Pensare, vivere, testimoniare Cristo oggi, con ampio respiro ecumenico

 

L’annuncio del Cristo nel tempo presente

di Piero Coda

 

In occasione della “Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani”, che in gran parte del mondo si celebra dal 18 al 25 gennaio, offriamo ai nostri lettori questa conferenza, importante anche per la sua vasta prospettiva ecumenica.

Nella Novo millennio ineunte Giovanni Paolo II ha lanciato un messaggio racchiuso nell’invito di Gesù: «Duc in altum! Prendi il largo!»

Un invito che viene frainteso se lo si legge come il semplice imperativo a scendere in campo, con agguerrita determinazione.

No. Prendere il largo significa abbandonare la riva dove si tocca terra, per veleggiare in mare aperto, senza umane sicurezze, attenti al soffio dello Spirito.

Aprirci al Vangelo! Non si tratta, in primo luogo, di pensare a come annunciare Cristo nel tempo presente: si tratta di aprirci, disarmati, alla sua Parola di verità e di giustizia.

Qualche giorno prima di lasciare Milano, il cardinal Martini ha incontrato un gruppo di giovani che desideravano salutarlo. E ha detto loro un’unica cosa – me l’hanno raccontato essi stessi, profondamente colpiti –: “vi affido alla Parola”.

Non: vi affido la Parola di Dio, la meditazione della Scrittura, la lectio divina, ma vi affido alla Parola.

Che la Parola ci viva

È questa la conversione che ci è chiesta. Non basta meditare la Parola, ma non basta neppure vivere la Parola. Occorre che la Parola ci viva. Perché la Parola è Cristo.

Se la Parola entra nel cuore, come il seme nel terreno che l’accoglie, allora è essa stessa a prendere l’iniziativa, a convertire lo sguardo, a trasformare la vita. Sino a farci dire con Paolo: «non sono più io che vivo, è Cristo che vive in me».

Senza questa radicale e continua conversione, restiamo noi a dettare il programma di marcia alla Parola, e non la Parola a noi.

E ciò vale per il singolo, per ciascuno di noi, ma vale al tempo stesso per la comunità dei credenti.

Si ha, spesso, l’impressione che non vi sia più il popolo di Dio che cammina – quello di cui parla la Scrittura: da Abramo a Mosè ai profeti a Gesù con gli apostoli alle prime comunità, quel popolo di Dio di cui è tornato a parlare il Vaticano II.

Non il popolo cristiano, la cristianità, per intenderci, fatta di costumi e di cultura, di relazioni sociali e di comune sentire, cose tutte lodevoli e che han fatto la nostra storia; ma quel popolo, in senso biblico, appunto, che nasce oggi dall’ascolto della Parola, che è convocato dalla Parola, che è guidato dalla Parola, la Parola che si fa nutrimento come Pane di vita.

Un popolo disperso sì, in mezzo agli altri popoli, come sale e lievito, ma che è riunito in assemblea dalla Parola e dalla Parola sempre di nuovo inviato in mezzo ai fratelli e alle sorelle sui sentieri della storia.

Il cristianesimo non è un insieme di valori, pur decisivi e indispensabili, e non è neppure un affare in fin dei conti privato. Il cristianesimo è, prima di tutto ed essenzialmente, Chiesa: perché è, prima di tutto ed essenzialmente, Cristo.

Reimparare ad essere Chiesa

Occorre, re-imparare dunque, dalla Parola che è Cristo, a essere Chiesa. Bonhoeffer parlava della necessità di “rifusione della forma della Chiesa”. E il Concilio Vaticano II ha fatto la sua parte per la Chiesa cattolica.

Ma c’è l’esigenza di andare più a fondo. Si tratta, innanzi tutto, di un fatto, o meglio di un evento spirituale: di un’azione cioè, dello Spirito santo. È lui il protagonista: non i nostri progetti.

L’essere cristiani oggi oscilla tra due estremi: l’individualismo della fede senza reale esperienza ecclesiale da una parte; e l’ecclesiocentrismo soddisfatto o reattivo dall’altra.

La Chiesa di Cristo è altra cosa. Essa ha da ricevere la sua forma dalla Parola e dal soffio dello Spirito.

Il Vaticano II ha detto, e giustamente, che la Chiesa dev’essere comunione. E ciò è sacrosanto. Ma la parola “comunione” s’è ormai logorata, senza aver prodotto un granché di effetto. Perché non si può parlare impunemente di comunione senza convertire lo sguardo e l’azione. Senza sperimentare, sulla propria pelle, la gioia e la croce che significa esser membra di Cristo e perciò membra gli uni degli altri.

Ciò che Agostino scrive ai fratelli laici del monastero da lui istituito a Ippona: «il motivo primo che vi ha riuniti insieme è che viviate unanimi nella casa e che tra voi vi siano un cuore e un’anima solo protesi verso Dio», ciò vale oggi, in una forma inedita, per l’intero popolo di Dio. Altrimenti non so proprio che cosa significhi comunione!

Idealismo, utopia? Sì, senz’altro, se non ci si apre alla Parola di Dio e al soffio dello Spirito, lasciando che siano essi, la Parola e lo Spirito, a giudicare e cambiare i nostri schemi di comprensione e i nostri atteggiamenti.

Scrive, con l’incisivo linguaggio che gli è proprio, Paolo VI nell’Evangelii nuntiandi: la forza del Vangelo «raggiunge e quasi sconvolge i criteri di giudizio, i valori determinanti, i punti d’interesse, le linee di pensiero, le fonti ispiratrici e i modelli di vita dell’umanità» (n. 19).

Ovviamente, una tale “rifusione” dello spirito e dello stile della vita ecclesiale deve avere anche dei riscontri, e importanti, a livello istituzionale e organizzativo: la Chiesa di Cristo è indissolubilmente anima e corpo, dice il Vaticano II, ma sarebbe una “falsa riforma” – secondo Congar – quella che non muovesse dal cuore e non seguisse le vie tracciate dal soffio dello Spirito.

A partire da qui ha poi da esser riplasmato anche il volto visibile della Chiesa.

Non bastano, lasciano anzi il tempo che trovano, quando non disilludono, i maquillages di facciata. Occorre entrare nel merito delle questioni e correre il rischio di nuove scelte.

L’ecumenismo

E qui balza in primo piano, strettamente connessa alla questione ecclesiologica, la questione ecumenica.

Com’è possibile annunciare con credibilità Gesù Cristo, se la Chiesa una è frazionata visibilmente in molte Chiese, su non pochi e non piccoli temi tra loro dissonanti?

L’interrogativo non è di superficie. Diventa sempre più scandaloso e, dunque, urgente.

L’amico teologo benedettino Ghislain Lafont, che ha scritto un coraggioso libro intitolato Immaginare la Chiesa cattolica, mi ha inviato il testo di una conversazione tenuta dall’ormai anziano metropolita Antonio Bloom, vescovo della diocesi del Patriarcato di Mosca in Gran Bretagna dal 1959, in cui tra l’altro dice: «Per ciò che riguarda la vita ecclesiale, la fede deve restare integra, ma soprattutto non dobbiamo aver paura di pensare e di esprimerci liberamente. Le persone sono diverse, i tempi sono cambiati, si pensa in un’altra maniera. E io ho la convinzione che ci si debba ancorare a Dio non avendo paura di sentirsi liberi, e quindi di pensare liberamente. Dio non ha bisogno di sudditi. Prima o dopo bisognerà cambiare. Non stiamo forse mancando l’occasione e la possibilità che ci vengono offerte di essere Chiesa, e non un’organizzazione ecclesiastica?».

Tutte le Chiese si trovano di fronte allo stesso bivio. Ne va dall’annuncio di Cristo al mondo di oggi.

Il pericolo non è tanto quello di perdere il treno della storia, quanto di non saper accogliere dal Dio che cammina nella nostra storia “l’occasione e la possibilità” offerte alla Chiesa di essere casa, e non semplice “organizzazione ecclesiastica”, comunità più che istituzione, servizio e mai potere, profezia non compromesso.

Ecco un testo, quasi un’invocazione, del metropolita Ignatios di Latakia al Consiglio Ecumenico delle Chiese:

«Senza lo Spirito Santo
Dio è lontano,
il Cristo resta nel passato,
il Vangelo è lettera morta,
la Chiesa una semplice organizzazione,
l’autorità una dominazione,
la missione una propaganda,
il culto un’evocazione
e l’agire cristiano una morale da schiavi.
Ma nello Spirito Santo:
il cosmo si solleva
e geme nelle doglie del Regno,
il Cristo risuscitato è presente,
il Vangelo è potenza di vita,
la Chiesa significa comunione trinitaria,
l’autorità è servizio liberatore,
la missione è Pentecoste,
la liturgia è memoriale e anticipazione,
l’agire umano è deificato».

Siamo tutti invitati, come Chiese cristiane, a diventare sempre più Chiesa, riconoscendoci in ciò che è indiscutibilmente suo, di Cristo, e mettendoci tutti in ascolto del desiderio di verità e di giustizia che interpella e scruta le coscienze del nostro tempo.

Non solo le altre Chiese, ma ovviamente anche la Chiesa cattolica, è chiamata a scoprire in modo nuovo, dalla Parola e dal soffio dello Spirito, cosa significhi esser oggi Chiesa di Cristo.

Il fatto è che non si può annunciare senza testimoniare, cioè senza martirio. Perché se il Cristo ha detto di sé d’essere la verità (cf Gv 14,6), l’ha mostrato quando s’è dato, sino in fondo, sino all’abisso dell’abbandono, sul legno della croce.

Per questo la verità di Cristo ci tocca e ci avvince, perché Cristo si dà, si svuota per noi, è Dio che esce da sé e ci raggiunge, ovunque siamo: di più non potrebbe.

La fede, perciò, e la testimonianza di una tale verità, non si danno se non in altrettanta consegna e in altrettanto martirio. «Amare la verità – scriveva Simone Weil – significa sopportare il vuoto; e quindi accettare la morte. La verità sta dalla parte della morte».

Necessità di una conversione

Dopo esserci soffermati su ciò che implica per i discepoli di Cristo e per la Chiesa l’annuncio del Vangelo, è tempo di volgere lo sguardo, più direttamente, al tempo presente.

Che cosa significa, riprendendo le parole di Mario Luzi dopo la tragedia dell’11 settembre, ch’è venuto ormai il tempo in cui ci è chiesto di «esser altri da come sinora siamo stati»?

La città planetaria che va profilandosi è una città che cresce e si configura secondo ritmi e vettori che spesso sembrano avere una forza propulsiva immanente e inarrestabile, e come tale indipendente quasi dalla libertà.

Pur tuttavia, e necessariamente, cresce la consapevole esigenza che dire vitale è dir poco, di governare e indirizzare tali dinamiche: perché la città resti, anzi spesso diventi spazio umano per tutti gli uomini e le donne che l’abitano.

Tre grandi sfide

Su questo sfondo, le sfide che stanno dinnanzi sono, mi pare, soprattutto tre:

– quella del senso dell’essere persona, nel momento in cui il confine e la relazione tra natura, tecnica e morale – essere, poter essere e dover essere – come mostra l’inquietante saggio di Umberto Galimberti, Psiche e Techne, son diventati problematici al limite della rottura, e interpellano decisivamente la responsabilità personale e collettiva;

– quella della comprensione e della gestione del pluralismo e delle differenze che esso comporta a tutti i livelli: di pensiero, di opzione morale, di cultura, di adesione religiosa, di filosofia dello sviluppo umano e sociale;

– quella della globalizzazione, o, come s’è cominciato a dire, della glocalizzazione, intendendo senza dubbio questo termine in un significato più largo e profondo di quello semplicemente economico: come l’entrata inarrestabile della storia in una nuova epoca, quella della mondializzazione policentrica del destino dell’umanità.

Per usare tre parole-sintesi: la sfida del senso, la sfida dell’altro, la sfida dell’uno – l’uno non, beninteso, come uniformizzazione verso il basso, ma come sinfonia dei diversi che cresce verso l’alto.

Che cosa significano tali sfide per i discepoli di Gesù Cristo? In altri termini, quale ispirazione può e deve venire dalla Parola di Cristo e dal soffio dello Spirito, perché i cristiani sappiano inserirsi costruttivamente, in concerto e positiva dialettica con le altre spinte ideali, nel processo del dar forma alla città planetaria del XXI secolo?

Mi limito a mettere l’accento su una dinamica che mi pare centrale e che, opportunamente declinata, è urgente introdurre ed evolvere entro ciascuno dei tre scenari richiamati: la dinamica del riconoscimento.

Nel cristianesimo la persona umana è chiamata, per grazia, a riconoscere Dio come orizzonte della sua libertà e della sua verità, a partire dal riconoscimento che Dio, facendosi carne nel suo Figlio, definitivamente compie della dignità e del destino dell: di ogni uomo, di tutto l’uomo, di tutti gli uomini.

Da qui la vocazione del cristianesimo al riconoscimento dell’altro, chiunque egli sia. Non dico che, storicamente, l’abbia sempre fatto, tutt’altro. Senza dubbio ha esercitato il riconoscimento dell’altro (il prossimo, il povero) a livello personale; non altrettanto ha fatto in riferimento al diverso da sé culturalmente e religiosamente inteso. Ma nelle sue viscere porta questa vocazione, che diventa oggi ineludibile.

La Chiesa si fa dialogo

«V’è un atteggiamento che la Chiesa cattolica deve assumere in quest’ora della storia del mondo…la Chiesa deve venire a dialogo col mondo in cui si trova a vivere. La Chiesa si fa parola; la Chiesa si fa messaggio; la Chiesa si fa colloquio».

Così Paolo VI, interpretando i segni dei tempi, nella sua prima enciclica, l’Ecclesiam suam, promulgata nel ’64, al cuore della celebrazione del Vaticano II: un testo vibrante di carismatica profezia, un ponte ideale tra la spinta che indusse Giovanni XXIII a indire il Concilio, e quella che ha spinto Giovanni Paolo II a realizzare quell’icona fatti” del Concilio ch’è diventata la Giornata di preghiera per la pace ad Assisi, nel 1986 e nel gennaio dell’anno scorso.

Gli ormai quasi quarant’anni che da allora son trascorsi, con la lezione degli eventi non piccoli che sono sopravvenuti, non ha fatto che sottolineare l’urgenza e il fascino, ma anche la responsabilità e l’arduità del compito così tracciato. In verità, poche parole hanno rischiato, in questi decenni, il fraintendimento come quella di “dialogo”. Dando luogo su sponde opposte, ma in fin dei conti per insufficienza o superficialità di rigore teologico e di discernimento schietto di «ciò che lo Spirito dice alla Chiesa» (cf Ap 2, 7), ora a enfasi ingenue ora a preconcette chiusure.

La prospettiva dialogica non può più essere intesa come un che di accessorio e dunque alla fin fine d’opzionale rispetto alla missione della Chiesa. Detto in altri termini: il dialogo non è qualcosa che dall’esterno vada tatticamente impiantato entro l’orizzonte dell’identità e della missione della Chiesa.

È la forma stessa della rivelazione di Dio in Cristo, e della fede che l’accoglie, che per sé comporta l’inscindibile nesso tra verità e libertà e, di conseguenza, tra annuncio e dialogo.

Così la Dei Verbum: «Con la rivelazione, Dio invisibile, nella sovrabbondanza del suo amore, rivolge la sua parola agli uomini come ad amici e con essi conversa per invitarli ed accoglierli nella comunione con Sé» (n. 2).

Di qui la dottrina sulla libertà religiosa insegnata nella Dignitatis humanae, testo basilare del Concilio. Il dialogo non è né compromesso né buonismo: è fedeltà alla rivelazione della verità di Gesù Cristo nel suo darsi alla libertà.

Ma si può andare ancora più a fondo. Il dialogo, in effetti, risulta esigito non solo dal riconoscimento della libertà dell’interlocutore, espressione essenziale della sua umana dignità, ma anche dal riconoscimento dell’azione universale dello Spirito di Cristo ovunque lo spirito umano è aperto alla verità e al bene (cf LG 16; GS 22) e, in particolare, là dov’è viva e operante, in virtù dello stesso Spirito, un’autentica esperienza e tradizione religiosa. In riferimento al dialogo con le religioni, Giovanni Paolo II ha potuto affermare: «non raramente lo Spirito di Dio, che “soffia dove vuole”, suscita nell’esperienza umana universale, nonostante le sue molteplici contraddizioni, segni della sua presenza, che aiutano gli stessi discepoli di Cristo a comprendere più profondamente il messaggio di cui sono portatori». E pertanto «pur attuando un operoso e vigile discernimento, per cogliere i “veri segni della presenza o del disegno di Dio”, la Chiesa riconosce che non solo ha dato, ma anche “ricevuto dalla storia e dallo sviluppo del genere umano”».

«L’evento di Assisi – sono ancora parole del Papa – non poteva rimanere isolato. Aveva una forza spirituale dirompente: era come una sorgente». Per questo s’è cominciato a parlare di “spirito di Assisi”, locuzione che non pare fuori luogo leggere con la “S”  al maiuscolo: lo Spirito che, attualizzando la Pentecoste del Concilio, ha parlato anche ad Assisi.

L’11 settembre, il dramma in corso nella terra di Palestina e in Iraq e tante altre tragedie, gridate o sorde, sono una piaga conficcata nel nostro cuore. E ci spingono a un’esigente e improcrastinabile esercizio di conversione per essere all’altezza della sfida odierna.

Nella consapevolezza che se la via del dialogo sgorga dal mistero di Cristo e ha da innervare la missione della Chiesa, se evangelicamente è “via che conduce alla vita”: allora tale via non può essere né larga né spaziosa, ma stretta e angusta come quella tracciata da Cristo (cf Mt 7, 13-14).

La via del dialogo è quella del Figlio di Dio che «non considerò un tesoro geloso la sua eguaglianza con Dio, ma spogliò se stesso assumendo la condizione di servo…» (Fil 2, 7).

È la via che l’apostolo delle genti imparò direttamente e impavidamente dal Crocifisso, potenza e sapienza di Dio (cf. 1Cor 1, 24), dopo che, Risorto, l’aveva a sé conquistato: «Mi son fatto giudeo con i giudei… con coloro che sono sotto la legge son diventato come uno che è sotto la legge… con coloro che non hanno legge son diventato come uno che è senza legge… mi son fatto tutto a tutti, per salvare ad ogni costo qualcuno. Tutto io faccio per il Vangelo, per diventarne partecipe con loro» (1Cor 9, 22).

Ci troviamo in un tornante storico di portata epocale che si riflette nell’esigenza di rinnovare il linguaggio ecclesiale e teologico per esprimere il nostro rapporto con Dio, tra noi, col mondo.

Da duemila anni il cristianesimo è vissuto, a livello culturale, della sua origine nel bacino del Mediterraneo; e le categorie fondamentali attraverso le quali s’è espresso sono state quelle del pensiero greco. Lungo un così grande processo ha conosciuto altre culture: dei celti, dei germani, degli slavi...

Oggi, l’occidentalizzazione del cristianesimo segue la sorte dell’eurocentrismo che, lo sappiamo, rappresenta un’epoca storica ormai alle spalle. Ci avviamo – anzi, siamo già entrati – in un’epoca planetaria. Per il cristianesimo ciò vuol dire incontrarsi, per la prima volta a fondo, con culture e tradizioni religiose e di pensiero molto antiche, e diverse da quelle con cui ha dovuto fare i conti in duemila anni della sua storia. Mi riferisco, ovviamente, alle grandi religioni e alle grandi culture dell’Estremo Oriente. Lo dicevano già H. De Lubac e R. Guardini: il Cristo ha avuto come precursori non solo Giovanni il Battista e Socrate, ma anche il Buddha.

Ora, mentre il pensiero greco s’è concentrato sulla realtà dell’essere, come perno della comprensione e della costruzione della realtà, in Oriente l’accento è posto sul non-essere, l’abisso cioè di un nulla fecondo che circonda la realtà e le dà senso, e può esser chiamato in molti modi: dal sunyata dinamico della tradizione buddhista, al nirvana, al vuoto, e via così. Ma questo, in sé, non è un problema insormontabile: al contrario, qui ci sono categorie di pensiero che, se ben comprese, offrono nuove possibilità d’espressione alla fede cristiana. B. Welte, guardando con coraggio profetico all’esito e al travaglio del nichilismo, parlava di «Luce del Nulla».

Non sarà tutto facile, è chiaro, ma non è stato facile neppure l’incontro con il pensiero greco. Non si tratta di mettere completamente da parte i frutti e i risultati della millenaria inculturazione occidentale; basterà avere il coraggio di valorizzare le prospettive emergenti da quest’incontro con l’Oriente, interpretando le esigenze più profonde anche dell’Occidente. Vi è chi – con l’audacia profetica necessaria, quando si spalanca un nuovo orizzonte – afferma risolutamente la novità: mentre questi primi duemila anni di storia del cristianesimo rappresentano, dal punto di vista culturale, l’incontro tra l’Evangelo e il logos greco, stiamo ora per voltare pagina e vedremo forse l’incontro con il grande simbolo del nulla, così come ce lo presenta l’Oriente.

Pietro Rossano, a lungo segretario del Pontificio Consiglio per il Dialogo tra le Religioni, e poi rettore dell’Università del Laterano, ci diceva che tutte le ricchezze presenti e nascoste nella rivelazione cristiana non potranno essere espresse e conosciute compiutamente fino a quando non si utilizzeranno le ispirazioni, i linguaggi, le esperienze di tutte le culture e le religioni.

Quando si entra, per amore di Cristo, in dialogo autentico col fratello capita come quando si entra, da Lui convocati, in dialogo con Dio: lo Spirito ci strappa a noi stessi e ci conduce, crocifissi la mente e il cuore, nella terra inesplorata e santa della comunione, dono di grazia che viene dal Padre. Questo è il cammino che ci attende come Chiesa.

Incarnare il Vangelo
nella cultura e nel sociale

La sfida a diventare altri, la sfida a pensare insieme il futuro dell’essere umano e del pianeta, interpella dunque la fede cristiana anche dal punto di vista culturale e sociale.

Lo sappiamo, ce l’ha detto il Vaticano II e l’ha ribadito più volte Giovanni Paolo II, la dottrina sociale è parte integrante dell’annuncio di Gesù Cristo.

Ed è ovvio: perché dice l’incarnazione del Vangelo nella vita concreta del mondo. Altrimenti l’annuncio di Cristo sarebbe angelismo o fuga mundi. No: Cristo è redentore dell’uomo e della relazione tra gli uomini.

Ma qui bisogna riconoscere un grave ritardo, per non dire un’impasse. La dottrina sociale della Chiesa rischia di restare negli scaffali delle biblioteche: se le esperienze di frontiera generate dall’humus cristiano, se le fucine di un nuovo pensiero – che pure ci sono – non diventano fermento nella pasta.

Sono convinto che il cristianesimo, anche se in una posizione di minoranza che pure resta significativa, abbia oggi da giocare un ruolo decisivo nella prospettiva di una risemantizzazione del sociale, a livello locale e a livello universale. E ciò per una ragione che, da un lato, è intrinseca all’evento cristiano stesso, mentre, dall’altro, tocca la complessa identità storica della cultura occidentale.

Nell’evento cristiano, la grammatica della relazione, per la prima volta e in modo radicale nella storia umana, diventa essenziale nello sperimentare sia l’essere di Dio sia la vocazione umana.

Dio stesso – scrive Agostino nel suo De Trinitate – è relazione: perché è Padre, è Figlio (nomi che dicono relazione), ed è, con ciò, relazione tra i due, Dono reciproco, Amore, Spirito.

La piaga interiore del Crocifisso, l’abbandono del Padre, è la rivelazione dell’abisso e della ri-creazione della relazione con Dio e con i fratelli.

Sorprendenti conseguenze

Semplificando, mi pare si possa sostenere che l’Occidente, a livello culturale e con inevitabili ricadute sociali e politiche, ha sviscerato solo la prima polarità di quest’eredità: quella della dignità dell’individuo. Ora è venuto il momento di sviscerare anche la seconda: quella, appunto, della relazione in cui la persona si ha nel rapporto con l’altro. Si tratta di compiere, e salvare, la svolta moderna verso il soggetto aprendola nella direzione dell’incontro e della comunione.

Non è un’operazione semplice: tutt’altro. Perché investe la verità e il destino stesso dell’essere umano. Esige indirizzo, educazione, strumenti adeguati. Ed è per questo motivo che il cristianesimo ha da giocare una carta decisiva per il futuro dell’Occidente e per l’incontro con le altre culture. Perché non è semplicemente memoria d’un fatto passato o proposizione di un’idea ispiratrice: è evento di relazione sempre nuova di Dio con l’uomo, e tra gli uomini, in Cristo: vale a dire presenza viva e plasmatrice, riserva di energie e di intuizioni capaci di animare e costruire il sociale.

Detto in termini “laici”, quelli usati nel motto della rivoluzione francese – libertà, eguaglianza e fraternità – occorre oggi riscoprire, insieme all’ideale della libertà e dell’eguaglianza – la valenza politica della fraternità. I tre principi del progetto politico della modernità stanno o cadono insieme: solo chi si sa fratello può riconoscere piena libertà – nella comune dignità – e uguaglianza – nella solidale giustizia – al fratello.

È qui che si gioca l’identità e la missione della comunità dei credenti. Essa è chiamata a proporsi laicamente e in modo pluralistico come soggetto credibile e aperto (non esclusivo né escludente) di questa ispirazione.

Ciò può avvenire, mi sembra, soprattutto in due direzioni.

– La prima è quella di portare il proprio specifico contributo alla definizione di una “razionalità pubblica” animata dalla fraternità, che non abbia solo l’obiettivo di garantire giustizia e libertà, ma anche le condizioni di rispetto e di promozione del senso, dell’altro, dell’uno.

– La seconda è quella di tener desto e incrementare nella società civile, la comunicazione e il dialogo tra le differenti visioni del mondo o “concezioni comprensive”, religiose o laiche che siano. È a questo livello che si riconosce spazio alle questioni ultime circa il senso dell’esistenza, della storia, del bene e del male, e alle ispirazioni che le possono illuminare. Non nei termini di una semplice tolleranza o di un pluralismo tendenzialmente relativistico: ma di una reciproca apertura alla sollecitazione plurale e insieme convergente della verità e del bene comune.

Occorre ripensare il significato, le dinamiche, i limiti della regolamentazione democratica della società di fronte alle questioni della vita, la sua genesi e qualità, la salute e la malattia, la famiglia, il lavoro, la morte; e di fronte alle nuove frontiere della biotecnologia e dell’informatica.

Unità come mutuo arricchimento

C’è un’affermazione dell’apostolo Paolo che mi riempie di sempre nuovo stupore. Perché esprime con incisiva pregnanza la realtà storica che sgorga dall’annuncio di Cristo e che, alla luce di quanto detto, vale proprio, fermento di luce e di pace, per il tempo presente: «Tutti voi siete figli di Dio per la fede in Cristo Gesù, poiché quanti siete stati battezzati in Cristo, vi siete rivestiti di Cristo. Non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù» (Gal 3, 26-28).

Cristo vivente in mezzo a noi, nella storia di oggi, principio di unità che fa eguaglianza e non cancella le differenze positive (l’essere di una cultura o di un’altra, l’essere uomo o donna) ma, ponendole in relazione sulla base della filiazione donata e dunque della fraternità vissuta, le rende ciò che sono: fonte di reciproco arricchimento.

In una Chiesa, ad esempio, che rischia di presentare ancora un volto che accentua la sua identità gerarchica, clericale e maschile, è essenziale che la dimensione profetica, laicale e femminile trovino spazio, visibilità, forma. Anche qui ci troviamo sulla soglia: quella della reciprocità. Che cosa hanno da essere la comunione, il riconoscimento, il dialogo, la fantasia della carità una volta attraversata la soglia?

Possiamo intuirlo pensando a cosa può significare il primato dell’essere sul fare, dell’affidamento al disegno divino sul progetto umano, della vita sull’idea, del servizio sulle tante forme palesi o occulte di potere, della Parola di Dio e della contemplazione sull’azione che solo da esse può  promanare, della misericordia sul giudizio, dell’attesa paziente sulla fretta dell’imposizione, dello sguardo universale sulla cura asfittica del particolare, dell’amore reciproco come premessa di ogni altra premessa per vivere, pensare e agire da discepoli di Cristo, su ogni altra cosa.

Non è forse la Chiesa del fiat e del magnificat, dello stabat ai piedi del Crocifisso e del fuoco di Pentecoste quella che il mondo, e noi stessi, attendiamo?

L’essenziale è distogliere lo sguardo da noi stessi, dalle nostre esperienze e dai nostri problemi, così come dai nostri ideali e dalle nostre frustrazioni, per «uscire anche noi dall’accampamento e andare verso di Lui», che «per santificare il popolo con il proprio sangue, patì fuori della porta della città» (cf Eb 13, 12-13).

Come ha scritto il biblista evangelico E. Käseman: «Solo il Crocifisso è risorto, e oggi la signoria del Risorto si spinge sin dove si riconosce e si serve il Crocifisso».

Solo se attraversiamo, come Chiesa e come singoli, la porta della città in cui abitiamo comodi e protetti, ma anche un po’ scoraggiati e disillusi, potremo sperimentare la speranza, e scoprire con stupore la realtà già viva della promessa:

«Ecco, faccio una cosa nuova:
proprio ora germoglia,
non ve ne accorgete?
Aprirò nel deserto una strada,
immetterò fiumi nella steppa. (…)
Il popolo che Io stesso ho plasmato per me
celebrerà le mie lodi»
(Is 43, 19.21).

Uno dei più grande teologi ortodossi della nostra epoca, S. Bulgakov, quasi un secolo fa scriveva: non sarà che il tempo presente piagato di problemi e trasudante dubbi, nasconda una possibilità di fede rinnovata? Non sarà che ad esso sia dovuto un compito particolare? Non sarà che tutto ciò «non è che un’ombra gettata da Colui che viene?».

Piero Coda