Flah di vita

 

Maria mi porta al Padre

Un parroco della diocesi di Perugia ci parla in modo breve ma sostanzioso e vitale del suo rapporto con Maria.

Alla scuola di una mamma che vive con la corona in mano non potevo non imparare fin da piccolo a pregare il rosario. Difficilmente, quindi, mancavo alla funzione della domenica pomeriggio nella chiesa parrocchiale.

Mi sembra di sentire ancora oggi quel ripetersi di Ave Maria che, pur scorrendo sempre uguali e piuttosto monotone, creavano nella mia fantasia di bambino un’immagine di Maria come mamma buona che mi attirava. Non riuscivo ad andare oltre la sua persona. E il rapporto restava ancorato al sentimento. Per questo non tardai ad avere una reazione piuttosto negativa verso questa forma di preghiera.

Finché cinque anni fa, mentre attraversavo un momento duro – uno di quelli che ti appaiono senza soluzione e che non risparmiano nemmeno noi preti – mi ritrovai profondamente solo. Fu allora che risuonò dentro di me una frase che l’Apostolo Paolo si sentì dire dal Signore di fronte ad una situazione personale anch’essa piuttosto precaria: «Ti basta la mia grazia».

Non volli reagire a questa situazione abbandonando il campo o aumentando le attività e quindi cadendo nell’attivismo, ma per fortuna presi la decisione di alzarmi più presto al mattino, non per fare programmi né per mettere a punto cose che potevano sembrare importanti e urgenti, ma solo per avere il tempo di stare da solo con il Signore.

E così cadeva la voglia di andare avanti con le mie sole forze, mentre cresceva l’esigenza di lasciar fare a Dio, ponendomi in ascolto.

Spontaneamente mi ritrovai a dire il rosario e notai che questa preghiera mi introduceva all’incontro con Gesù e per Gesù con il Padre. E mentre Maria mi faceva da madre e maestra col suo esempio, comprendevo e riuscivo a realizzare nella vita due azioni determinanti: il chiedere perdono e l’abbandonarmi in Dio. Mi sembrò un miracolo e fu la mia salvezza.

Quel periodo è stato come una scuola, in cui Maria mi metteva in evidenza Gesù, prendendomi per mano e conducendomi fino a lui.

Da allora non c’è stata mattina senza questo incontro.

Ed ecco due piccole esperienze recenti.

Conosco bene e mi aveva colpito questa frase di Chiara Lubich: «Il distacco dal bene che ho fatto, è un contributo a edificar Maria». Ne ho avuta la riprova in questi ultimi tempi.

Precedentemente ero parroco a Castiglione del lago e a Petrignano del lago, dove ho vissuto tante belle esperienze e potevo intravedere anche qualcosa di promettente per il futuro, quando il vescovo mi trasferisce a Villa Soccorso e Montecolognola.

Maria mi ha aiutato a buttarmi con decisione nella nuova realtà senza nostalgie e senza tante storie, convinto che questa era la volontà di Dio su di me. Ed ho visto fiorire tante cose buone in queste nuove parrocchie. Ma pure in quelle lasciate, le realtà evangeliche che erano state seminate stanno andando avanti, forse perché anche quei parrocchiani hanno cercato, come me, di fare bene quello che ci si chiedeva. Mi sembra che stiamo tutti immersi in un’esperienza più limpida e più profonda di Dio.

La seconda realtà è una riscoperta dell’Eucaristia. Ho avuto la grazia di partecipare al Congresso mariano internazionale dell’aprile scorso organizzato dal Movimento dei focolari a Castel Gandolfo (Roma).

In quei giorni ho capito che nei momenti aggrovigliati della vita, quando vedi tutto nero e puoi dubitare, ecco salire dal cuore l’esigenza di stare più unito a Gesù e insieme a lui affidare te e tutto di te al Padre. E ho trovato la possibilità di far questo concretamente nell’Eucaristia.

Come non vedere anche qui la lezione di Maria? Nell’ultima enciclica, Ecclesia de Eucaristia, il Papa definisce Maria “la donna eucaristica” e scrive: «Maria ha concepito nell’Annunciazione il suo figlio Gesù fisicamente con corpo e sangue, anticipando, in qualche maniera, in sé ciò che si realizza sacramentalmente nel cristiano, che riceve, nel pane e nel vino, il corpo e il sangue del Signore. E quando, dopo l’incarnazione, porta nel suo grembo Gesù, è il primo “tabernacolo” della storia. Maria è presente in ciascuna delle nostre celebrazioni eucaristiche» (n. 57).

Questa presenza mariana si è fatta per me sempre più evidente nell’esperienza che sto vivendo nel Movimento dei focolari, un’Opera che vuol essere, insieme a tutti gli altri carismi della Chiesa, “casa e vita di Maria” per concorrere, uniti tra di loro e con il Papa e i vescovi, a radunare l’umanità in una sola famiglia.

Idilio Pasquoni

 

 

«Non piangete perché Paolo non vuole»

Il parroco e la comunità di Sacile in provincia di Pordenone, Italia, e soprattutto i genitori, che perdono il loro bambino in un incidente stradale, sanno affrontare con spirito evengelico questo dolorosissimo evento.

Un pomeriggio di maggio ero di ritorno da una giornata di ritiro con i bambini della prima comunione. Sulla mia macchina sono saliti quattro ragazzi. Il viaggio è tranquillo e gioioso. Improvvisamente però ad un semaforo la mia auto viene colpita di fianco da un’altra vettura. L’impatto ci fa capovolgere. Tre bambini ed io usciamo praticamente illesi, mentre il quarto, Paolo, rimane all’interno della vettura ed appare subito gravissimo.

Sono attimi di intenso dolore: mi rendo conto di quanto sta succedendo e nello stesso tempo mi sembra impossibile che una giornata così bella e significativa sia stata stroncata in quel modo. Cerco di raccogliermi in preghiera e mi rivolgo a Maria, chiedendole di compiere il miracolo, salvando Paolo e restituendo ai genitori il loro unico figlio.

Il disegno di Dio è però un altro: Paolo muore durante il tragitto all’ospedale.

Al pronto soccorso avverto il dolore inconsolabile della mamma Donatella e del papà Roberto che, sconvolto dal dolore, dice: «Se succede questo, Dio non può esistere».

Cosa posso fare? Penso al dolore di Gesù crocifisso e abbandonato, penso a Maria ai piedi della croce. Col passare delle ore un pensiero si fa sempre più profondo in me: «Gesù, tu solo puoi trasformare questo immenso dolore in amore», e glielo chiedo con fiducia. Nel frattempo cominciano ad arrivare visite, telefonate, lettere: «Preghiamo per te...», «ti abbiamo ricordato nella Messa...», e così per tutta la giornata di domenica. È una catena di preghiere e di solidarietà che non può restare inascoltata.

Un primo effetto delle preghiere lo colgo nell’incontro con i genitori che vengono a trovarmi spontaneamente due giorni dopo. Pur nel dolore, sono pieni di comprensione nei miei riguardi, si interessano della mia salute. Vedono che a causa del “colpo di frusta” sono infatti costretto a portare il collare. Io posso raccontare loro alcuni episodi vissuti con Paolo nella giornata del ritiro di preparazione alla prima comunione. Sono sereni.

Alla messa di saluto a Paolo è presente tutto il paese, e – attorno al vescovo che presiede la celebrazione e pronuncia parole di fede profondissima – c’è una forte ed intensa commozione.

Alla conclusione, mentre noi sacerdoti rientriamo in sacrestia, inaspettatamente viene annunciato che il papà di Paolo desidera parlare. Tutti si fermano, e si fa in chiesa un gran silenzio. Il papà parla e la sua è una testimonianza limpida e forte di un cristiano vero, che il dolore accettato rende quasi papà di tutti i bambini presenti. Rivolgendosi a loro ha detto: «Non dovete piangere: Paolo non lo vuole, perché lui è felice. È sempre stato un ragazzo pieno di gioia, ed anche amava la pace, non accettava che i suoi amici litigassero...». Ha concluso chiedendo preghiere non solo per la sua famiglia, ma anche per me, perché mi vedeva affranto dal grosso dolore. La commozione era fortissima in tutti.

La domenica successiva celebro per Paolo la messa di suffragio dell’ottavo giorno: sono presenti i genitori, i parenti, gli amici di Paolo, la comunità parrocchiale. Al momento della pace i genitori si fanno incontro a me titubante, salgono fino all’altare e ci scambiamo un abbraccio fraterno e commosso

Tocco con mano che la preghiera ottiene tutto. La serenità e la forza dimostrata dai genitori di Paolo ne sono una conferma.

Questa vicenda, pur dolorosissima, mi ha confermato nella certezza che Dio è Padre e ci avvolge sempre con il suo amore.

Pietro Salvador

Vivere la Parola per poi annunciarla

Il diacono Antonio Fioroni e sua moglie Anna, della diocesi di Milano, sono stati invitati da un gruppo di francescani, studenti di teologia, a parlare sul diaconato permanente. I due ci riferiscono di questo incontro.

Antonio: Non avevamo idee precise su cosa desideravano sapere. Abbiamo pregato insieme, affidandoci allo Spirito Santo.

Arrivati nella sala dell’incontro, il sacerdote coordinatore ci ha brevemente presentati e poi ha chiesto a me di parlare della figura del diacono permanente, la sua collocazione all’interno della comunità ecclesiale, i suoi compiti, le sue responsabilità, le sue relazioni con il clero e i laici. Questa richiesta mi ha colto un po’ di sorpresa, anche perché indirizzava il mio discorso sugli aspetti più propriamente funzionali del ministero, lasciando in ombra tutto il cammino precedente fatto da me e da Anna sia come singoli che come coppia.

Ho allora iniziato dicendo che il diaconato non era spuntato all’improvviso come un fungo nella nostra vita, ma affondava le sue radici e la sua ispirazione in un lungo cammino precedente, sia personale che di coppia.

E così, alternandoci, abbiamo parlato della ricerca di Dio che, in modi diversi, ha toccato la nostra vita giovanile, quando senza di lui ci sentivamo vuoti e delusi. E poi la riscoperta, attraverso la spiritualità del Focolare, di un Padre che ci ama immensamente, la scelta di Dio come il tutto della nostra vita, il successivo inserimento nelle realtà ecclesiali, l’approfondimento della Parola, una vita spirituale più intensa.

Il Signore poi ci ha fatto incontrare, portandoci a formare una famiglia e benedicendo il nostro amore nel sacramento del matrimonio. Attraverso alcuni anni di prove ha purificato e rafforzato la nostra fede e la nostra generosità, portandoci all’adozione di Stefano che allora aveva quasi nove anni. Pur dando la dovuta attenzione alla sua crescita, è continuato il nostro impegno in vari settori della pastorale parrocchiale: liturgia, catechesi, famiglia. Proprio al momento in cui io ero prossimo ad andare in pensione, Anna, ritornando a casa da un incontro di catechiste, ha riportato un desiderio e un auspicio del parroco: che il Signore facesse dono alla nostra parrocchia di un diacono. Questo messaggio mi ha colpito, si è come accesa in me una luce e i miei progetti fatti per il tempo della pensione sono passati in secondo piano. Da quel momento è nato fra me e Anna il desiderio di approfondire l’argomento, ma soprattutto di pregare insieme per capire la volontà di Dio. Il Signore ha poi guidato i nostri passi, dall’inserimento nel gruppo degli aspiranti diaconi fino all’ordinazione avvenuta il 4 novembre 1992 nel duomo di Milano attraverso il card. Martini.

Nell’ordinazione diaconale avevo ricevuto dunque l’incarico di annunciare la Parola dopo che Dio, conducendoci per mano, ci aveva fatto riscoprire il Vangelo come regola di vita.

A questo punto abbiamo potuto entrare anche nei vari aspetti pratici del ministero del diacono, dai criteri di discernimento sulla sua vocazione (che è auspicabile sorga dalla stessa comunità, d’accordo con il parroco e il Consiglio pastorale), alla sua particolare collocazione nel lavoro pastorale.

Il diacono, come si sa, pur facendo parte giuridicamente del clero, si trova a contatto con le varie realtà del mondo. Abbiamo tratteggiato la varietà dei suoi compiti, in base anche alle sue capacità e attitudini e alle necessità della parrocchia o della diocesi, il curriculum di studi, la formazione pastorale e spirituale, gli impegni familiari da armonizzare con gli impegni ecclesiali, ecc.

Anna: Quando ci si sposa, si è portati a pensare al matrimonio come ad un punto di arrivo; invece il matrimonio è tutto da costruire, giorno dopo giorno, con pazienza e con amore, in un cammino fatto di luci e di ombre, di gioie e di fatiche.

Così mi sembra possa essere anche il cammino di una coppia dove il marito è diacono: si arriva all’ordinazione giustamente come a una meta ambita, desiderata, preparata, ma poi si deve imparare cammin facendo a coniugare le varie esigenze che emergono sia nel matrimonio che nel ministero. Per me è stato importante collocare questa scelta come una vocazione, una chiamata del Signore. Solo allora si capiscono e si accettano meglio certi passaggi non sempre facili.

Antonio: Parlando agli studenti abbiamo constatato che questo incontro era stato un dono anche per noi. Dovendo raccontare la nostra esperienza, abbiamo potuto rivedere le varie tappe della nostra vita e riscoprire il filo rosso che collega fatti, persone, circostanze: abbiamo contemplato il disegno di Dio su di noi.

Anna: Quest’estate, a 10 anni dall’ordinazione di Antonio, ho avvertito nel cuore come se Gesù mi volesse sottolineare che i doni che aveva dato ad Antonio non erano per me, ma soprattutto per gli altri. E questo non mi toglieva nulla, anzi, ho provato una gioia intima che da tempo non ricordavo. A distanza di anni posso testimoniare che è proprio vero che l’amore si moltiplica quando lo si condivide.

Mi sono così ricordata che, quando Antonio aveva iniziato il cammino per diventare diacono, nostro figlio Stefano aveva espresso il timore di perdere il papà a causa degli impegni che sarebbero aumentati. Quella volta gli avevo risposto con tranquillità che non  avremmo perso nulla, ma che Gesù chiedeva a noi due di diventare un po’ più generosi.

Antonio: Al termine della conversazione, gli studenti sono venuti tutti a salutarci con molta spontaneità e cordialità. Gli auguri reciproci e la promessa del ricordo vicendevole nella preghiera hanno concluso il nostro incontro.

Antonio e Anna Fioroni

 

Il Natale più vero

Mentre siamo già in tipografia, giunge in redazione questo scritto di un nostro lettore, missionario in Brasile.

Questo sarà l’ultimo Natale che passerò in Brasile. (…) Mi viene in mente il mio primo Natale brasiliano, 25 anni fa. Fu a Recife, nella “favela” chiamata “l’isola dell’inferno”. Vi si entrava su passerelle di legno sospese sopra una fogna nauseante. Il tanfo ti penetrava dappertutto, fino a farti vomitare. Sul luogo della celebrazione, all’aperto, gli ornamenti, le luci, le bandierine fatte di giornale cercavano di imitare il Natale tradizionale: anche un presepio di terracotta entrava nelle pupille dilatate dei bambini, come una favola, troppo bella per essere vera. Le melodie natalizie gracchiavano da un vecchio giradischi. C’era un po’ tutto del solito Natale.

Eppure pochi lo scoprivano vivente il Natale nei bambini seminudi e sporchi, negli uomini infuocati nel volto e incerti sulle gambe, per la troppa “cachaça” (una specie di grappa estratta dalla canna da zucchero), nelle donne sfiorite dagli stenti, ornate solo di fatica e di bambini in braccio, appesi alle gonne o in attesa di nascere.

C’era un Gesù bambino vivo: una adolescente, nel suo lettuccio con le ruote, che ansimava, come Gesù in croce nelle ultime ore di vita: Natale e Venerdì santo insieme, con l’annuncio della risurrezione nel suo sorriso debole e delicato come una promessa di amore.

Da quel primo Natale brasiliano, come da un albero stanco, in autunno, sono cadute tutte le inutilità dei miei Natali. Non mi servono più le melodie, le luci e i colori, i vestiti nuovi, i cibi tipici, lo scambio di regali. Se ci sono, come realmente continuano ad esserci, non mi interessano. A volte mi irritano, mi danno depressione.

Mi sono abituato al Natale più vero dove al centro c’è un Dio che mi ama teneramente e L’UOMO, tutti gli uomini che sono recuperati dagli scantinati dell’umanità e presi per mano dal DIO-UOMO e dagli uomini che si sono lasciati sedurre dall’amore di Dio.

Il cammino è diventato l’avventura della Incarnazione e la pazzia della morte-resurrezione.

È Natale per tornare all’essenziale, per far rinascere in noi la fede semplice e immensa di Maria e Giuseppe, dei miseri pastori, dei re che si inginocchiano e offrono doni.

Gesù si è presentato vestito di stracci per liberarci dal terrorismo degli scribi e farisei, dei sacerdoti del tempio. Poteva, come re degli eserciti, bombardare di frecce il palazzo di Erode e la corte dell’imperatore romano, come si fa oggi.

Invece continua a mendicare seguaci del suo amore per rifare l’uomo e ridargli la libertà primitiva, come unico grande dono di Natale.

Gigi De Rocco