Flash di vita

Gli zingari nostri fratelli

Se sai che in ogni creatura umana c’è una presenza del Cristo e ti disponi subito a servirla, mettendo da parte sospetti e pregiudizi, spesso vedrai fiorire un vero rapporto d’amore fraterno: l’unica via per trasmettere vitalmente i tesori del Vangelo.

Entro in chiesa assieme ad una signora e un piccolino e vedo che presso la statua della Madonna c’è una coppia di giovani zingari. Lui mi fa segno con un dito di accostarmi. Lascio un momento quella signora e mi avvicino a lui che mi indica il suo anello e quello di lei e mi chiede di benedirli.

Un attimo di perplessità da parte mia e lei interviene per rassicurarmi: «Sabato prossimo ci sposeremo in municipio».  La cosa mi sembra strana, sapendo che gli zingari non accettano il matrimonio in chiesa, perché non vogliono che i loro nominativi siano poi registrati nel comune. Chiedo: «Come mai non vi sposate in chiesa?». La signora: «Sa, noi non conosciamo il catechismo...». E io: «Scommetto che sapete a memoria una bella pagina del Vangelo! Conoscete il Padre Nostro?». «Abbastanza», è la risposta. «Ma non sareste contenti di sposarvi in chiesa?». «È stato sempre il nostro sogno». Cerco di capire quanto sia serio il loro intento: «Ma voi vi volete veramente bene?». «È da tredici anni che stiamo assieme e abbiamo già sette bambini».

Mi dicono anche che da poco abitano nella periferia della parrocchia, dove hanno ottenuto un’abitazione popolare. Li invito a venire in canonica il giorno dopo per parlare assieme con calma.

Nel frattempo chiedo un parere al parroco confinante, che di zingari un po’ se ne intende. Egli m’incoraggia ad approfondire l’iniziativa, sia pure con prudenza.

Arriva la domenica ed essi si presentano  puntuali. Nel colloquio vengo a sapere che in casa pregano assieme due volte al giorno: prima del pasto e prima di andare a letto. «Lui sa leggere e alla sera apre la Bibbia e a turno diciamo una preghiera». Chiedo a chi abbiano lasciato i bambini e la mamma mi risponde che a casa c’è la più grande: ha 12 anni e frequenta la 5a elementare e sa custodirli tutti. Domandano se possono sposarsi tra un mese, nello stesso giorno in cui avevano iniziato a vivere insieme. Intanto ritirano dal municipio l’attestato delle avvenute pubblicazioni.

Negli incontri seguenti cerco di non insegnare tante cose ma di farmi raccontare e nel dialogo completare la loro conoscenza di Gesù. L’uomo mi porta anche la Bibbia che avevo loro richiesto per vedere se l’avevano ricevuta da persone affidabili, e mi accorgo che è un regalo del vescovo di Trento, fatto  al marito mentre era in carcere. È contento che io legga quello che egli ha scritto sulle ultime pagine bianche. È una preghiera scritta in quei giorni di lontananza dalla famiglia: una preghiera ricca di dolore, pentimento, gratitudine, propositi.

Prepariamo il matrimonio. Ritengo opportuno farlo con la Liturgia della Parola. In seguito, insieme al cammino di catechesi che i quattro bambini più grandi inizieranno, prepareremo anche i genitori alla comunione eucaristica e alla cresima.

Il giorno che precede le loro nozze è domenica e sono tutti e nove a Messa, così silenziosi che nemmeno m’accorgo della loro presenza. Alla fine i genitori mi presentano i figli: uno più bello dell’altro. «Non vogliamo che i nostri bambini crescano come noi. Vanno tutti a scuola e all’asilo!». Nell’uscire dalla chiesa saluto Gesù con il gesto della mano e tutti e nove Lo salutano.

In canonica prepariamo le preghiere che i quattro più grandi sono disposti a leggere per i loro genitori. Facciamo poi uno schema per i turni di servizio dei bambini in casa, avendo sentito che si lasciano servire un po’ troppo dai genitori. Prometto che verificheremo assieme come funzionerà. Poiché in canonica ritorneranno ancora, chiamo anche la signora che vi lavora, perché possa farne la conoscenza e assieme diciamo una preghiera davanti alla Madonna dell’Accoglienza che sta nell’atrio della casa.

Propongo la celebrazione delle nozze in una cappella, ma essi mi chiedono se si può fare nella chiesa grande perché lì hanno molti bei ricordi. Chiedo dove andranno a pranzo dopo la celebrazione. So che gli zingari quando fanno festa diventano un esercito munito di musica e birra. «Invitiamo pochi e ritorneremo a casa nostra». Propongo di pranzare in parrocchia. Sono felici.

La liturgia avviene con intensa attenzione degli sposi e dei figli maggiori, e grande fermento dei più piccoli. Dopo la celebrazione, con altre quattro coppie di zingari, due suonatori di violino e sedici piccoli saltellanti, ci raccogliamo attorno ad una grande tavolata. Una famiglia della parrocchia ha preparato il pranzo e la nostra colf e un’altra parrocchiana si mettono a servirli.

So che siamo solo all’inizio di una storia iniziata con una piccola attenzione al mondo zingaro, una storia che probabilmente è destinata a continuare non solo con la catechesi dei loro bimbi, ma anche con l’evangelizzazione che questa coppia farà alle altre del loro mondo.

Piergiorgio Zocchio

 

Nell’Eucaristia il Paradiso e la terra

Virág Rassay è un’artista ungherese che vive la spiritualità dell’unità del Movimento dei focolari. Invitata a preparare la porticina di un tabernacolo, ci racconta il suo cammino interiore nel realizzare questa piccola opera d’arte. Ci sembra in più sensi ben intonato con l’anno eucaristico che si sta vivendo nella Chiesa cattolica.

Quando mi è stato proposto di fare la porta del tabernacolo della nostra cappella ho sentito che umanamente era qualcosa di inafferrabile, perché avrei dovuto rappresentare un mistero di Dio.

Per questo la realizzazione del progetto non è cominciata quando ho preso foglio e carta per disegnare, ma quando ho iniziato a pensare quale doveva essere l’anima di ciò che avrei dovuto creare.

Mi è venuta in mente la meditazione di Chiara Lubich: Ho un solo sposo sulla terra. Lì Chiara, anche se parla di Gesù abbandonato, dice una frase che ho sempre messo in rapporto con l’Eucaristia: «In lui é tutto il Paradiso con la Trinità e tutta la terra con l’umanità».

Da alcuni anni, spesso mentre vado alla Comunione mi viene in mente questa frase. Sento che mi rafforza e mi prepara ad entrare meglio in quel mistero al quale partecipiamo ricevendo in noi l’Eucaristia.

Durante tutto il processo di creazione di questo piccolo progetto ho continuato a coinvolgere quanti erano intorno a me: le giovani della casetta dove vivo come pure i miei genitori quando vado a casa. Spesso non è stata facile questa creazione artistica fatta insieme, perché dovevo perdere l’una o l’altra idea che a me piaceva tanto e accogliere le proposte, gli accorgimenti degli altri ed anche le critiche.

Una volta avevo sentito dire dal Papa che ogni artista nella creazione di una sua opera esprime ciò che di più profondo ha nella sua anima. Contemporaneamente a queste parole del Papa sentivo fortemente che, se volevo lasciare mano libera a Dio in me, dovevo formare prima la mia anima. Così ho preso il Catechismo per leggere sull’Eucaristia, e il libro di Chiara Lubich, Una via nuova, per meditare su Maria. Inoltre diventava sempre più importante andare a messa ogni mattina per ricevere Gesù in me, in modo che davvero potessi lavorare con Lui, pensare con Lui.

Sono diventate veramente speciali queste messe, perché mi mettevo davanti a Dio in modo del tutto diverso da prima e sentivo che Gesù sempre di più entrava in me. Spesso mi sono rivolta a Lui nella messa o durante il giorno: «Gesù, aiutami! Questa porta davvero deve essere bella, perché è Tua!». Oppure ricordando l’esempio di Chiara, ripetevo: «Tu sei tutto, io sono nulla», perché mi colmasse con la sua luce e la sua verità, in modo che Egli fosse colui che crea ed io uno strumento nelle sue mani.

È stato poi un grande dilemma capire quale tecnica usare: vetro oppure smalto? Personalmente mi piaceva di più la prima, proprio per la trasparenza. Ricordo che una volta durante la messa ero immersa in questi pensieri e mi sono chiesta: «Ma il vetro sarà veramente degno per un tabernacolo?», e di colpo come risposta mi è venuta in mente un’altra domanda: «Ma noi, che riceviamo tutti i giorni Gesù Eucaristia, siamo degni di Lui? Siamo davvero dei tabernacoli trasparenti? Viviamo le nostre giornate con la dignità e la coscienza che portiamo in noi Gesù?».

Quando ho terminato l’opera, non è stato facile staccarmi da questo mio lavoro, ma nello stesso tempo ho provato una grande gioia che si ripete ogni volta che penso alla cappella, perché sento che lì ho lasciato il mio cuore a Gesù. Quando ero adolescente avevo ricevuto da Chiara un nome nuovo: Viràg di Gesù, cioè Fiore di Gesù, e una parola biblica come programma di vita: «Ama il Signore con tutto il tuo cuore». Non avrei mai pensato che una volta Gesù sarebbe stato il mio “datore di lavoro”!

Viràg Rassay

 

«Sei tu, Signore, che vieni a visitarmi»

Quando al Pronto Soccorso mi è stato detto: «C’è qualcosa al cuore che non va», e mi hanno subito trasportato in autoambulanza all’Unità Coronaria dell’ospedale “Le Molinette”, ho detto a Gesù: «Sei tu, Signore, che vieni a visitarmi»; e gli ho detto il mio sì.

È stato un dono di Dio non aver mai perso la serenità, neanche per un momento. Sentivo che là dove mi trovavo dovevo solo essere “amore” per tutti. Per il vicino di letto che si è dichiarato subito “miscredente”, ma che quando sono stato dimesso mi ha ringraziato per la mia presenza promettendomi, appena potrà uscire, di venire a Messa a Sant’Agostino, nella mia parrocchia. Essere amore per le infermiere e gli infermieri: una di esse, molto distante dalla Chiesa, mi ha confidato le sue gravi difficoltà; così pure per i medici, ecc.

In quei giorni non mi sentivo di pregare con formule, ma cercavo di far diventare preghiera la mia vita, la mia inattività, la mia sofferenza. E offrivo tutto per la Chiesa, per la nuova vita che sta fiorendo tra i sacerdoti della nostra zona, per la comunità parrocchiale, per l’umanità tutta. Cercavo di vivere bene l’attimo presente nella volontà di Dio.

Attraverso questa malattia, che ha prevenuto un infarto, mi pare che il Signore mi abbia voluto dire: «La porzione di vita che ancora ti do, la devi vivere solo perché “tutti siano uno”».

È quanto voglio fare, ricominciando ogni giorno. Sento di dover ringraziare tutti coloro che mi hanno sostenuto con la loro preghiera, mantenendo viva tra noi la presenza di Gesù che ha fatto sì che questi fossero veramente giorni di grazia.

 

Giovanni Coccolo