Flash di vita

Amare tutti,
amare per primo

Da circa due anni mi è stata affidata una parrocchia nuova dove da febbraio a ottobre 2001 non c’era né chiesa né possibilità di celebrare la messa parrocchiale o fare alcun’altra attività pastorale tradizionale.

Avevo solo la possibilità di mettere in atto l’anima di ogni apostolato, cioè l’arte di amare, essenza del Vangelo.

Allora ho preparato il testo di una lettera per presentarmi alle famiglie e in quattro mesi ne ho visitato circa 550, una per una e con molta calma. Finora nessun prete era venuto a contatto diretto con esse.

Con mia sorpresa sono stato accolto molto bene: tanti si sono aperti facendomi partecipe delle loro gioie e, soprattutto, dei loro dolori fino a punte di estrema confidenza su tossicodipendenza, separazioni, divorzi, convivenze, aborti…

Uno spaccato di umanità che in 30 anni di sacerdozio non avevo mai conosciuto direttamente ma solo per sentito dire o per averlo letto sui libri.

Ho vissuto quattro mesi di ascolto a diretto contatto con la gente, senza mai poter celebrare per loro una messa, un battesimo, un matrimonio, un funerale, una confessione. Ho solo annunziato il Vangelo, vivendolo io per primo, facendomi carico delle sofferenze delle persone che Dio mi faceva incontrare, senza mai giudicarle.

Nel frattempo si portava a termine la costruzione della chiesa, la cui inaugurazione, a detta di molti esperti, è stata un’apoteosi e una sorpresa, anche per gli abitanti del quartiere finora ritenuto malfamato nella stima generale anche a livello provinciale: è considerato, infatti, il Bronx della nostra regione. Aver donato loro un luogo per la preghiera ed un sacerdote è stato recepito come un grande atto di fiducia nei loro riguardi. E da parte mia l’aver accettato di essere il “loro” parroco, lasciando un’altra sede dove mi reclamavano fortemente, essere venuto ad abitare in mezzo a loro, averli visitati tutti casa per casa, li aveva sciolti e mi aveva fatto entrare nelle loro simpatie.

Guardavo meravigliato chi – conoscendo solo il passato e non sapendo quanto ora stava accadendo – mi chiedeva in quali tristi situazioni mi fossi mai cacciato. In realtà la chiesa e spesso anche la casa sono aperte a tutti dalle 7 del mattino alle 21 della sera, e finora non c’è mai stato alcun problema.

All’inizio vivevo da solo nella casa canonica, mentre l’attività pastorale pian piano prendeva piede.

Ma a dicembre, per una serie di circostanze, è stato possibile iniziare, col consenso del vescovo, una convivenza con un altro sacerdote, da poco nominato parroco della parrocchia accanto, e con un terzo sacerdote anziano, a riposo, nostro amico da sempre. Riteniamo questa nostra convivenza fraterna un vero dono di Dio per noi e per i parrocchiani.

Quando ho letto il libro I Fioretti di Chiara e dei Focolari, ed. San Paolo, che riporta episodi dal forte sapore evangelico, pensavo che a noi cose simili non sarebbero mai successe, ma ecco la sorpresa. I fedeli per la gioia e la novità di vederci insieme, sereni e uniti, hanno iniziato a farci giungere tanta provvidenza in cibo, doni, offerte per le messe, nelle forme e alle ore più impensate.

Un bambino ci ha portato più volte un quarto di crostata e un po’ di verdura cotta. Spesso all’ora del pranzo, mentre stiamo per mettere la pasta nella pentola che bolle, arriva il primo piatto già pronto, e nelle visite alle famiglie sparse nella campagna riceviamo sempre tanta provvidenza in natura.

A distanza di qualche mese abbiamo fatto una constatazione che ci ha sorpresi: non c’era stato mai un solo giorno senza provvidenza. Oggi siamo al sesto mese e tutto è come all’inizio.

Certo, la nostra casa è diventata un centro di smistamento, perché molte cose ripartono per altre destinazioni, soprattutto per aiutare i bisognosi.

Anche le offerte per il terzo mondo sono sempre abbondanti e si cominciano a fare adozioni a distanza.

Siamo grati all’eterno Padre che ci fa sperimentare in maniera così tangibile l’amore suo concreto, mostrandoci quanto sia vera la preghiera insegnataci da Gesù: «Dacci oggi il nostro pane quotidiano». Ci sentiamo avvolti dal suo amore. Non possiamo e non vogliamo tornare indietro dal «cercate prima di tutto il regno di Dio». E se un giorno il Signore vorrà visitarci con delle prove, anche queste – lo speriamo – per noi saranno sempre una “provvidenza”.

Daniele Rinaldi

«Quegli anni
puoi dimenticarli!»

Da giovane sono andato sempre alla ricerca di qualcosa di spiritualmente profondo. Ho frequentato assiduamente la comunità dei Trappisti alle Tre Fontane a Roma. Unica condizione per essere accolto fra loro era la benedizione del vescovo, che non è mai arrivata.

E oggi gli sono profondamente grato, perché riconosco che la sua decisione è stata dettata dallo Spirito.

Ho cercato anche l’Istituto sacerdotale del Beato Alberione, ma erano poche le occasioni di incontro.

Sentivo un grande bisogno di spiritualità e di comunione, ma gli anni passavano, le cose mi sembravano andassero di male in peggio e la mia vita mi pareva un fallimento.

Un giorno, nel 1967, una suora della parrocchia venne per qualche giorno in vacanza e per l’occasione fece visita a me, parroco. Mi raccontò della Mariapoli. Ascoltai in silenzio, a lungo, come mai avevo fatto prima. Mi aveva incuriosito e subito decisi da vedere di persona. Andai e fu un momento di Dio.

Per la prima volta, in maniera forte e seria, compresi che Dio è Amore, che essere cristiani significa amare. E pian piano il mio atteggiamento cominciò a cambiare, senza sforzi, senza pose, senza scopi particolari, quasi senza avvedermene.

Cambiarono i miei rapporti con i più vicini: con i confratelli nel sacerdozio. Riscoprivo la bellezza e la profondità della preghiera sacerdotale di Gesù, fatta prima di tutto per noi: «Padre, che siano una cosa sola come io e te siamo una cosa sola». Da allora ho cercato di mantenere sempre vivo fra noi un rapporto “trinitario”, sapendo che siamo un dono l’uno per l’altro per poter realizzare concretamente l’unità.

La presenza di Gesù nella fraternità presbiterale è stata la mia guida in questi anni. E sono molto contento di poterne dare testimonianza, perché è un dono che abbiamo ricevuto gratuitamente e gratuitamente dobbiamo partecipare a quanti sono contenti di accoglierlo per camminare insieme.

Uno dei vescovi succedutisi in questi anni, in una recente conversazione con i superiori del seminario, ha detto: «L’unità voluta da Gesù non è funzionale a niente», facendoci notare che non dobbiamo cercarla perché fa bene, per lavorare meglio, per produrre di più anche sul piano pastorale, per poter meglio ordinare il lavoro ecc. “Essere uno” è una grazia che vale per se stessa, l’unità è la realizzazione del sogno di Gesù, perché è la presenza del Signore fra i suoi.

Che poi questa presenza porti i frutti dello Spirito (gioia, pace, armonia, serenità, conversioni) e rinnovi le strutture ecclesiali, è una conseguenza logica e sperimentata.

Dopo l’incontro con la spiritualità dell’unità è cominciato per me un periodo nuovo. Non è che mi sentissi chissà chi, anche perché i fallimenti non mancavano così come non mancano tuttora, ma qualcosa di profondo era penetrato dentro di me. Ho cominciato a capire che anche da me prete l’unica cosa che Dio voleva era: «Questo é il mio comandamento: amatevi come io ho amato voi».

Prima spesso soffrivo e magari reagivo male in chiesa quando contavo quelli che c’erano, per lamentarmi di quelli che non c’erano. Poi cominciai ad amare quelli che c’erano e a considerare quelli che non erano venuti come fratelli da amare ancora di più.

Ricordo la gioia di un uomo che non veniva mai a messa e che vedevo spesso al lavoro nei campi nei giorni festivi lungo la strada che percorrevo per andare a celebrare in una frazione. Cominciai a salutarlo con un cenno della mano o del capo. Fu l’inizio di un rapporto che mi diede la possibilità di assisterlo nel momento più importante della sua vita.

O quando mi vidi morire fra le braccia un uomo che non frequentava la Chiesa, ma mi aveva fatto chiamare in ospedale durante la notte, perché gli fossi vicino. E questo proprio per un rapporto ricucito, frutto di questo nuovo stile di vita.

Un giorno, due anni dopo questo mio cambiamento di rotta, entrando in un bar insieme ad un amico di altre convinzioni, questi mi chiese: «Quanti anni sono che sei in questa parrocchia?». «Dodici», gli risposi. E la signora del bar che ci preparava il caffè intervenne: «Dica due, perché gli altri può dimenticarli!». Eppure anche i precedenti erano stati anni di impegno, di preghiera, di zelo, ma forse con poco amore.

Un signore, ricordando l’intransigenza con la quale l’avevo trattato in occasione del suo matrimonio, non aveva più messo piede in chiesa. Ora in un locale pubblico, quasi piangendo, mi ha ringraziato per il modo nuovo con cui si sentiva da tempo trattato, salutato e rispettato.

E un altro: «Lei sa che io non sono credente, ma mia moglie (divorziata da un precedente matrimonio) si chiede perché non può fare la comunione». È nato un dialogo aperto, nella verità, ma soprattutto nella carità. Da allora, molto spesso accompagna la figlioletta alla messa. «Vengo volentieri – commenta – non solo per accompagnare Silvia, ma perché mi piace sentire quello che dice, suona nuovo rispetto a prima».

Pochi mesi fa ho avuto un incontro importante con un signore un po’ anziano, ma costretto ancora a lavorare. La moglie sudafricana è protestante. Gli ha portato in dote una figlia, ma poi ci sono altri 3-4 figli adottivi e ancora un nipotino da crescere. Sono sorti problemi di droga, furti, prigione. L’aver accolto il nipotino gratuitamente nella scuola materna, averlo aiutato a pagare la bolletta della luce in una circostanza particolare, la mia visita alla sua famiglia, lo hanno toccato e mi dice fra le lacrime: «Se questo è il Vangelo, allora ho capito e sento forte il bisogno di incontrare questo Dio».

Cosa vorrà il Signore da tanti e tanti altri ancora, non lo so e non me lo chiedo: lo sa  Dio. Quello che mi dà pace ed anche gioia nei miei rapporti con i cosiddetti “lontani” – ma poi chi è “lontano”? – è di amarli senza secondi fini.

Con questa luce, anche se spesso non ci sto dentro per la mia mancanza di docilità al Vangelo, posso dire: «Grazie, Signore, di questo bel mondo, dove anch’io posso partecipare all’avventura della tua storia d’amore per noi».

Tarcisio Piccolin