Il volto dell’abbandonato nel mondo sacerdotale

 

Promossa dai  sacerdoti e religiosi aderenti al Movimento dei focolari, il 30 aprile 1982 si svolse in Vaticano, nell’Aula Paolo VI, la Giornata «Il sacerdote oggi. Il religioso oggi», che radunò 7000 sacerdoti, diaconi e seminaristi provenienti dai cinque continenti. Durante la mattinata, d. Silvano Cola propose questo sguardo molto realistico e contemporaneamente pieno di speranza sulla situazione del sacerdote nel nostro tempo. (da gen’s 6/1982, p. 3).

Non voglio essere umanamente ottimista, ma divinamente ottimista sì, di quell’ottimismo che viene dalla speranza teologale che è certezza. È per questo ottimismo che posso dire a voi e a me stesso che siamo fortunati di vivere in questo tempo in cui sembrano crollare tutti i valori, soprattutto quelli religiosi, tanto nel popolo cristiano quanto, quasi di contraccolpo, in noi sacerdoti e religiosi. Ci viene forse da sognare con nostalgia l’epoca eroica dei martiri quando, se non altro per il sangue versato, il cristianesimo germogliava e si dif-fondeva; guardiamo forse con nostalgia al tempo degli eremiti e dei cenobiti, al tempo in cui al posto del martirio di sangue iniziava quel martirio lungo e paziente di costruzione dell’uomo interiore attraverso la pratica delle virtù e l’esercizio sociale della carità; siamo forse un po’ nostalgici anche del Medioevo cristiano, quando l’unico linguaggio del popolo e dei governanti era il linguaggio teologico della Chiesa o il linguaggio esperienziale dei grandi mistici; e chissà, forse sentiamo nostalgia anche del periodo dell’Umanesimo e del Rinascimento, quando la Chiesa poteva ancora influire con successo sul fatto pedagogico di umanizzare l’uomo, un movimento più laico che religioso in verità, ma che tuttavia aveva ancora come punto d’arrivo non l’humanitas ma la divinitas dell’uomo.

Poi c’è stata la Riforma, e poi la Controriforma, e invece di guardare all’uomo e al mondo ci siamo spaccati tra noi, tra cristiani, mentre il mondo scivolava verso una pretesa autonomia della ragione dalla fede, e con l’illuminismo e col soggettivismo e col liberalesimo e col marxismo e col freudismo si è allontanato sempre più dalle radici religiose, creando in tal modo due mondi non più comunicanti: quello cosiddetto laico e quello ecclesiale, l’uno fondato sulla ragione – si dice – e l’altro sulla fede; e quando ai nostri tempi lo Stato laico ha cominciato a sostituirsi in qualche modo alla Chiesa anche nelle opere dell’assistenza caritativa, abbiamo avuto l’impressione di una perdita totale del nostro ruolo di sacerdoti, non più mediatori perché sembra che non ci sia più niente da mediare, tanto che persino tra cristiani si arriva a pensare che Dio è morto. E ci siamo trovati spiazzati, quasi stranieri in questa città terrena, e abbiamo cominciato a sentire una crisi di identità personale e forse, quel ch’è peggio, a mettere in dubbio l’identità e il ruolo stesso della Chiesa nella storia contemporanea. Per quanto ancora attaccati coi denti alle verità della fede infusaci nel battesimo, e per quanto ancora le predichiamo, il nostro è piuttosto uno sforzo di credere alla fede che non fede nella potenza di Dio che è Gesù Cristo e il suo Vangelo.

So cosa succede alla maggior parte di noi: esteriormente ci presentiamo con delle certezze, ma interiormente siamo stati o siamo titubanti, forse angosciati, perché il razionalismo s’è infiltrato in noi; s’è infiltrato il sociologismo, lo psicologismo e fors’anche il naturalismo. Non sappiamo più per quale motivo siamo celibi, o dubitiamo sull’utilità storica del nostro celibato. Sappiamo che da Gesù fino all’ultimo Concilio si è sempre parlato di essere, tra sacerdoti, un solo corpo e un’anima sola col vescovo e tra noi, eppure molti di noi stanno morendo di solitudine e sperimentano il dramma della incomunicabilità col proprio pastore e con i propri confratelli a livello di anima, di pensiero, di collaborazione, e di economia. Abbiamo puntato tutto sulla liturgia e magari sull’unità manifestata dalle concelebrazioni, ma quella presenza di Gesù nelle celebrazioni liturgiche, quella presenza reale di Gesù eucaristico che dovrebbe essere causa ed effetto insieme dell’unità della Chiesa non viene poi tradotta nella nostra vita concreta. Quell’«àgite quod tractatis», che ci viene detto all’ordinazione, rischia di farci menzogneri, perché nella liturgia significhiamo un’unità ontologica che poi sconfessiamo nei rapporti interpersonali. E così il senso della vocazione ci viene meno, e forse anche il senso della vita, e poiché in Dio crediamo, nella nostra solitudine ci troviamo a gridare: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?».

Ebbene, non posso non ricordare che questo grido l’ho capito non come citazione d’un salmo, ma come “senso fondamentale della vita” proprio nel Movimento dei focolari, quando – mi riferisco agli anni ’50 – ancora il parlare di Gesù abbandonato era considerato da molti quasi una dottrina nuova, sconosciuta alla Chiesa, prima ancora che si manifestasse tutta una fioritura teologica sul mistero dell’abbandono di Gesù sulla croce. L’ho capito come “senso fondamentale della vita” perché Gesù proprio in quel momento ci ha svelato completamente la verità del suo rapporto col Padre e pertanto la legge stessa della vita e della socialità, quella legge che impone di «dare la vita» per essere. E ho intuito, più che capito, quella straordinaria meditazione di Chiara Lubich che dice: «Ho un solo sposo sulla terra, Gesù Crocifisso e abbandonato. Non ho altro Dio fuori di lui. In lui è tutto il Paradiso con la Trinità e tutta la terra con l’umanità. Perciò il Suo è mio e null’altro. E Suo è il dolore universale, e quindi mio... Ciò che mi fa male è mio. Mio il dolore che mi sfiora nel presente. Mio il dolore delle anime accanto...».

Ho capito in verità cos’è il sacerdozio, perché è proprio con l’abbandono e la morte in croce che Gesù ha generato la Chiesa assumendo in sé il peccato e il dolore universale. E mi sono detto: mia è dunque la lacerazione tra le Chiese cristiane, mio il disorientamento dottrinale, mia l’incomunicabilità tra prete e vescovo, tra prete e prete, tra prete e laico, mia l’incomprensione del celibato, mia la tentazione razionalista, mia la menzogna esistenziale tra il predicato e il vissuto, mia la solitudine dei preti... Ma tutto questo dolore è Gesù, è il suo dolore, è proprio quel dolore sacerdotale che se accettato e amato genera la Chiesa! Ed è solo per questo che dobbiamo essere divinamente ottimisti, perché se l’«Abbandonato» lo riviviamo in noi, se al silenzio del Padre che ci fa sentire irrealizzati e informi, rispondiamo credendo nell’Amore del Padre, anche noi, in Gesù, partecipiamo alla generazione della nuova creazione.

Ma bisogna essere come Lui che, pur essendo Dio, s’è messo a lavare i piedi agli Apostoli; che pur parlando con autorità, non ha accettato nessuna forma di potere né sociale né spirituale. Non ha preteso diritti se non quello di mediatore che gli spettava di natura: come figlio obbedire al Padre fino alla morte, morire per gli uomini come loro fratello. Tutto crolla, oggi? No. Se vogliamo, questa è l’alba che annuncia il Risorto.