Radicati nel nostro momento storico e prendendo spunto dalla Scrittura, dobbiamo cercare nuove vie per l'evangelizzazione

 

Priorità per oggi

di Christian Hennecke

 

L’autore, un parroco tedesco impegnato nell’attività pastorale in due parrocchie insieme ad un altro sacerdote, e responsabile per l’aspetto della “martyria” (la testimonianza della fede) nella diocesi di Hildesheim, si interroga sulla necessità di individuare con coraggio nuove vie e priorità per poter evangelizzare con frutto il mondo di oggi. La situazione ecclesiale e sociale, in cui vive ed opera, rispecchia sempre più quella di tanti nostri lettori.

Un cammino sorprendentemente diverso. Ma forse qualche volta bisogna usare la spazzola contropelo; forse c’è bisogno del coraggio di abbandonare sentieri conosciuti; forse devo osare di aprirmi a nuove prospettive.

Sì, devo farlo. Dopo il lusso, almeno qui in Germania, di esser stato per sette anni parroco di una sola parrocchia nel nord del mio Paese, mi era chiaro, da un po’ di tempo, che le cose non sarebbero proseguite così, vista la scarsità sempre maggiore di sacerdoti.

Ora mi tocca impiegare metà del mio tempo come parroco in due parrocchie e più tardi forse in altre ancora, e l’altra metà per assolvere ad incarichi diocesani.

È il momento di cambiare percorso. Cosa fare se c’è sempre più da fare? È evidente che occorre individuare con maggiore decisione determinate priorità. Ma come? Con questa domanda comincio – anzi cominciamo – nell’autunno del 2002 il nuovo incarico. Parlo al plurale perché ho la fortuna di vivere a vita comune con un sacerdote più anziano.

Guardando la vita degli Apostoli

Il loro stile di vita era sorprendentemente stabile. Sicuramente si può imparare molto dall’esperienza dei primi cristiani. Nella chiesa nascente di Gerusalemme ritroviamo malesseri dovuti alla crescita. Gli Apostoli non riuscivano più a seguire tutti e in modo sorprendente cambiarono rotta: «Non è giusto – dissero – che noi trascuriamo la Parola di Dio per il servizio delle mense. Cercate, dunque, fratelli, tra di voi sette uomini di buona reputazione, pieni di Spirito e di saggezza, ai quali affideremo quest’incarico. Noi, invece, ci dedicheremo alla preghiera e al ministero della Parola» (At 6, 2-4).

Meditando queste frasi ho compreso che la mia vita ed il mio agire non si possono perdere nella voragine dei compiti raddoppiati; viceversa, più c’è da fare più devo radicarmi nel punto focale del mio servizio. Ed invece di essere dappertutto e in nessun posto, devo fare della casa, nella quale abito con un collaboratore, un centro vitale d’incontro e di rinnovamento. Se tutti si muovono, ci vuole la stabilitas perché le persone trovino un luogo dove possono incontrare Dio, una comunità che vive il Vangelo.

Questi pensieri sono certamente validi, ma sono anche realizzabili? Alcune esperienze mi hanno incoraggiato. Alla fine del gennaio 2003 alcuni giovani della parrocchia vengono a vivere nella nostra casa per dar vita, insieme ad un religioso italiano che conosciamo da tempo, ad una “scuola di preghiera”. Sono giorni vissuti intensamente che mi aprono una nuova prospettiva: fra i tanti compiti da svolgere è possibile allenarsi con questi giovani ad una vita secondo il Vangelo. La preghiera del mattino e della sera, la condivisione delle proprie esperienze, i pasti insieme, gli argomenti che trattiamo, tutto ci fa vedere che non solo noi sacerdoti impegnati in parrocchia ma anche altri che condividono la nostra vita di comunione, possono dar testimonianza della credibilità del Vangelo.

La realizzazione di questa scoperta è certamente un dono di Dio. Devo solo continuare a giocare, ascoltare e non farmi sfuggire il momento giusto. In questo modo facciamo un secondo passo durante un viaggio con i giovani a Taizé. Là sono affascinato dalla intensità e dalla regolarità delle ore di preghiera e mi diventa chiaro che posso introdurre anche nella mia parrocchia la liturgia delle ore. Il mio confratello è un po’ scettico: «Non avrai la costanza…».

Dal primo maggio in poi mi butto: ogni sera alle 19.30 si fa mezz’ora di preghiera della sera nello stile di Taizé. Certo, questo appuntamento per la preghiera mi lega abbastanza, ma presto ci sono anche altri che la svolgono con semplicità quando non posso essere presente. D’altra parte è nata una comunione nella preghiera che ci unisce profondamente. Fra 10 e 20 persone – non sempre le stesse – si radunano ogni sera per far silenzio, cantare e ascoltare la parola del Vangelo. Per me è un tempo di grande arricchimento.

Se guardo indietro mi rendo conto che il troppo lavoro minacciava di esaurire le mie forze. La Scrittura ci consiglia l’opposto: dedicarsi al servizio della Parola, testimoniare insieme Cristo e pregare. Questo trasforma la pastorale in un’avventura: mai ho dedicato tanto tempo alla preghiera e con sorpresa mi rendo conto che la vita non va indietro perché faccio di meno, ma cresce perché è Dio che fa crescere. Detto in poche parole: il soggetto della parrocchia non è più il sacerdote e neanche la comunità parrocchiale ma Dio stesso.

L’approccio
personale e carismatico di Filippo

Gesù chiama singolarmente alla sua sequela ed ognuno dà una risposta personale alla chiamata. La diffusione del Vangelo conosce certo grandi successi missionari come l’evento della Pentecoste, ma gli Atti degli Apostoli raccontano a lungo anche di incontri con singoli. L’episodio del battesimo dell’etiope (At 8, 26-40) è un esempio significativo. Nell’incontro personale, l’evangelizzazione riflette il donarsi di Dio alla singola persona.

Ma come questo si può attuare oggi? O meglio: visto il sovraccarico di lavoro, ciò è ancora possibile?

Già dal periodo del mio diaconato nel 1985 ho sentito ripetere con insistenza che il sacerdote oggi non può più accompagnare la singola persona nel proprio cammino di ricerca e di fede. Eppure ho sperimentato che questo accompagnamento è di grande importanza, anzi è prioritario. Di conseguenza ho speso in ciò gran parte del mio tempo, intraprendendo con le persone cammini comunitari di fede.

Nella nuova situazione, però, anche a me si poneva la domanda: avendo da seguire due parrocchie in pratica solo con metà del mio tempo, sarà ancora possibile svolgere una pastorale con un’impronta così personale?

La mia esperienza mi sorprende: sì, è veramente possibile, anche quando il tempo è scarso. Accanto alla conduzione della parrocchia con gli obblighi che comporta, bisogna avere il coraggio di seguire le singole persone. Sta qui la grande sfida del nostro tempo, visto il cammino di ricerca individuale e senza i tradizionali punti di riferimento che vivono tante persone.

C’è da aggiungere una considerazione: accompagnare i singoli non è questione di tecniche pastorali ma è una conseguenza della propria spiritualità. Il mio cammino con Dio sensibilizza e apre il mio cuore alle persone in ricerca. Nel nostro tempo di ri-spiritualizzazione è un fatto scontato che incontriamo un gran numero di persone così. Dall’altra parte è risaputo che gli attori della pastorale dicono di “non aver tempo”. Vorrei sostenere che bisogna avere il coraggio di prendersi il tempo per la singola persona in ricerca.

Dare testimonianza del Risorto
vivendo in comunione

Sembra ormai sciupata la parola comunione. Troppo spesso l’abbiamo pronunciata e troppo spesso l’anelito di comunione non riflette altro che le proiezioni e il bisogno di accoglienza dei singoli, assieme all’impotenza umana di procurarsela. E sovente proprio nelle nostre parrocchie.

Ispirandosi alla Scrittura ci si accorge che la comunione è prima di tutto una realtà teologale. Essa si realizza quando il Signore è in mezzo a noi e ciò lo si avverte e si sperimenta infallibilmente là dove «due o tre sono riuniti nel mio nome» (Mt 18, 20). Il Vangelo di Giovanni descrive chiaramente l’effetto evangelizzatore di questa presenza: «Da questo tutti sapranno che siete i miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri» (Gv 13, 34).

Negli ultimi anni ho fatto molte esperienze con gruppi della Parola e incontri nelle case. È urgente oggi riuscire a fare con le persone l’esperienza della presenza del Risorto. Egli è l’accoglienza, Egli è la vita che dobbiamo condividere. C’è da notare che, da una parte, gruppi, associazioni e comunità parrocchiali difficilmente conoscono questa forma di intensa comunicazione della fede e della vita e, nella maggioranza dei casi, stentano a comprenderla. Dall’altra parte tante persone cercano la possibilità di radicare la loro fede in un contesto comunitario, anche se non nelle forme tradizionali.

Può essere di aiuto guardare alla Chiesa in altre parti del mondo: le esperienze delle Chiese libere evangeliche, ma anche il programma delle small christian communities in tante diocesi dell’Africa, testimoniano che i segni dei tempi orientano la pastorale in questa direzione. Va tenuto presente che, nel contesto europeo, non si tratta tanto di creare comunità territoriali, ma di favorire – come fa notare Michael Hochschild – forme di “affinità spirituale”.

A questo scopo, ci vuole un’opzione non solo della singola parrocchia, ma di tutta la Chiesa locale. Per avviare simili processi di rinnovamento della vita ecclesiale occorrono spazi in cui si possa sperimentare ed apprendere una fede vissuta in comune, abbiamo bisogno, cioè, di scuole di spiritualità di comunione.

Non dovrebbe essere questa, nella Chiesa locale, una priorità della formazione dei futuri sacerdoti e di altri interessati? L’esperienza insegna che solo persone che hanno loro stesse esperienza di un tale stile di vita – non di rado esse provengono dai nuovi movimenti ecclesiali – hanno il coraggio e la capacità di accompagnare simili gruppi.

Anche questa opzione è di natura spirituale e non soltanto tecnica.

Aprirsi alle sorprese di Dio:
l’esperienza di Pietro

Quando si tratta di mettere a fuoco visioni pastorali, spesso parliamo di “visioni del futuro”, ma in realtà intendiamo “proiezioni del passato”. La differenza sta nel fatto che le proiezioni mirano a dare ulteriore sviluppo a un sistema già consueto e noto. In questo senso, dentro l’orizzonte di una Chiesa di popolo, si può arricchire la pastorale della parrocchia con celebrazioni per bambini e per neonati, con una sempre maggiore differenziazione della preparazione alla prima comunione ed alla cresima, con liturgie di benedizione ed altro ancora.

Non desta meraviglia il fatto che i sacerdoti e gli agenti pastorali ma anche interi programmi pastorali delle diocesi si collochino prevalentemente dentro l’orizzonte di proiezioni, più o meno riuscite, di questo tipo.

Ma una visione è un’altra cosa. Forse può essere illustrata bene con l’esperienza di un visionario controvoglia: l’apostolo Pietro. In Atti 10, 9-17 viene descritto un fatto pionieristico per lo sviluppo del cristianesimo. Nel caldo del mezzogiorno Pietro attende il pranzo sul terrazzo della casa che lo ospita. In questo momento si apre il cielo, scende una tovaglia con animali impuri ed una voce lo invita a mangiare: «Ma Pietro rispose: “No davvero, Signore, poiché io non ho mai mangiato nulla di profano e di immondo”. E la voce di nuovo a lui: “Ciò che Dio ha purificato, tu non chiamare più profano”. Questo accade per tre volte; poi d’un tratto quell’oggetto fu risollevato al cielo». E i gentili furono accolti nella Chiesa.

 Una visione è, dunque, qualcosa di nuovo. Non è prevedibile né può essere programmata. Appare, ci mette paura, provoca scandalo, perché rompe con le consuete tradizioni. La grandezza di Pietro consiste nel fatto che non rifiuta ciò che Dio gli fa vedere, ma l’accetta – anche se deve superarsi – e lo mette in pratica. Visioni sono realtà di Dio che si offrono perché io le veda e possa cambiare la mia idea del futuro. Non è facile essere visionari in questo senso.

Se oggi i movimenti carismatici e le nuove comunità spirituali rappresentano nella Chiesa forme nuove di vita evangelica, piene di Spirito e cariche di visione – come fu in passato con grandi carismi come quello benedettino o quello francescano – allora c’è urgente bisogno di persone che sappiano accogliere tali forme nuove che vanno al di là dei percorsi consueti, e farle fruttare. Sembra strano che certe forme moderne di autentica vita evangelica incontrino discriminazioni nei nostri ambienti solo perché non rientrano nei nostri schemi tradizionali. I tempi, mi sembra, esigono coraggio nel guardare in avanti e aprirci affinché Dio stesso ci possa mostrare quale futuro egli abbia preparato per la sua Chiesa.

Christian Hennecke