Istituzione vs. comunione?

 

«Le istituzioni, come le coppie, vivono solo se si rinnovano», era il titolo dell’articolo di un noto sociologo recentemente pubblicato in un quotidiano italiano.

Per ciò che riguarda la Chiesa, riflettere su ciò che significa “rinnovamento”, a quali condizioni esso si produce, a volte in modo del tutto imprevisto, come vera sorpresa dello Spirito, quali sono le motivazioni della lentezza e del ritardo storico con cui in altri casi si avverano i cambiamenti necessari, quali i mezzi più idonei per accelerarli… esigerebbe un intero trattato.

C’è tuttavia una legge ineluttabile, per dirla ancora con l’articolo citato: «Qualunque istituzione, sia essa una nazione, una Chiesa, un partito, una coppia, per conservare la sua anima deve essere rivitalizzata da forze che riscoprono l’ideale delle origini».

È ciò a cui richiamava l’Apocalisse, valido per la Chiesa ed i credenti di ogni tempo:  «Conosco le vostre opere, la vostra fatica e la vostra costanza… Ho però un rimprovero da farvi: non avete più l’amore dei primi tempi» (2, 2.4).

Per tornare al primo amore, bisogna cogliere con nuova luce e maturità ciò che ci ha innamorato; per quanto riguarda il cristianesimo, ciò che è essenziale nel messaggio di Gesù: i valori del Regno proposti dal suo insegnamento e dalla sua vita. Fra essi, quello centrale, l’amore/agape, quello che lui stesso ha chiamato “mio”, quello dal quale avrebbero riconosciuto i suoi discepoli, capace di dar vita ad una comunione modellata sulla vita stessa di Dio: «Come tu Padre sei in me e io in te, siano anch’essi in noi una cosa sola» (Gv 17, 21).

Si sa che la citazione appena riportata prosegue con le parole «affinché il mondo creda che tu mi hai mandato». Per cui se il mondo crede sempre di meno, se le Chiese e comunità cristiane nella società occidentale perdono di attrattiva, di mordente sociale, di capacità di “sovversione”, vuol dire che nessuna ricerca e nessuna riforma, a livello strutturale, dottrinale, nella presentazione del messaggio e nella vita ecclesiale, può fare a meno di confrontarsi con questa domanda prioritaria: «In tutto ciò che siamo e facciamo, siamo espressione di comunione e finalizzati ad essa?».

Eppure non basta affermare «è necessaria la comunione», «la comunione è il valore più alto che siamo chiamati a realizzare», «la comunione è l’essenza della Chiesa e senza di essa perde significato», e via dicendo. Su questi enunciati potremmo essere tutti d’accordo. Ma cosa significa comunione? Non solo, spesso, non si sa come realizzarla perché non si è stati formati a ciò, ma non si è nemmeno d’accordo nel modo di concepirla. Solo qualche cenno per esemplificare questa diversità d’interpretazioni.

C’è chi, ancorato a forme del passato, con motivazioni spirituali e in genere non coscientemente, strumentalizza il richiamo alla comunione per “farsi obbedire” in modo assolutistico e uniformante, fuori da ogni dinamica di ascolto e di dialogo. Evidentemente – come mostra d’altronde l’esperienza – si tratta di una concezione della comunione che impoverisce le persone, le disumanizza.

Ci sono, dall’altra parte, cristiani che rifiutano un’ “unità” che nasconda le differenze dovute a sensibilità e modi diversi di rispondere, dentro e fuori la Chiesa, alle esigenze dei tempi, ai conflitti e le ingiustizie sociale, ecc., e che invocano nel nome del Vangelo, una comunione che rispetti e promuova un maggiore pluralismo.

Altre persone e comunità non tollerano di vedersi soffocate nelle loro esigenze etiche e profetiche al punto da sentirsi obbligate in coscienza a sostenere con la parola e con gli atteggiamenti quello che oggi magari appare un’eresia e che domani potrebbe essere riconosciuto vero e necessario, com’è tante volte successo nella storia. Eppure non si considerano “fuori dalla Chiesa” bensì legati da un nesso e da convinzioni di fondo che vanno al di là di ogni diversità.

Ancora una domanda di vaste conseguenze: fin dove è possibile rendere compatibile comunione e diversità? Dove si trova – come si dice da tempo in campo ecumenico – il “necessario ma sufficiente” per poter affermare che siamo una sola cosa, cioè uniti senza monolitismi ed appiattimenti che non renderebbero conto di quell’unitrinità di Dio che siamo chiamati a rivivere per quanto possibile nella storia? Oltretutto, dal discernimeto fra ciò che nella Chiesa è assoluto e permanente e ciò che è relativo – chiarimento che K. Rahner indicava come il più urgente compito ecclesiale – dipende che la futura unità del cristianesimo non sia una velleità utopica e irraggiungibile.

Gli esempi potrebbero continuare per esteso a livello ecclesiale e sociale a dimostrare che non basta parlare di comunione, ma bisogna esplicitare come la s’intende. Tanto più che quel tipo d’interrogativi ed obiezioni teorici e pratici che abbiamo menzionato, non solo esistono di fatto, ma contengono spesso dei quesiti i quali meritano risposte che non siano superficiali e sommarie ma adeguate e convincenti.

È ovvio quindi che questo numero della nostra rivista non possa avanzare nessuna pretesa di completezza. La sua intenzione è modesta ma allo stesso tempo seria. Nel presentare riflessioni e fatti sulla comunione, in questo caso riferita specialmente ai sacerdoti, vuol costituire un contributo che si aggiunge ad altri e a quelli che sono stati offerti da decenni su queste colonne. Ogni esperienza – osservava acutamente M. De Certeau – contiene un’idea che s’ignora. Viste così, le esperienze narrate in modo esplicito e quelle che esistono dietro ad ogni affermazione di queste pagine, possono offrire spunti e stimoli per una migliore comprensione di che cos’è la comunione e, ciò che è più importante, per cercare di viverla in tutte le situazioni.

Fra l’altro, tali esperienze e riflessioni testimoniano che non c’è istituzione, circostanza o difficoltà che possa rendere impossibile la comunione. La sua assenza, anche dovuta ai motivi più comprensibili, è sempre uno scandalo e una tragedia, e costituisce una sfida alla pazienza ed alla creatività tipiche dell’amore vero. Pur riconoscendo l’eventuale valore e rispettando la sincerità di sforzi realizzati in altra direzione, i fatti ci chiamano a riscoprire l’invito evangelico ad una comunione di stile trinitario, come il germe di ogni autentico rinnovamento, moderno e fecondo.

E. C.