presenza salvifica del Risorto: occorre sposare la sua causa, seguire le sue esigenze; in concreto, nel nostro contesto, lasciarsi determinare dalla sua volontà di riconciliazione e di fratellanza. Non è poca cosa! Ma la posta in gioco lo richiede. Ciò che Matteo chiede alla sua comunità è una vera conversione che non sta unicamente in un miglioramento del comportamento morale, ma più profondamente nell’attuare, nell’amore fraterno vissuto, l’identità dell’ “essere Chiesa”. Il comportamento etico, condensato nell’amore fraterno, ha immancabilmente una dimensione cristologica ed ecclesiale. Soltanto nella fratellanza vissuta, la comunità vive nella vicinanza di Dio, e attua la sua vocazione di “luce sul monte” che testimonia Cristo, luce del mondo.

c) Il perdono

Il capitolo si conclude col tema del perdono introdotto da una domanda di Pietro, portavoce della comunità12. Il tema è appropriato in un contesto di esortazioni alla fratellanza rivolte ad un corpus mixtum che deve vivere la sua realtà di “popolo convocato”. Il peccato è ora visto come un’offesa personale, ma l’orientamento dell’insegnamento non cambia: è sempre la fratellanza che si tratta di promuovere nel fare del tutto per ristabilire la relazione interpersonale.

«Soltanto il perdono salverà la comunità dall’amputazione»13, e soltanto il perdono permette alla Chiesa di essere se stessa per la presenza del Risorto, ma è altrettanto vero che la stessa presenza primaria del Risorto aiuterà e spingerà a perdonare sempre.

La risposta del Signore è categorica: il perdono illimitato come esigenza incondizionata, come una necessità che va al di là del calcolo.

La parabola del servo spietato (vv. 23-35) illustra la necessità del perdono e ne dà la motivazione teologica: il discepolo è stato per primo perdonato; è un graziato. È quindi necessario e possibile perdonare anche “di cuore” (v. 35), là dove il credente, a sua volta, è stato toccato dal Dio perdonante (cf Mt 1, 21).

Nella parabola l’accento è spostato: non si parla di perdono illimitato, ma della necessità di perdonare come condizione per rimanere nel Perdono divino. La logica della struttura dell’alleanza è rispettata così come l’intenzione specifica dell’evangelista che, pur riconoscendo l’agire previo del Re che concede la grazia, insiste sul comportamento del graziato: un comportamento di origine soteriologica (v. 34), orientato alla fratellanza (v. 35).

4. Conclusione

Possiamo definire l’ecclesiologia di Matteo come una ecclesiologia dell’alleanza. Il pensiero fondamentale sta nell’affermazione della presenza dell’Emmanuele come il dono che attua la presenza del Padre celeste: cristologia e teologia sono inseparabili.

Tale ecclesiologia esprime nello stesso tempo la continuità e la novità della storia del Dio dell’alleanza con il suo popolo. Dio non rinnega il patto stabilito con Israele; l’alleanza è una, ma trova il suo compimento nel Dio-con-noi, la presenza di Gesù risorto. La vicinanza perenne di Dio si realizza dunque in quella di Cristo in mezzo ad un popolo convocato da tutta la terra.

Assieme alla continuità, l’ecclesiologia di Matteo manifesta anche tutta la novità rispetto al patto di JHWH con Israele, poiché la presenza divina si compie nella figura storica di Gesù che Dio ha risuscitato; è la novità di un popolo generato nell’evento pasquale.

È vero che le circostanze storiche, la situazione nella quale si trova la Chiesa matteana in polemica con la Sinagoga, fanno sì che l’evangelista contrapponga fortemente il popolo giudaico che ha rifiutato il Vangelo – e quindi considerato abbandonato da Dio, abbandono che Matteo vede realizzato nella distruzione di Gerusalemme – ad «un popolo che produce i frutti» (Mt 21, 23), cioè permane nell’obbedienza alle esigenze del Maestro.

Anche per Matteo vale l’affermazione del Levitico: «Se metterai in pratica queste cose, vivrai» (Lev 18, 5b). La legge di Gesù è salvifica in se stessa; il discepolo che la compie vive nel dono dell’alleanza e quindi nella presenza vivificante dell’Emmanuele.

Ora Matteo ha coscienza che il popolo chiamato a portare i frutti è un corpus mixtum. Il peccato che abita in esso è senz’altro un fallimento etico a dimensione ecclesiale: esso snatura il vero volto della Chiesa e ostacola la sua vocazione. La Chiesa può essere sale e luce sul monte soltanto se vive la propria identità di popolo convocato, e se nelle “opere buone” essa diventa la trasparenza di Colui che dimora in essa come Rivelatore del Padre celeste14.

La presenza del Risorto nella comunità è sempre salvifica: essa non viene a mancare lungo i secoli; Gesù non abbandona la barca nella tempesta; è una presenza che soccorre, sana, aiuta a superare la “poca fede”, brilla nell’amore fraterno. È soltanto nel giudizio finale che egli opererà la separazione tra i buoni e i cattivi.

Nella logica dell’alleanza, presenza di Cristo e comportamento etico sono inseparabili, ma non nel senso che l’etica condizioni la presenza stessa del Signore che non viene mai meno, ma condiziona sì il volto della comunità e la sua missione. A questo punto l’appello dell’evangelista alla fratellanza si fa pressante. Ma più che ricorrere a regole disciplinari, egli invita ad una mentalità che prenda seriamente a cuore tale fratellanza e ne capisca la fondamentale importanza.

Gérard Rossé0

 

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01)                                           Mt 1, 23 e 28, 20b fanno inclusione.

02)                                           Cf. H. Frankemölle, Matthäus-Kommentar 1, Patmos, Düsseldorf 1994, p. 156.

03)                                           “Extradiegetico” si dice di un narratore che si rivolge direttamente ai destinatari del suo scritto e non ai personaggi del racconto. Lo conferma la costruzione grammaticale nel v. 21: Gesù salverà il suo popolo dai loro (ci si aspetterebbe “dai suoi”) peccati; e nel v. 23 dove l’autore mette al plurale: “chiameranno” (che nei LXX è al singolare): l’evangelista ha già di mira “tutte le nazioni” (Mt 28, 19) che, accogliendo il battesimo e l’insegnamento degli apostoli, saranno discepoli di Gesù lungo la storia.

04)                                           All’osservanza o meno delle stipulazioni sono legate benedizioni e maledizioni.

05)                                           Si può leggere: G. Barth, Das Gesetzverständnis des Evangelisten Matthäus, in Überlieferung und Auslegung im Matthäus-Evangelium, Neukirchener Verlag, 19654; idem, Auseinandersetzung um die Kirchenzucht im Umkreis des Matthäusevangeliums, ZNW 69 (1978).
H. Frankemölle, Jahwe-Bund und Kirche Christi, Aschendorff, Münster 19742; H.E. Lona “In meinem Namen versammelt“, Archiv für Liturgiewissenschaft 27, 1985. G. Rossé, L’Ecclesiologia di Matteo, Città Nuova, Roma 1987. D. Marguerat, Le Jugement dans l’Evangile de Matthieu, Labor et Fides, Genève 1995, in particolare pp. 430ss.

06)                                           Vedi la costruzione “diventare come i bambini” (v. 3), “abbassare se stesso” (v. 4), a differenza di Mc 10,15. Cf E. Neuhäusler, Exigence de Dieu et morale chrétienne, “Lectio Divina” 70, Cerf, Paris 1971, pp.193ss (titolo originale:  Anspruch und Antwort Gottes...”, Patmos Verlag, Düsseldorf 1962).

07)                                           I vv. 5 e 20 sono gli unici versetti del discorso dove il protagonista (Gesù) fa riferimento a se stesso; essi esplicitano il punto di vista del narratore: la presenza dell’Emmanuele nella Chiesa, e possono quindi essere collegati: il credente che accoglie, si mette in sintonia con Cristo presente.

08)                                           Sorge spontaneamente la domanda: perché il redattore non ha semplicemente eliminato questa regola disciplinare, invece di trasformarla? Forse esiste un motivo di convenienza: la regola era ancora in vigore nella comunità matteana, e di conseguenza non era opportuno passarla sotto silenzio. Inoltre la stessa teologia dell’alleanza spinge Matteo a condividere il contenuto della regola. Certamente è essenziale fare di tutto per salvaguardare la comunione fraterna tra tutti i membri; ma se il fratello si ostina? se i numerosi tentativi per “salvare” il fratello falliscono? La comunità è posta in esistenza dalla presenza del Risorto e ne porta l’impronta, non vi può rinunciare. Se il fratello persiste nel     (segue da pag. 163)

     suo rifiuto, non si esclude da se stesso dalla vita ecclesiale? Non rompe il legame con la Chiesa e con Cristo presente in essa? La Chiesa non può che sancire un dato di fatto.

09)                                           Il versetto è da considerare prematteano, ma soltanto il redattore lo lega ai vv. 15-17.18. “Di nuovo” (palin) è tipicamente redazionale. Il v. 19 è unito al v. 18 con parole-aggancio: “sulla terra – in Cielo”.

10)                                           Chiaramente la parola del v. 20 supera il contesto diegetico: normalmente Gesù parla ai discepoli rimandandoli al “Padre nei Cieli” (vv. 10.14.19.35; cf vv. 18.23ss). Nel v. 20 invece (come nel v. 5) il protagonista riferisce i discepoli a se stesso. Evidentemente l’autore implicito interviene direttamente dando il suo punto di vista. È probabile che l’evangelista stesso sia all’origine di questo detto: lo suggeriscono già il passaggio dalla teologia alla cristologia e a quella tipicamente matteana del Dio-con-noi. Altri indizi lo confermano: egli adatta l’inizio del versetto (“due o tre”) al v. 19 (“se due”), e si aggancia, nella scelta del verbo “radunare” alla regola disciplinare (l’ekklesia del v. 17). Il legame col v. 19 tuttavia non è perfetto: “radunati nel nome di Gesù” (v. 20) invece di “sinfonia di voci” (v. 19) (ma si capisce alla luce della sua ecclesiologia); passaggio dalla seconda persona (v. 19) alla terza (v. 20): tensione che si spiega a livello redazionale: Matteo ha voluto dare il carattere di sentenza generale che avvolge non soltanto il v. 19, ma l’intera sezione dei vv. 15-19, pur lasciando aperta altre applicazioni (vedi H. Frankemölle, Jahwe-Bund..., op. cit., pp. 34s; H.E. Lona, art. cit., p. 382). Matteo si è ispirato ad una sentenza rabbinica sulla Shekhinah? (J. Sievers, “Dove due o tre...”: il concetto rabbinico di Shekhinah e Matteo 18, 20”, in “Nuova Umanità” 20 (1982) pp. 56-71. Per il pro e il contra vedi G. Rossé, L’Ecclesiologia di Matteo, Città Nuova, Roma 1987, pp. 96ss.

11)                                           Il redattore non usa la preposizione en al dativo, ma eis + acc. che ha senso finale (in vista di) o causativo (a motivo di, a causa di).

12)                                           Cf Lc 17, 4 = Q.

13)                                           D. Marguerat, op. cit., p. 434: la parola di Gesù è da mettere in relazione con l’uso parenetico che Matteo fa della regola disciplinare.

14)                                           Cf Mt 5, 16: la gente che vede le opere buone dei discepoli non rende gloria alla comunità, ma al Padre che è nei Cieli.