La luce che mi colpì

di Silvano Cola

 

Davanti a 1000 sacerdoti, diaconi e seminaristi riuniti dal 19 al 21 aprile a Castel Gandolfo per il Congresso «Chiesa oggi», d. Silvano racconta del suo incontro con la spiritualità dell’unità avvenuto nei primi anni ’50: scoperta sconvolgente del Vangelo vissuto con radicalità, di una vita a mo’ della SS. Trinità. (da gen’s 3-4/2006, pp. 33-35).

Quando sono stato ordinato sacerdote pensavo di es-sere già arrivato alla maturità umana e spirituale perché oltre agli studi filosofici e teologici avevo preso il diploma magistrale, avevo studiato pedagogia all’università di Torino, avevo preso il diploma in psicologia, lavoravo a Torino in una città di ragazzi abbandonati, facevo scuola di psicologia sociale alle e agli assistenti sociali.

Dopo soli quattro anni di sacerdozio sono entrato in una crisi intellettuale, perché pensavo che tutta la filosofia e teologia studiata non servisse assolutamente a nulla nel ministero. Pensavo onestamente di lasciare il sacerdozio quando un amico che studiava al politecnico di Torino, e che non conosceva per niente quanto mi passava per l’anima, un giorno mi disse: «Sai, Silvano, ho conosciuto un Movimento…». Lo bloccai immediatamente. Per me, psicologo, un movimento mi dava l’idea di un leader davanti e di tanti pecoroni dietro, il contrario di una realizzazione di sé. La sua insistenza durò almeno due mesi, ma ancora non era riuscito a dirmi il nome del Movimento.

Un giorno mi affrontò: «Senti, Silvano, tu sei un prete cattolico e io sono cattolico; ho conosciuto un Movimento che non so se è protestante o cattolico: devi conoscerlo almeno per dirmi se posso farne parte!».

Non mi sono accorto che era una trappola. Con grande prosopopea ho risposto. «Se è solo per questo…». Dopo un’ora ci troviamo in un appartamento dove c’era una sola signorina che ci accoglie, ci saluta, e noi ci sediamo, stando in silenzio.

Lei con un sorriso dice: «Se voi non parlate, devo parlare io. Cosa vi racconto… forse come passiamo la nostra giornata… Ecco, appena ci svegliamo riscegliamo Dio come l’unico tutto della nostra vita…».

Per me fu il primo colpo: sentii torcersi lo stomaco (in dodici anni di seminario non avevo sentito una frase del genere). Poi – continua – «prepariamo la colazione per Gesù nelle nostre compagne, andiamo in ufficio ad amare Gesù nel capoufficio, ad amare Gesù nelle nostre colleghe d’ufficio…».

Credo di non aver mai sofferto tanto come in quella mezz’ora. L’unico pensiero insistente era: «Ma questa è immacolata!». Dentro di me ero stravolto. Quando uscimmo dissi all’amico: «Se sono protestanti o cattoliche non te lo so dire, so soltanto che è successa una cosa importante».

Scappai (avevo la moto). Non riuscii più a dormire per vari giorni. Ero un automa anche nel lavoro; continuavo a chiedermi: «Ma chi sono queste persone?». Mi dissi allora: «Se continuo così divento matto: devo rendermi conto di chi siano». E tornai da solo nello stesso appartamento. Mi aprì un’altra signorina che salutai, chiedendole se non era in casa quell’altra che mi aveva parlato. Rispose che era sola, e io un po’ abbattuto le dissi: «Per favore, quando ritorna le dica che è passato di qui d. Silvano». E lei: «Ah, ma lei è d. Silvano, venga avanti!». Non l’avevo mai vista in vita mia, e lei già mi conosceva. Rimasi in silenzio. Lei mi parlò raccontandomi la sua e la loro esperienza spirituale.

«Inizia la vita nuova»

Quando uscii, per le scale cantavo: «Quasi modo geniti infantes – come bambini appena nati cercate il latte della sapienza». Era come se fossi nato in quel momento. La vita passata non esisteva più e non mi interessava, come se non avesse avuto alcun valore. Con la gioia nel cuore pensavo: «Incipit vita nova», come ha scritto Dante nel canto del Paradiso. Avevo capito che del Vangelo non avevo capito niente: sapevo parlarne, ma non l’avevo vissuto. «Dicono, e non fanno» – e sant’Agostino nel Sermone 74 aveva commentato: «Se dicono e non fanno sono gente cattiva, e se sono cattivi non possono dire cose buone». Mi ero visto fotografato. E mi sentivo abbagliato dalla luce nuova che sgorgava dal Vangelo.

Per almeno due mesi in ogni momento libero dal ministero andavo dalle focolarine: stavo in silenzio, in contemplazione, ascoltando sapienza: il Vangelo vissuto nella vita normale quotidiana. Avevo visto dischiudersi finalmente la novità del Vangelo.

Distruzione e
risurrezione dell’io nel noi

Quando per la prima volta andai dai focolarini, conobbi Vittorio Sabbione, un grande avvocato di Torino. Mi raccontò come viveva questa nuova spiritualità da avvocato, cose che non avrei mai immaginato potessero succedere, e allora anch’io mi azzardai a raccontargli le piccole esperienze fatte in quei due mesi. In questa comunione mi colpì moltissimo una nuova realtà mai sperimentata, che poi ho capito essere quello che chiamavano “Gesù in mezzo”, tanto che salutandolo gli dissi: «Vittorio, lavorando con i ragazzi abbandonati e delinquenti sono diventato anch’io mezzo delinquente e forse lo sarò sempre, ma anche se vado all’inferno questa esperienza me la porto dietro». Era la distruzione e la risurrezione dell’io nel “noi” e, contemporaneamente, era “paradiso”. Il mondo era fuori.

Dopo sei mesi, ai primi di luglio del ’55, andai a Vigo di Fassa, nel Trentino, dove per la prima volta partecipai ad uno di quegli incontri estivi che si chiamano Mariapoli. Un mondo nuovo, straordinario. Vidi Chiara, vidi la sua straordinaria semplicità e normalità evangelica, armonia. Capii cosa era una persona che portava un carisma. Impegnatissima, mi disse che avrebbe mandato una delle sue prime compagne a parlarmi. Con lei scoprii il segreto di Dio e dell’uomo: dimenticare il proprio io per poter amare veramente l’altro. Non spiego oltre. Basterebbe capire a fondo cosa vuol dire Gesù quando dice: «Il Padre è in me e io sono nel Padre». Fino a questo punto arriva l’Amore. Per questo si capisce l’altra affermazione: «Il Padre e io siamo una cosa sola». Gesù abbandonato è l’unica vera chiave per arrivare all’Uno.

È questo il modello trinitario che anche i cristiani devono cercare di vivere: «Amatevi gli uni gli altri come Io ho amato voi».

Per dirla in breve: sono queste le tre rivelazioni – così posso chiamarle, perché per me lo sono state – che mi si sono piantate nell’anima: Dio-Amore come unico tutto della nostra vita – prima del sacerdozio, prima del ministero, prima della nostra famiglia – ; vedere Gesù in tutti perché tutti siamo creature e figli di Dio, uomini come Gesù è stato uomo, anzi, l’Uomo; Gesù crocifisso e abbandonato, ossia l’Uomo al culmine della sua maturità umana, libero da ogni condizionamento, anche nel momento del buio della sua separazione dal Padre, quando per amore si rimette al Padre.

C’era solo un difetto: l’unità, questo paradiso, era più facile attuarla con le focolarine e i focolarini che tra sacerdoti (il nostro Ego sacerdotale era molto accentuato). C’è voluta la proibizione, data dalla Conferenza episcopale in Italia, di continuare ad avere contatti con il Movimento dei focolari, proibizione che durò dal 1959 al 1960, per costringerci a fare un passo che sembrava impossibile: con un gruppetto di sacerdoti, per non perdere la Vita trovata, facemmo un patto di unità: «Piuttosto morire che perdere Gesù in mezzo a noi». E siamo ancora qui, nella splendida famiglia del Movimento dei focolari, famiglia di Dio, perché Gesù ne è l’unico vero legame.