In cammino verso l’unità

Incontro ecumenico ad Atene

Si è tenuta ad Atene dal 9 al 16 maggio 2005 – per la prima volta in contesto ortodosso – una Conferenza promossa dal Consiglio Ecumenico delle Chiese (CEC) sul tema: “Vieni, Spirito Santo, guarisci e riconcilia! Chiamati in Cristo ad essere comunità di riconciliazione e di guarigione”.

Il CEC, fondato nel 1948, che si può a buon diritto considerare il più importante organismo ecumenico a livello mondiale, riunisce oltre 340 Chiese e Comunità ecclesiali.

La Conferenza si è conclusa, la sera di Pentecoste, con una celebrazione ecumenica finale in un luogo altamente simbolico: l’Areopago, dove San Paolo tenne il famoso discorso agli ateniesi. A circa duemila anni da quel giorno, cristiani di quasi tutte le Chiese e Comunità ecclesiali hanno pregato insieme prima di tornare al proprio Paese.

Riportiamo una parte dell’intervista fatta da Giovanni Giuranna al vescovo Brian Farrell, segretario del Pontificio Consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani, che ha guidato la delegazione cattolica ad Atene.

La Chiesa cattolica non aderisce al Consiglio ecumenico delle Chiese: come mai ha inviato una propria delegazione ufficiale?

È vero, la Chiesa cattolica non fa parte del CEC (in inglese WCC), ma dai tempi del Concilio intrattiene relazioni stabili con questo organismo. Bisogna ricordare che il Pontificio Consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani ha propri rappresentanti a Ginevra e nella Commissione missionaria del WCC, che ha curato l’organizzazione di questa Conferenza. Anche nell’organismo Fede e Costituzione sono presenti dodici teologi cattolici, nominati dal Pontificio Consiglio per l’unità. Per completare il quadro, ricordo che esiste un Gruppo misto di lavoro tra WCC e Chiesa cattolica, che dà continuità alla relazione.

Qual è l’atteggiamento del WCC nei confronti della Chiesa cattolica?

Negli ultimi anni c’è un notevole interesse da parte del WCC verso la Chiesa cattolica. Ma non solo. Come testimonia questa stessa Conferenza, il WCC sta cercando di coinvolgere nelle proprie iniziative il maggior numero di Chiese, comprese le realtà di matrice pentecostale e carismatica.

Quale lo scopo di questa Conferenza, che per otto giorni ha riunito 600 cristiani da ogni parte del mondo?

Non è stata una riunione da cui dovevano scaturire documenti ufficiali. Si è voluto realizzare un incontro fraterno – a livello mondiale – tra Chiese diverse. In questo senso la Conferenza è un appuntamento importante, perché favorisce la conoscenza e lo scambio reciproco, la riflessione pacata, il dialogo.

L’obiettivo è stato raggiunto ad Atene?

Sicuramente. La Conferenza ha offerto  occasioni per incontrare i rappresentanti delle altre Chiese. Inoltre, il luogo scelto per questo appuntamento ha reso possibile un’ampia partecipazione da parte ortodossa.

Il dialogo con gli ortodossi è stato agevolato con questa Conferenza?

La Chiesa Ortodossa di Grecia si è impegnata molto per assicurare il buon andamento della Conferenza. E il fatto che questa si svolga per la prima volta in un paese di tradizione ortodossa non è un semplice dato geografico, ma riveste un valore simbolico, potenzialmente carico di sviluppi. Per di più, l’appuntamento cade in un momento propizio, a poca distanza dal rapporto finale della Commissione speciale sulla partecipazione ortodossa nel WCC, che ha inteso mettere a fuoco alcuni punti controversi.

Ci sono stati scambi informali con le altre delegazioni?

Sì, certamente. All’interno e a margine dei lavori della Conferenza abbiamo avuto molti contatti: con la Chiesa ortodossa greca e con le altre Chiese e organismi, con cui il Pontificio Consiglio per l’unità dei cristiani ha rapporti di studio o collaborazione. Del resto, ogni momento della giornata ha permesso contatti e scambi tra i delegati.

Con quale metodo si sono svolti i lavori?

Rispetto al passato, ci sono state alcune novità. Il tema – Vieni, Spirito Santo, guarisci e riconcilia – non è stato approfondito con relazioni teoriche o sistematiche. Si è preferito un approccio che mettesse in evidenza la dimensione esperienziale, sulla quale poi si è voluto riflettere. Anche gli interventi che si sono succeduti ogni giorno nella tenda delle plenarie, non sono stati lezioni cattedratiche. In più di un’occasione, si è trattato di contributi offerti in forma dialogica, finalizzati ad aprire prospettive più che a giungere a conclusioni condivise da tutti. Inoltre, si è data grande importanza alle cosiddette sinaxeis, cioè ai numerosi laboratori del pomeriggio nei quali sono stati discussi argomenti specifici. La cornice spirituale di questi scambi e approfondimenti è stata la preghiera, soprattutto l’ascolto della Parola di Dio in piccoli gruppi col metodo della Lectio divina.

Una sua valutazione conclusiva…

Questa Conferenza offre la speranza che sulle questioni importanti della missione ci possa essere una convergenza. In un mondo in rapida trasformazione, i cristiani sono obbligati a trovare una risposta comune e non cento risposte diverse in rivalità tra loro. Naturalmente, in una Conferenza con presenze così diversificate, ci si rende conto della complessità del cammino ecumenico. Ma lo Spirito che “guarisce e riconcilia” è capace di trovare la via per far crescere la comunione tra le Chiese.

«Maria: grazia e speranza in Cristo»

Questo il titolo di un recente documento della Commissione internazionale cattolico-anglicana (ARCIC). Attraverso «l’analisi delle comuni credenze dottrinali sulla Beata Vergine» – spiega il testo – la Commissione si è proposta di preparare il terreno per un’interpretazione condivisa dei dogmi mariani dell’Immacolata Concezione e dell’Assunzione di Maria in Cielo, solennemente proclamati dalla Chiesa cattolica nel 1854 e nel 1950, e che da tanti anni hanno diviso, tra gli altri, cattolici e anglicani.

Nel testo vengono affrontate «definizioni dogmatiche che sono parte integrante della fede dei cattolici, ma sono in gran parte estranee a quella degli anglicani». È quanto si legge nell’introduzione dei due co-presidenti dell’ARCIC, mons. Alexander Brunett, arcivescovo cattolico di Seattle, e l’arcivescovo Peter Carnley, Primate della Chiesa anglicana d’Australia. Nonostante le discordanze, il testo afferma comunque che è impossibile essere fedeli alla Scrittura e non prendere seriamente in considerazione Maria. I cattolici e gli anglicani – conclude il documento congiunto – credono che Maria abbia un ministero particolare di intercessione attraverso la sua attiva preghiera.

Questo documento, riconosce, in sostanza, che il culto di Maria, tanto radicato nella tradizione cattolica come in quella ortodossa, non dovrebbe essere motivo di sostanziali divisioni teologiche tra le due Chiese, dato che ha il suo fondamento nelle Scritture e nel cristianesimo delle origini e che quindi può considerarsi parte anche del patrimonio anglicano.

«A conclusione del nostro lavoro – ha dichiarato l’arcivescovo di Seattle, Alexander Brunett – spero sinceramente che questo documento rifletta l’esempio dato da Maria nell’obbedire alla volontà di Dio. Il testo è scaturito dai nostri sforzi di obbedire all’appello, tanto frequentemente espresso dalle nostre rispettive autorità, di ricercare ciò che abbiamo in comune e di celebrare le importanti tradizioni della nostra eredità condivisa».

Prima del documento su Maria, la Commissione aveva pubblicato altre quattro dichiarazioni: sulla Salvezza nel 1987, in cui si esprime un accordo sostanziale sulla dottrina dell’Eucaristia e del ministero sacerdotale; un documento sulla Chiesa come comunione nel 1991, finalizzato a sostanziare la comunione tra anglicani e cattolici; la dichiarazione Vivere in Cristo: la morale, la comunione e la Chiesa nel 1994, ritenuto il più complesso tentativo di ricercare una posizione comune tra le due Chiese sulla morale; infine il documento Il dono dell’autorità del 1998, che ha segnato un notevole progresso sulla questione del ministero petrino.

Questo quinto documento su Maria conclude il secondo ciclo del dialogo teologico cattolico-anglicano a livello internazionale. Il testo però non va considerato come emanazione dell’autorità della Chiesa cattolica e della Comunione anglicana, che si riservano di studiarlo ulteriormente e di valutarlo.

90° anniversario di frère Roger Schutz

Il fondatore della Comunità ecumenica di Taizé, nel mese di maggio di quest’anno, ha compiuto 90 anni.

«Senza fare inutili astinenze, attenetevi alle opere che Dio comanda: portare i fardelli degli altri, accettare le ferite meschine di ogni giorno. Apritevi a tutto quanto è umano e vedrete dissolversi ogni vano desiderio di fuggire dal mondo».

Così Frère Roger, nella regola della Comunità monastica di Taizé, fondata nel 1940 in Francia. Il giovane pastore protestante, Roger Schutz, aveva 25 anni quando dal suo paese natale, Provence in Svizzera – quasi un’oasi in mezzo agli orrori che si consumavano nel resto del Continente – sente forte il richiamo ad essere un segno di riconciliazione tra gli uomini. Così un mattino, inforcata la bicicletta, approda in un remoto villaggio diroccato della Borgogna e acquista una vecchia casa per offrire riparo ai perseguitati, ai poveri, agli oppressi dalla follia degli eventi bellici.

Costretto dalla Gestapo nel 1942 a fuggire, Frère Roger tornerà a Taizé nel 1944. Poi finalmente la pace, in un Europa da riconciliare, come lo stesso priore della Comunità ricorda: «Si viveva un tempo d’inquietudine. Taizé era nata cinque anni prima. Molti si ponevano la domanda: cosa diventerà l’Europa? Oggi è suonata o sta per suonare l’ora dei cristiani nel mezzo di tensioni e contraddizioni forti che scuotono numerosi fedeli. I cristiani possono fare più di quanto non immaginino, perché essi si nutrono dell’essenziale del Cristo, cioè delle fonti della riconciliazione in vista della pace dell’intera famiglia umana».

È proprio l’impostazione ecumenica che caratterizza la comunità di Taizé, la  passione per l’unità che si esprime nella vita comune di ogni giorno. E così i fratelli, in mezzo secolo, diventano un centinaio, di ogni confessione cristiana, di una trentina di Paesi. Alcuni emigrano in missione, per essere testimoni di pace e carità nei luoghi più poveri del mondo.

Ogni anno convengono a Taizé decine di migliaia di persone, soprattutto giovani.

Qual è il segreto di Frère Roger per riuscire nella sua missione? Ce lo rivela lui stesso: «Dal profondo di noi stessi può nascere come un senso di stupore. Quale stupore? Direi che il cuore, con tutte le sue fibre, attende che sia uno stupore d’amore».

a cura della redazione