Un problema sempre più grave: chi accoglie i sacerdoti anziani o ammalati?

 

Perle sconosciute

 

 

Non di rado, dopo aver servito la comunità cristiana per tutta la vita, verso la fine della loro esitenza terrena tanti preti diocesani si ritrovano soli e messi da parte. Nei presbitèri a vita comune c’è la possibilità di accogliere quei sacerdoti che, essendo ancora autosufficienti, si sentono utili e nello stesso tempo, senza la responsabilità diretta della pastorale, sono più sereni. Spesso la loro presenza si rivela particolarmente preziosa per la comunità che li accoglie.

Una casa accogliente

Don Giampietro: Quand’eravamo a Folgaria avevamo ospitato per due anni e mezzo don Roberto Bombieri, ottantenne, ammalato di esaurimento da 18 anni. Viveva con i suoi a Rovereto e dopo un periodo di vacanza in canonica mi disse: «Tu mi ami come un papà; potrei stare qui con voi?». E volentieri l’abbiamo accolto.

Non è stato tutto facile, perché un ammalato di questo tipo è imprevedibile, ma abbiamo constatato che da noi aveva trovato l’habitat più confacente al suo stato di salute.

Il vescovo di allora, mons. Sartori, avendo saputo del cambio di residenza, così ci scriveva: «Sono contento che don Roberto abbia trovato posto con voi. Vedo che è la soluzione migliore; sarà il fratello ammalato della vostra famiglia sacerdotale».

Questo ha portato anche una testimonianza forte in parrocchia: ci hanno visti come una famiglia reale, dove si vive nella reciprocità, si accoglie con serenità pure l’ammalato e l’anziano. Abbiamo accompagnato don Roberto fino alla morte, assistendolo allcome si fa con un fratello che si ama.

Poi è arrivato don Lino Giori, operato al cuore e poi di tumore. Stava facendo le chemioterapia e non se la sentiva di abitare da solo. Si è trasferito a Folgaria, aiutando in parrocchia quando la salute lo sorreggeva. Quando il vescovo mi ha chiesto di trasferirmi in Valle di Ledro, don Lino mi ha seguito. Pure lì ha dato una forte testimonianza di come vivere la malattia da cristiano, da figlio di Dio. Per un anno siamo vissuti in tre: don Pio, don Lino ed io, cercando di dare prima di tutto una testimonianza di amore reciproco, proprio quello che Gesù aveva chiesto ai suoi apostoli prima di morire: «Siate uno, come io e il Padre».

Lino faceva la spesa, preparava la cena ed era a servizio delle parrocchie come noi, ma nello stesso tempo, specie nei giorni delle chemioterapie o quando era accasciato dai dolori, sapeva che noi pensavamo al lavoro e alla sua salute. Un giorno gli ho chiesto come faceva a rimanere sempre sereno. Mi ha risposto che aveva dato la sua vita e la sua malattia a Gesù e ora era Lui a pensarci. Così è stato sulla breccia fino al suo ricovero in ospedale, un mese prima della morte. All’infermeria del clero osservavano che non avevano mai visto un sacerdote con tante visite e così ben assistito. Per noi questo era spontaneo, perché sentiamo che siamo chiamati a far famiglia fino alla fine.

Ci ha lasciati serenamente, dandoci appuntamento in Paradiso. Più che una morte è stato un momento di risurrezione con un seguito di serenità, gioia, riconoscenza.

La risposta dei parrocchiani

Iolanda: In parrocchia già conoscevamo don Roberto e i suoi problemi, perché aveva trascorso qualche estate di riposo fra noi. La decisione di don Giampietro e don Alfredo di accoglierlo a vivere definitivamente con loro ha fatto comprendere alla comunità che quell’amore che i sacerdoti predicavano dal pulpito non erano soltanto belle parole, ma Vangelo vivo.

Siamo stati tutti impressionati perché vedevamo che anche i preti erano una famiglia fra loro e accoglievano l’anziano e l’ammalato.

Ma l’amore, si sa, è contagioso, suscita reciprocità. Così alle persone che già davano una mano in canonica se ne sono aggiunte altre. Sentivamo che don Roberto doveva avvertire anche il nostro amore concreto.

Poi è arrivato don Lino che faceva la chemioterapia. I sacerdoti non potevano accompagnarlo tutte le volte all’ospedale e allora c’era sempre un parrocchiano disponibile a portarlo in macchina.

Ci accorgevamo anche quanto era preziosa in parrocchia la presenza del sacerdote anziano: era sempre disponibile per la messa, per un colloquio, per un momento di distensione.

Io facevo parte del coro parrocchiale, ma ho capito che potevo fare di più per amare concretamente e ho dato la mia disponibilità anche per il Consiglio pastorale e appena sono andata in pensione, ho iniziato a fare la catechista. Altre come me si sono rese disponibili grazie alla testimonianza dataci dai nostri parroci.

a cura della redazione