Dagli
Stati Uniti
«Abbiamo bisogno
di comunione»
D urante
gli ultimi cinque anni, come si sa, negli Stati Uniti abbiamo avuto scandali a
proposito di abusi sessuali su ragazzi ad opera di
alcuni sacerdoti.
A parte la
sofferenza delle vittime e delle loro famiglie, i preti hanno sperimentato
im-barazzo, e molti un senso di dubbio circa la loro identità. Interrogativi
sul celibato, sull’opportunità di avere un clero
sposato e di dare il sacerdozio alle donne, hanno dato
luogo a dibattiti poco piacevoli.
In
queste situazioni difficili sono state di grande
conforto per me le parole di San Paolo: «Abbiate in voi gli stessi sentimenti
che furono in Cristo Gesù» (Fil 2, 5).
Capivo
che la Chiesa nel mio Paese era chiamata ad una profonda purificazione in vista
di un serio rinnovamento.
Ho
provato in queste sofferenze una partecipazione alle sofferenze
di Cristo e un invito a vivere ogni dolore con il suo stesso atteggiamento, in
vista della risurrezione.
Per
affrontare bene la situazione i vescovi hanno preso a cuore la formazione dei
seminaristi e quella permanente dei sacerdoti e sono state scelte alcune
persone per visitare ogni diocesi e verificare l’attuazione delle direttive
della Conferenza episcopale. In oc-casione della prima di queste visite nella
mia diocesi, sono stato interpellato a motivo del mio incarico nella formazione
permanente del clero.
Alla
domanda su come mettevo in atto le nuove direttive, ho risposto che favorivo
quei programmi che incoraggiano la fraternità tra i sacerdoti e creano
un’atmosfera di comunione nel presbiterio.
Quando ho nominato la comunione, uno di loro, un ex-agente del FBI del
governo federale, ha esclamato: «Questo è ciò di cui abbiamo bisogno. Se ciò fosse stato fatto prima, la nostra Chiesa non si
troverebbe in questa situazione».
Michael Mulvey
Dal
Perù
«Se siamo uniti nell’amore,
Dio è con noi»
A
vevo 18 anni quando ho deciso di entrare in seminario.
Il parroco mi aveva “contagiato” con la sua donazione alla gente semplice, ai
campesinos, ai poveri…
Prima
dell’ordinazione sacerdotale ho conosciuto il Movimento dei focolari. Nuove
realtà mi si illuminarono, come p.e. vedere Gesù negli
altri: «L’avete fatto a me». Ma quello che mi fece capire in modo nuovo la
Chiesa e la mia vocazione fu soprattutto aver scoperto
le parole di Gesù: «Dove due o tre sono riuniti nel
mio nome, lì sono io» (Mt 18, 20).
Da
tre anni sono parroco di Bolívar, sulle Ande a 3.000 metri di
altezza. La parrocchia, oltre alla piccola città, è formata da 40
comunità contadine sparse in un vasto territorio senza strade né mezzi di
comunicazione… Per raggiungere la comunità più lontana ci vogliono
tre giorni di viaggio a dorso di mulo.
La gente vive – come dicono i nostri vescovi – l’esperienza di un lungo venerdì
santo: senza luce, senza medico, senza telefono, e in alcuni posti senza
scuole. In questa realtà la Chiesa è l’unica presenza viva che dà speranza per
un futuro migliore.
Quando
sono arrivato a Bolívar per conoscere “i miei
parrocchiani”, ho organizzato lunghi viaggi missionari che duravano fino a tre
settimane.
In
alcuni posti ho trovato cappelle diroccate, bambini e giovani non battezzati,
adulti che avevano formato famiglia senza il sacramento del matrimonio. Il
grido che ascoltavo dappertutto era: «Perché ci avete
abbandonato?». Ma, nonostante tanti anni senza la
visita del sacerdote, la loro fede non si era spenta.
Il
mio primo annunzio, non solo con parole ma anche con piccoli gesti, era: «No, non siete stati dimenticati; Dio ci ama immensamente; e dove
due o tre sono riuniti nel nome di Gesù e si amano, lì lui è presente; e quando
uno soffre, egli è ancor più presente, perché partecipiamo al suo dolore sulla
croce».
In
ogni posto bisognava formare dei catechisti e organizzare “una comunità
cristiana”, in modo che la presenza del sacerdote non fosse indispensabile,
così da essere tutti testimoni della nostra fede, Chiesa viva, anche se le
pareti delle cappelle sono diroccate. Cioè una
Chiesa-comunità.
Con
questo nuovo spirito di Chiesa- comunione l’anno scorso abbiamo formato
un’équipe per portare avanti un corso per catechisti. Desideravamo che la prima
catechesi non avvenisse attraverso “una sola persona” che esponeva interessanti
temi, ma che fosse la testimonianza di un gruppo a mostrare concretamente come
fare le cose in unità. Di fatto il nostro corso è stato un “evento” di
formazione, una vera esperienza di famiglia per tutta la parrocchia.
Siamo
poi rimasti sorpresi dal fatto che non solo gli adulti, ma anche i giovani
ritornano alla Chiesa, perché la trovano con un volto nuovo: una
Chiesa-famiglia, una Chiesa-comunione.
Emeterio
Castañeda
Dalla Slovacchia
«Testimoniare il Cristo vivo in una società in trasformazione»
Sono sacerdote cattolico di rito orientale. Ho conosciuto la
spiritualità dell’unità ancora da piccolo, dai miei genitori. Da giovane ho
sentito la vocazione al sacerdozio. In quegli anni il Movimento dei focolari mi
ha aiutato a porre a base di tutto l’impegno di mettere in pratica il Vangelo.
Prima di essere ordinato, seguendo la nostra
antichissima tradizione, mi sono sposato. Pensavo di lavorare in parrocchia, ma
la Chiesa mi ha affidato un compito inaspettato: quello di segretario esecutivo
della Conferenza episcopale slovacca, di cui fanno parte i vescovi di rito
latino e quelli di rito orientale.
Non mi sentivo all’altezza di un compito così
delicato. Ma avevo un talento prezioso da trafficare:
l’esperienza di comunione vissuta da giovane e da seminarista. Ciò mi ha
aiutato a creare ponti fra le due tradizioni per dare, nel
nostro piccolo, testimonianza che la Chiesa cattolica respira con i due
polmoni.
Dopo la caduta del comunismo, la Chiesa in Slovacchia
gode i vantaggi della libertà. Più del 74 per cento degli abitanti sono
cattolici, sono numerose le vocazioni al sacerdozio, le parrocchie si
sviluppano, si costruiscono chiese, si consacrano nuovi vescovi. Molte però
sono anche le sfide. Una delle più forti è il consumismo occidentale. La
Chiesa, ancora molto legata alla tradizione, sta cercando le vie per
testimoniare il Cristo vivo in questa società in trasformazione.
Nel mio lavoro a volte mi sento frammentato per le tante
cose da fare. Trovo la forza per reagire nella comunione. Comincio
a costruirla ogni giorno nella mia famiglia, con mia moglie e i miei figli.
Continuo poi sul posto di lavoro.
Gesù è presente dove due o tre sono uniti nel suo nome,
nel suo amore. Ecco il mio segreto, la perla preziosa.
Muoversi nell’amore – muoversi in Gesù.
Con i miei amici – sacerdoti e
laici – che condividono questa vita, m’incontro spesso per immergermi nella Sua
presenza che è luce, conforto, risposta alle situazioni difficili. In questo
vedo anche un futuro migliore per la Chiesa nel nostro Paese.
Cyril
Jancisin
Dall’Italia
«Da comunista convinto
a diacono nella Chiesa»
La
mia vita è stata un’avventura. Sono passato dal sogno dell’ideologia comunista
al servizio concreto come diacono nella Chiesa di Torino.
Ero,
infatti, un dirigente del partito comunista italiano. Avevo fatto dell’impegno
politico una professione, perché volevo darmi anima e corpo alla soluzione dei
problemi sociali.
A
42 anni ero al culmine della mia carriera: presidente della “Cooperativa Di
Vittorio”, che avevo fondato, con 10.000 soci e 3.000 alloggi realizzati.
Nell’aprile
del 1987 prendo coscienza che le idee in cui ho tanto
creduto non hanno futuro. Arrivato a casa mi accascio sul divano e lì mi trova
mia moglie rientrando. Mi chiede cosa sia successo. Le rispondo che devo
verificare tutti i valori della mia vita.
La
vicinanza di mia moglie mi conforta. Attraverso un confronto continuo e serrato
con lei mi rendo conto che ho maturato il desiderio di sposarmi in chiesa, ma
non ho il coraggio di dirglielo. È lei stessa a propormelo. Ci sposiamo in
chiesa e mia figlia Desi, contemporaneamente, chiede di essere battezzata.
In
parrocchia sboccia la mia vocazione diaconale. In questo periodo l’incaricato
diocesano per la formazione dei diaconi, don Vincenzo Chiarle, ci aiuta a
conoscere e a vivere la spiritualità dell’unità.
All’inizio
sembra tutto facile, ma arriva il tempo della prova. Entrambi, mia moglie ed
io, perdiamo il lavoro. Muore mio padre e poco dopo mia
madre. Ci affidiamo a Dio, non in modo fatalistico, ma facendo la nostra parte.
Improvvisamente ritroviamo entrambi il lavoro e un buon lavoro.
Ordinato
diacono mi rendo conto che la mia conversione è cominciata
davvero, perché Dio mi apre non solo ad un nuovo rapporto di coppia e in
famiglia, ma a tutta la comunità ecclesiale.
Anche i vecchi ideali di migliorare l’umanità, che sembravano infranti,
rifioriscono in maniera tutta nuova: non più basati sulla lotta di classe, ma
sulla fratellanza universale.
Roberto
Porrati
Dalla
Slovenia
La malattia: chance
per la fecondità pastorale
Tone
Šeruga: Quarant’anni fa feci la scoperta della vita di comunione tra i
sacerdoti diocesani che seguivano la spiritualità del Movimento dei focolari,
ed espressi al vescovo il desiderio di attuarla
insieme ad un viceparroco che desiderava fare la stessa esperienza.
Egli
ci accontentò e aggiunse: «Se dopo un anno l’esperienza non
andasse bene, venite e troveremo un’altra soluzione».
Dopo
un anno tornammo a ringraziarlo, assicurandolo che tutto andava bene. Egli
visibilmente contento fece un commento: «Questa non è opera mia, ma dello
Spirito Santo».
All’inizio Jože era viceparroco,
poi divenne parroco di due parrocchie, ma rimanemmo ugualmente insieme, avendo
ognuno in cuore le parrocchie altrui come la propria.
Dopo ventun anni di vita comune pensavo di affidare tutta
la responsabilità pastorale a Jože, rimanendo come aiuto, ma il Signore ha
avuto altri progetti...
Jože
Berginc: Sei anni fa mi è stato scoperto il morbo di Parkinson e non potevo nascondere le mie difficoltà alla gente. Le medicine infatti non funzionavano subito e dovevo avere tanta
pazienza e non temere di mostrarmi così debole davanti agli altri.
Durante
un periodo, a causa di un’infezione, le medicine non agivano affatto. E le conseguenze? Per alzarmi da letto ci voleva almeno
mezz’ora... Ma, guardando a Gesù in croce, sentivo che
il mio mondo interiore era sano e andavo avanti con gioia. Ancora oggi a volte
non posso neanche aprire il breviario. Allora penso: «Adesso Dio ha bisogno, in
qualche posto, del mio piccolo contributo per risolvere qualche problema».
Offrendo
la mia sofferenza, facendone occasione per un rinnovato amore, il buio si
trasforma in luce. Lo sento in modo speciale al
mattino, quando preghiamo e rinnoviamo la nostra fedeltà a Gesù.
Tone
Šeruga: Il nostro vescovo, parlando della vita comune ai sacerdoti, ha citato
la nostra esperienza: «Questa vita fa tanto bene a loro due e
alle loro parrocchie». Sì, perché la malattia di Jože non è di ostacolo, anzi rende feconda la nostra pastorale. Diversi
laici, uniti tra di loro e con noi, condividono con
gioia tanti impegni in parrocchia e tutti sperimentiamo la luce e la forza del
Risorto.
Tone
Šeruga e Joze Berginc
Dalla Polonia
Coi giovani per l’ecumenismo:
«non più noi e loro»
Conversando
con i giovani in parrocchia, ci venne in mente di mettere in scena la storia
affascinante di Maria Maddalena. Cosa avrà sentito lei
nel suo cuore a contatto con Gesù?
La
sua storia di peccatrice – secondo una certa tradizione – si ripete nella vita
di tanti, anche se non sempre si arriva all’adulterio. Ci siamo chiesti: «Come
trovare una via d’uscita?». La via è Gesù!
Ci
siamo messi al lavoro, ma abbiamo voluto andare oltre
la nostra comunità cattolica. Perché non coinvolgere
anche i giovani della Chiesa evangelica? Perché non
entrare nella piaga della divisione tra le Chiese, visto che in città metà
della popolazione è evangelica?
Durante
il primo incontro eravamo ancora “noi e loro”. Abbiamo avviato la musica e
cominciato a leggere il testo della scena. Eravamo molto attenti a come
muoverci per timore di fare passi falsi nei rapporti, ma poi lentamente siamo
diventati più sciolti.
Arturo,
un animatore del gruppo evangelico, ha detto: «Questa non può
essere solo una rappresentazione, deve diventare la nostra esperienza
della Buona Novella di Gesù».
Tutti
eravamo d’accordo e i nostri incontri successivi ci
hanno avvicinato sempre di più. Ora non siamo più “noi e
loro”, siamo una cosa sola, siamo “uno” nell’impegno di vivere il
Vangelo.
Le
domande che ci siamo posti all’inizio hanno trovato risposte ricche di
significato e, in armonia con le direttive ecumeniche delle nostre Chiese,
viviamo quella comunione nell’amore fraterno che prelude ad un futuro in cui
l’unità sarà piena.
Lo
spettacolo preparato in questo clima è stato bene accolto non solo nella nostra
città, ma persino all’estero.
Miroslaw
Szewieczek
Dalla
Tailandia
«L’ideale della
Chiesa-comunione
nel cuore di tutti»
Molti sono i problemi che i
sacerdoti incontrano nel Continente asiatico. Basti pensare che i cattolici nel
mio Paese sono meno dell’uno per cento.
Vi
dirò qualcosa della mia esperienza. Mentre studiavo teologia a Roma ho
conosciuto la spiritualità dell’unità che ha operato in me una svolta determinante.
Ritornato
nella mia terra, dove il Movimento dei focolari era già presente, abbiamo
portato avanti insieme questa vita tra i sacerdoti.
Nel
1983, i vescovi mi hanno affidato il seminario intermedio nazionale, un anno
propedeutico prima del seminario maggiore. I seminaristi ogni anno erano tra 30
e 50. Sapevo per esperienza che la cosa più importante per un sacerdote è saper creare la comunione. Ho cercato perciò di fare coi seminaristi innanzi tutto una vita di famiglia, nella
quale ciascuno potesse sentirsi libero e dare il meglio di sé. Abbiamo potuto
così sperimentare la bellezza di una vita tutta informata dal Vangelo.
Più
tardi i vescovi mi hanno nominato rettore del
seminario nazionale Lux mundi. Abbiamo cercato, assieme agli altri formatori,
di mettere alla base del nostro lavoro uno spirito di comunione. Sempre più la
formazione ha preso questo timbro. Abbiamo potuto aiutare la Chiesa in questo
campo anche nei Paesi confinanti.
Attualmente sono parroco a Bangkok nella cattedrale, situata tra una moschea
e un tempio buddista. Ultimamente con un gruppo di parrocchiani siamo andati a
visitare la moschea e il tempio buddista. In ambedue i posti siamo
stati ben accolti.
L’abate
del tempio, tra l’altro, ha detto che in circa 40 anni, come monaco buddista,
era la prima volta che un sacerdote cattolico era andato a trovarlo. Da allora
l’amicizia tra di noi cresce sempre più.
Quest’anno su mia proposta si è tenuto il sinodo
diocesano per promuovere la comunione tra i sacerdoti e tutti i membri della
comunità cristiana. Come segretario generale ho faticato parecchio, ma
l’impegno per una Chiesa-comunione è ormai nel cuore di tutti.
Francesco
Kriengsak
Dal
Rwanda
«Tu devi vivere»
Sono
nato in un campo profughi e dopo pochi mesi mio padre è morto. Da adolescente
ho sperimentato che Dio era Padre e si prendeva cura di me!
Sentii il fascino della chiamata al sacerdozio, ma con
tanti interrogativi: dopo che i miei mi avevano fatto studiare, potevo
abbandonarli alla dura sorte?
Misi in comunione questa mia preoccupazione e sperimentai
una grande libertà interiore nel seguire Gesù.
Un giorno chiesi a Chiara Lubich una Parola della
Scrittura come programma per la mia vita. Lei mi mandò
questa: «Al di sopra di tutto poi vi sia la carità,
che è il vincolo della perfezione» (Col 3, 14), e un nome nuovo: “Amato”.
Questa Parola della Scrittura ha liberato in me la gioia,
prima imprigionata a causa della mia storia dolorosa.
Intanto, nel mio martoriato Paese, attorno al Focolare,
sorgeva un gruppo di seminaristi impegnati a far circolare, nonostante la
guerra, questa vita di comunione che fioriva in tre seminari interdiocesani.
Prima del mio diaconato il genocidio seminò la disperazione
in tutto il Paese: avevo l’impressione che il mio sacerdozio non sarebbe
servito a niente. Fu un dolore intensissimo. Potevo solo gridare la preghiera
di Gesù: «Dio mio, Dio mio perché mi hai
abbandonato?».
Mi ricordai di Chiara e delle sue prime compagne durante
la seconda guerra mondiale e una voce dentro mi diceva:
«Tu devi vivere, tu devi vivere…». Dovevo condividere
quella prova con i connazionali angosciati, soccorrere quelli che erano fuggiti
in Burundi e dare coraggio agli altri seminaristi.
Quando sono diventato diacono non c’era
vicino a me nessun membro della mia famiglia naturale. Mi ricordai le parole di
Gesù: «Chi è mia madre, chi sono i miei fratelli?...».
Erano però presenti alcuni amici che condividevano con
me la vita di comunione. Nei loro occhi trovai la certezza che valeva la pena
compiere questo passo. Mi prostrai chiedendo la grazia della fedeltà a Gesù crocifisso. La stessa cosa si verificò
l’anno dopo all’ordinazione sacerdotale: la mia famiglia erano coloro che
vivono con me l’ideale dell’unità.
Rientrato in Rwanda, mi fu affidato l’incarico di
direttore della Caritas. Siamo andati nelle prigioni aiutando tutti: i
superstiti e i presunti carnefici, rispettando la sofferenza di ognuno e
ricostruendo la fraternità nella riconciliazione.
Martin-Amato
Nizigiyimana