Caratteristiche di una spiritualità di comunione: Gesù in mezzo e l’unità

 

La via della comunione

 

“Gesù in mezzo” e l’unità sono due caratteristiche di una spiritualità di comunione, così come è fiorita 60 anni fa nel Movimento dei focolari ed ora auspicata per il cammino della Chiesa nel nostro tempo da Giovanni Paolo II. Ne parla questa conversazione che è stata proposta ad un gruppo di vescovi coreani nell’ambito di un approfondimento della “Novo millennio ineunte”.

Il «noi» della Chiesa

Vorrei introdurmi nell’argomento con un ricordo personale. Quasi 25 anni fa mi trovavo nella Germania dell’Est con un gruppo di seminaristi che provenivano oltre che dalla Germania orientale, dalla Cecoslovacchia e dalla Polonia. Siccome il regime comunista non permetteva incontri del genere, eravamo riuniti in gran segreto. Era con noi uno dei primi focolarini. Con un paragone, che non ho più dimenticato, ci spiegò che la vita cristiana vissuta in comunione non è come una partita a scacchi, dove ciascuno porta avanti le proprie mosse, ma è piuttosto come una partita di calcio, dove nulla funziona se ciascuno dei giocatori non tiene presente, in ogni momento, l’insieme dei compagni di squadra.

È un’immagine suggestiva, anche se non esaustiva, per la novità che comporta quella spiritualità di comunione che Giovanni
Paolo II invoca per tutta la Chiesa. La vita cristiana non è un’avventura solitaria con Dio. E non consiste neppure nel dedicarci individualmente ai nostri prossimi (questa sarebbe ancora la “partita a scacchi”, dove ognuno, pur amando gli altri, progetta da solo le sue mosse), ma è un intreccio in cui ciascuno si sente unito con tutti gli altri, dove l’elemento-base non è soltanto l’ “io” o il “tu”, ma il “noi” della Chiesa.

Per vivere in pienezza il cristianesimo, bisogna essere infatti in due o più. Scrive San Basilio Magno: «Se tu vivi da solo, a chi puoi lavare i piedi? Di chi puoi prenderti cura? Come fai a metterti all’ultimo posto?»1. E noi potremmo aggiungere: con chi si può avere “Cristo in mezzo” (cf Mt 18, 20) se non si è almeno in due?

Giocare in questo modo “a squadra” – è bene ricordarlo – non è una realtà semplicemente umana che potrebbe anche toglierci lo spazio d’azione o almeno farci sentire condizionati, ma è un’esperienza estremamente ricca e liberante. Perché chi guida questo “gioco” è Cristo col dono del suo Spirito, che solo sa compiere quel miracolo che è il sogno di ogni cuore umano: unirci e distinguerci, così come sono unite e distinte le Tre Divine Persone, e quindi riconciliare alla perfezione l’essere uno e l’essere molti, portare ciascuno alla massima libertà, ma farci vivere allo stesso tempo nella più piena comunione – comunione-nella-libertà e libertà-nella-comunione. È questa l’unità di cui qui parliamo ed è questa la realtà di “Gesù in mezzo”.

Uno sguardo al passato

Addentriamoci ora maggiormente nel nostro tema con uno sguardo alla storia della Chiesa. E guardiamo innanzi tutto a quella esplosione iniziale del cristianesimo, se così si può dire, che è stata la Pentecoste. Come è uscita la giovane Chiesa da questo avvenimento?

Negli Atti degli Apostoli, Luca ci descrive la prima comunità cristiana come moltitudine di persone che erano «un cuor solo e un’anima sola» (4, 32); non un insieme di persone costrette a stare insieme, ma molti che, pur nella loro diversità, avevano un solo sentire: un cuore solo, un’anima sola. Tale era l’effetto della discesa dello Spirito Santo che ha fuso tutti in uno, al di là della differente provenienza geografica e anche del diverso status sociale.

L’apostolo Paolo, nella Lettera ai Galati, gli fa da eco: «Non c’è più giudeo né greco, non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno (eis = una sola persona) in Cristo Gesù» (3, 28). Molte persone – una sola persona: prende il via da quest’intuizione l’immagine paolina della comunità cristiana come “corpo di Cristo” in cui siamo tutti uno, membra di Cristo e membra gli uni degli altri (Rm 12, 5). Segue da ciò l’esortazione: «Se un membro soffre, tutte le membra soffrono insieme; e se un membro è onorato, tutte le membra gioiscono con lui» (1Cor 12, 26). Come a dire: la vita cristiana ci fa “giocare” sempre a squadra. Come cristiani non si può “sentire” senza “con-sentire” con tutte le altre membra del corpo. È questa la ricchezza della vita di comunione. Agostino, che ne aveva fatto profonda esperienza, non esita ad affermare: «La tua anima non è più la tua, ma di tutti i fratelli e anche le loro anime sono tue o, meglio, le loro anime, insieme alla tua, non formano più se non un’anima sola, l’unica anima di Cristo»2.

Giovanni nel suo Vangelo apre un’ulteriore prospettiva, quando riporta la preghiera di Gesù prima di morire: «Come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi una cosa sola» (Gv 17, 21). La Chiesa, secondo il quarto Vangelo, è icona della Trinità, e questo nel duplice senso di immagine e di presenza che ha l’immagine sacra – l’icona – nell’Oriente cristiano: da un lato, essa è chiamata ad essere immagine, riflesso vivo della Unitrinità di Dio. Se si guarda la Chiesa si dovrebbe quindi poter vedere come è Dio. Dall’altro lato, essa è partecipazione e quindi presenza della stessa Unitrinità di Dio. In essa la vita delle tre Divine Persone si estende all’umanità ed alla creazione intera. Chi entra in essa, è coinvolto nella stessa vita trinitaria. Ha qui le sue radici l’ecclesiologia del Concilio Vaticano II che ci presenta la Chiesa, con la nota espressione di Cipriano di Cartagine, come «popolo adunato dall’unità del Padre del Figlio e dello Spirito Santo» (LG 4).

Nell’epoca apostolica era dunque fortissimo il senso dell’essere uno, o – per rimanere nell’immagine usata in apertura – era vivissimo il senso del gioco “a squadra”.

Nei secoli seguenti, le dimensioni fondamentali su cui poggia il cristianesimo sono andate approfondendosi un po’ alla volta. Secondo un saggio e provvidenziale disegno della pedagogia divina, quello che il Signore aveva rivelato in pienezza in Gesù, si è approfondito a tappe successive. Scrive San Gregorio Magno: «Nel terreno del nostro cuore [Dio] ha piantato prima la radice dell’amore verso di Lui e poi si è sviluppato, come chioma l’amore del fratello»3.

«Questa immagine – afferma Fabio Ciardi – rispecchia bene il cammino della spiritualità cristiana». E spiega: «Semplificandone il percorso, potremmo dire che essa nel suo primo millennio ha posto maggiore attenzione alla radice dell’albero: l’unione con Dio. (…) Dopo essersi esercitata per secoli ad amare Dio con tutto il cuore, l’anima e le forze, la spiritualità cristiana [nel secondo millennio] può vivere con una nuova intensità il secondo comandamento: “Ama il prossimo tuo come te stesso”»4.

Una spiritualità di comunione
per l’umantà di oggi

Alle soglie del terzo millennio, in un mondo sempre più globalizzato ed al contempo pieno di tensioni e di contraddizioni, l’impressionante accelerarsi dei cambiamenti sociali e culturali pone nuovissime sfide alla religione cristiana. E viene da chiedersi: c’è una particolare indicazione di Dio per questa nostra epoca?

Interrogandosi sul cammino della Chiesa, Giovanni Paolo II nella Novo millennio ineunte afferma: «Se abbiamo veramente contemplato il volto di Cristo (…), la nostra programmazione pastorale non potrà non ispirarsi al “comandamento nuovo”». E prosegue: «Le parole del Signore a questo proposito sono troppo precise per poterne ridurre la portata. Tante cose, anche nel nuovo secolo, saranno necessarie per il cammino storico della Chiesa; ma se mancherà la carità (agape), tutto sarà inutile» (n. 42).

Se i primi due millenni – semplificando – sono stati caratterizzati dai due grandi comandamenti che erano impliciti già nella tradizione del Primo Testamento – l’amore di Dio e l’amore del prossimo –, il terzo millennio dell’era cristiana sembra chiamarci, dunque, in un modo tutto speciale a realizzare quel comandamento che Gesù ha dato come “suo” e come “nuovo”: «Amatevi l’un l’altro come io vi ho amato» (Gv 13, 34)5.

È questa la via della Chiesa oggi: l’amore reciproco e, quindi, la comunione, la Chiesa-comunione, così come l’ha messa in rilievo con forza il Concilio Vaticano II. E perciò una “spiritualità di comunione” che occorre promuovere ovunque – come dice la Novo millennio ineunte (cf n. 43) – perché senza una tale spiritualità la Chiesa-comunione stenta a realizzarsi; senza una spiritualità di comunione – e questo, a oltre 30 anni dal Concilio, si percepisce sempre più chiaramente – la Chiesa-comunione non ha i “piedi” con cui camminare; senza una tale spiritualità gli strumenti esteriori della comunione – come i consigli presbiterali o quelli pastorali – rischiano di rimanere – come avverte il Papa – «maschere di comunione più che sue vie d’espressione e di crescita» (NMI 43).

Ma cosa vuol dire “spiritualità della comunione”? Cosa la contraddistingue?

Sono convinto che la risposta a questa domanda possa venire soltanto dallo Spirito Santo. Non si può, infatti, costruire a tavolino una tale spiritualità. Da due millenni ogni grande rinnovamento spirituale nella Chiesa è nato da doni speciali ovvero da carismi che il Signore ha voluto donare al suo popolo come risposta alle sfide di quell’epoca, quasi come una “medicina” divina per i mali e le necessità di quel tempo. Basti pensare – per fare solo qualche esempio – a quale rilevanza hanno avuto ed hanno per tutta la Chiesa la spiritualità benedettina, la spiritualità francescana, la spiritualità ignaziana. Si tratta quindi anche oggi di porci in ascolto dello Spirito che parla nei carismi.

È con quest’anima che, in questa seconda parte della mia conversazione, vorrei soffermarmi su uno scritto di Chiara Lubich che  risale al novembre del 1949 e che colpisce tuttora per la sua lucidità ed audacia6. Si tratta di un testo che, a mio avviso, è tra le espressioni più significative del suo carisma. Esso, così mi pare, ci può aiutare ad approfondire ciò che Giovanni Paolo II intende quando nella Novo millennio ineunte ribadisce la necessità di «sentire il fratello nell’unità profonda del Corpo mistico, dunque, come “uno che mi appartiene”», e invita a cogliere sul volto dei fratelli quella stessa luce del mistero della Trinità che abita in noi (cf n. 43). Non a caso lo stesso Giovanni Paolo II ha tracciato un parallelo fra la spiritualità della comunione di cui egli parla nella Novo millennio ineunte e la spiritualità dell’unità che caratterizza il Movimento dei focolari, ed ha affermato che questa spiritualità «non mancherà di portare frutti fecondi di rinnovamento per tutti i credenti»7.

In questo testo, che Chiara ha scritto all’età di 29 anni in un ambiente in cui era assai raro sentir parlare fra i cristiani di “amore” e di “unità”, si delinea con decisione quella che potremmo chiamare la via della comunione: l’arte di andare a Dio attraverso i fratelli ed assieme ai fratelli. Un’autentica mistica, ma di stampo nuovo.

Essa rivela la sua originalità sullo sfondo della dottrina spirituale allora prevalente che insegnava a cercare Dio nella propria anima, sulla via della fuga mundi; una dottrina che ha forgiato, specie nei conventi, grandi santi e sante, ma che non poteva essere messa in pratica con altrettanta pienezza dal cristiano comune, in mezzo alle vicende della storia, della vita di famiglia, della professione, in politica o nelle fabbriche, tanto da far apparire il laicato – per citare un’espressione di Igino Giordani – una specie di “proletariato della Chiesa”.

Caratteristiche
di una spiritualità di comunione

Presenterò questo testo in cinque punti che rappresentano altrettanti distintivi di una spiritualità di comunione.

1. «Guardare tutti i fiori»

Chiara inizia con un paragone suggestivo:

«I fedeli che tendono alla perfezione, cercano, in genere, di unirsi a Dio presente nel loro cuore.

Essi stanno come in un grande giardino fiorito e guardano e ammirano un solo fiore. Lo guardano con amore nei particolari e nell’insieme, ma non osservano tanto gli altri fiori.

Dio – per la spiritualità collettiva [di comunione] che egli ci ha donato – chiede a noi di guardare tutti i fiori perché in tutti è Lui e così, osservandoli tutti, si ama più Lui che i singoli fiori.

Dio che è in me, che ha plasmato la mia anima, che vi riposa in Trinità, è anche nel cuore dei fratelli.

Non basta quindi che io Lo ami solo in me. Se così faccio il mio amore ha ancora qualcosa di personale e, per la spiritualità che sono chiamata a vivere, tendenzialmente egoistico: amo Dio in me e non Dio in Dio, mentre questa è la perfezione: Dio in Dio».

È questo un primo distintivo della spiritualità di comunione: portandoci ad uscire da ogni riduzione individualistica del cammino spirituale, essa ci invita a cercare e ad amare Dio non soltanto in noi, ma in tutti.

2. Raccogliersi nel Cielo del fratello

Prendendo sul serio il fatto che Dio non si trova solo in se stessi, ma altrettanto nei fratelli, Chiara ripensa tutta la dinamica della vita spirituale:

«Dunque la mia cella, come dicono le anime intime a Dio, e, come noi diciamo, il mio Cielo, è in me e come in me nell’anima dei fratelli. E come lo amo in me, raccogliendomi in esso – quando sono sola –, lo amo nel fratello quando egli è presso di me.

Allora non amo solo il silenzio, ma anche la parola, la comunicazione cioè del Dio in me col Dio nel fratello».

“Cella”, “raccoglimento”, sono termini classici della dottrina spirituale. Chiara li accoglie, ma imprime ad essi un significato più ampio: non si tratta solo di raccoglierci con Dio in noi stessi, ma in ogni fratello che incontriamo. Perché non è solo dentro di noi la “cella” in cui possiamo incontrare Sua Maestà, come direbbe Teresa d’Avila, ma in ogni persona. Per questo – a differenza dalla classica dottrina spirituale – «non amo solo il silenzio, ma anche la parola», la comunicazione cioè di Dio in me con Dio nel fratello.

Tutto ciò, come si sa, nella vita di Chiara e delle prime focolarine, non era una bella considerazione, ma prassi quotidiana. Sin dall’inizio loro vivevano proiettate negli altri, in Gesù che è presente in ogni persona, e quindi cercavano di intuire le gioie e i dolori degli altri e di farsi uno con essi, certe che così si univano a Gesù.

Ma non solo. Sin dai primi tempi, loro praticavano tra loro un intenso scambio di esperienze spirituali. Esse desideravano infatti «riempire il tempo di colloqui celesti».

5. Perdere Dio in sé per Dio nei fratelli

C’é però una chiave d’accesso per poter percorrere effettivamente la via della comunione, e sta qui il punto più profondo ed originale della dottrina spirituale di Chiara
Lubich.

Per “guardare tutti i fiori” ed amare Dio nei fratelli «occorre – dice Chiara – saper perdere Dio in sé per Dio nei fratelli. E questo lo fa chi conosce ed ama Gesù crocifisso ed abbandonato».

Occorre cioè essere staccati da tutto, e persino dalla propria esperienza di Dio, per poter “farsi uno” col fratello sul modello di Gesù che «pur essendo di natura divina, (…) spogliò se stesso» (Fil 2, 6-7), per farsi uno con noi.

È questa la misura piena dell’amore, che trova il suo esempio e la sua fonte in Gesù il quale, immedesimandosi con noi, ha perso persino la percezione della propria unione col Padre, al punto da gridare in croce: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?».

Amore senza riserve che testimonia l’apostolo Paolo quando nella Lettera ai Romani afferma: «Vorrei infatti io stesso essere anatema, separato da Cristo a vantaggio dei miei fratelli, miei consanguinei secondo la carne» (Rm 9, 3). E nella Prima Lettera ai Corinzi: «Con coloro che sono senza legge sono diventato come uno senza legge, pur non essendo senza la legge di Dio (…). Mi sono fatto debole con i deboli, per guadagnare i deboli; mi sono fatto tutto a tutti, per salvare ad ogni costo qualcuno» (1Cor 9, 21-22).

Rivivere la kénosi, cioè lo svuotamento di Gesù, è l’unica via per riuscire a far “cellula” con i fratelli. Solo chi sa farsi piccolo ed anzi nulla, può entrare nel Cielo dell’altro ed accogliere l’altro nel proprio Cielo.

Ma è anche la via per sperimentare in pienezza la potenza della risurrezione, come ci dice ancora il testo di Chiara:

«Allora l’anima, quando tutto il giorno volentieri ha perso il Dio in sé per trasferirsi nel Dio nel fratello (perché l’uno è uguale all’altro, come due fiori di quel giardino sono opera dell’identico fattore) e avrà fatto ciò per amore di Gesù crocifisso ed abbandonato che lascia Dio per Dio (e proprio Dio in sé per il Dio presente o nascituro nel fratello…), ritornata su se stessa o meglio sul Dio in sé (perché sola nella preghiera o nella meditazione), ritroverà la carezza dello Spirito che – perché Amore – è Amore per davvero, dato che Dio non può venir meno alla sua parola e dà a chi ha dato.

Così scompare la tenebra e l’infelicità con l’aridità e tutte le cose amare, rimanendo solo il gaudio pieno promesso a chi avrà vissuto l’Unità».

Staccarsi sempre di nuovo dai propri pensieri, dai propri progetti e persino da quel tesoro interiore che è la propria esperienza di Dio, per amare e scoprire Dio nel fratello, è, in realtà, la via per liberarci di ogni ombra di ricerca di noi stessi e portare così il proprio rapporto con Dio alla pienezza, per amare non “Dio in noi”, ma “Dio in Dio”, Dio ovunque è.

Vorrei raccontare a questo proposito due fatti vissuti in prima persona.

Ricordo di essermi chiesto qualche anno fa a che cosa sarebbero ancora serviti tutti quegli studi su Martin Lutero che avevo fatto per il mio dottorato. Erano passati appena due giorni ed ho ricevuto l’invito ad intervenire con una relazione ad un importante simposio ecumenico. Ho avuto subito l’impressione che quell’invito fosse come la risposta di Dio ed ero pieno di gioia per questo squisito segno dell’amore del Padre. Prima di dare la mia adesione, ho comunque sottoposto questo invito ai miei superiori. Con mia sorpresa, la loro risposta è stata un netto “no”. Era molto difficile capire questa decisione e veniva la tentazione di non accettarla nel profondo del mio cuore. In quella situazione mi è stato di grande luce il segreto della spiritualità di comunione. Conformarmi a Gesù crocifisso e abbandonato mi ha aiutato a perdere quella che era stata per me una forte esperienza dell’Amore di Dio, per far mio quello che Dio mi voleva dire attraverso i miei fratelli. Era proprio il giorno di Pasqua. Devo dire di aver sperimentato poche volte con tale intensità la presenza del Risorto, come in quella circostanza. Era nato infatti in me una nuovissima libertà. Ma non solo. Con mia sorpresa, mai sono stato impegnato tanto nell’ecumenismo come in quell’anno, e questo nel più cordiale accordo coi miei superiori. In seguito, in vari incontri ecumenico-teologici di rilievo, ho dovuto offrire il mio contributo sulla figura di Lutero visto in una luce per certi versi nuova. Ma ormai lo facevo con un’anima diversa.

Un’altra volta dovevo fare un lavoro con un altro sacerdote. Mi sembrava di aver avuto una particolare luce per questo compito. Ma ben presto mi rendevo conto che il mio confratello aveva tutt’altre idee. Capivo che si trattava di perdere la mia “luce”, per farmi “uno” con lui. È stato un duro lavoro interiore, ma abbiamo potuto portare bene a termine il nostro compito. Soprattutto in questo modo abbiamo custodito la presenza di Cristo fra noi, e mi rendevo conto che questa era la cosa più importante.

Capisco in questa luce quanto Giovanni Paolo II nel 2001 ha scritto ai Vescovi amici del Movimento dei focolari:

«L’amore al Crocifisso, contemplato nel momento culminante della sofferenza e dell’abbandono, costituisce la via maestra non soltanto per rendere sempre più effettiva la comunione a tutti i livelli della compagine ecclesiale, ma anche per aprire un fecondo dialogo con le altre culture e religioni»9.

È questa una quinta e decisiva caratteristica di una spiritualità di comunione: saper, per amore del Crocifisso, posporre tutto e persino la propria esperienza di Dio, per porsi al servizio di Dio nell’altro.

Edificare il castello esteriore

Chiediamoci in conclusione ancora una volta quale sia la rilevanza di tutto ciò.

Perché realtà come la collegialità episcopale, il presbiterio diocesano, i consigli pastorali, ecc., possano davvero funzionare, occorre una spiritualità che possa dare loro un’anima. È questa ai nostri giorni la convinzione di tanti pastori. Ed è la convinzione profonda di Giovanni Paolo II il quale, nella Novo millennio ineunte, invita la Chiesa con urgenza a «promuovere una spiritualità di comunione in tutti i luoghi dove si plasma l’uomo e il cristiano». Perché «senza questo cammino spirituale – dice il Papa –, a ben poco servirebbero gli strumenti esteriori della comunione. Diventerebbero apparati senz’anima» (n. 43).

Con una “robusta spiritualità di comunione”10 invece è possibile costruire quello che Chiara Lubich, ispirandosi a Santa Teresa di Gesù, ha chiamato il “castello esteriore”.

Se la grande Santa di Avila, quasi cinque secoli fa, ha messo in luce la realtà del “castello interiore”, cioè l’anima abitata da Sua Maestà, oggi – osserva Chiara – «è venuto forse il momento di scoprire, illuminare, edificare per Dio, anche il suo “castello esteriore”, (…) con lui in mezzo agli uomini». E spiega: «Esso – se ben osserviamo – non è che la Chiesa, lì dove viviamo, che, anche per questa spiritualità, può diventare sempre più se stessa, più bella, splendida, come mistica sposa di Cristo, anticipazione della Gerusalemme celeste, di cui è scritto: “Ecco la dimora di Dio con gli uomini! Egli dimorerà tra di loro ed essi saranno suo popolo ed egli sarà il Dio-con-loro” (Ap 21, 3)»11.

Hubertus Blaumeiser

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01)  Regulae fusius tractatae, 7, 4.

02)  Epist. 243, 4; PL 33, 1056.

03)  Moralia, PL 75, 780-781.

04)  F. Ciardi, L’unione con Dio e con il prossimo nella storia della spiritualità cristiana, Intervento preparato per il Simposio indù-cristiano al Centro del Movimento dei focolari nel giugno 2002.

  5)  Cf ibid.

06)  C. Lubich. La dottrina spirituale, a cura di Michel Vandeleene con i saggi teologici di Piero Coda e Jesús Castellano, Mondadori, Milano 2001, pp. 75-77.

07)  Messaggio del 14.2.2001, n. 3.

08)  Gesù in mezzo in prospettiva ecclesiale, in “Gen’s” 30 (2000) p. 4.

09)  Messaggio del 14.2.2001, n. 3.

10)  L’espressione è di Giovanni Paolo II. Cf Discorso ai Vescovi amici del Movimento dei focolari, 16.2.95.

11)  Ai Vescovi amici del Movimento dei focolari, 10.2.84.