Riflessioni sull’arte d’amare, a partire da un’esperienza umanitaria in Africa

 

«Aiutalo a crescere nella sua terra»

di Maria Frandini

 

Missioni umanitarie, adozioni a distanza, realtà lontane ed allo stesso tempo così vicine, sempre più influenzano il nostro quotidiano, in una realtà come la nostra in cui attraverso internet e televisione il mondo “entra nelle nostre case”. Ma quanto lasciamo che entri anche nella nostra vita? Pensare in un approccio sistemico, ed ancor più sentire ed agire, significa essere parte di un tutto. Ne parla l’autrice di questi appunti, una givane psicologa che recentemente ha trascorso alcune settimane in Africa.

Qualcuno mi diceva: «Vai!»

Da molti anni speravo di poter partire un giorno per una missione umanitaria. A dicembre mi è stato proposto di recarmi per  tre settimane in Kenya. «Sì!», è stata subito la mia risposta. Appena tornata a casa l’ho detto ai miei genitori con una naturalezza tale che mio padre ha esclamato: «Sembra che ci stai dicendo: “Vado a cena da Eliana (una mia cara amica)!”».

 È difficile spiegare cosa mi ha spinto a lasciare luoghi familiari, volti conosciuti, senza sapere cosa mi aspettasse, con chi sarei partita, cosa avrei fatto... Teorie, spiegazioni logiche, motivazioni interessanti, razionali, oggettivamente accettabili ed a volte – perché no? – anche emotivamente coinvolgenti, giuste o forse no. Non lo so; so solo che dentro di me Qualcuno mi diceva: «Vai!»

Tra i punti che Chiara Lubich sottolinea parlando dell’arte di amare c’è non solo “Amare tutti”, ma anche “Amare per primi”. Amare per primi significa non attendere l’altro, andare verso di lui. L’amore di Gesù è liberante e gratuito. Liberante, perché libera e salva; gratuito, perché ama ciascuno per quello che è, per nessun’altra convenienza.

Nonostante sia partita senza alcuna certezza se non quella di credere ed ascoltare quella voce dentro di me, appena giunta all’aeroporto mi sono resa conto di quanto fosse effettivamente difficile  “amare per primi”.  Immaginavo che con me partisse un gruppo di ragazzi ed invece erano tutte persone adulte ed un gruppo di giovani di una comunità di tossicodipendenti. Fu un impatto un po’ duro.

Più duri però sono stati i primi giorni in Africa. Capire cosa significasse  veramente “amare”, ma soprattutto come potevo amare, non è stato facile. Essendo una psicologa immaginavo che avrei potuto fare qualcosa che riguardasse il mio ambito, ed ancora che sarei stata con i bambini, che li avrei raccolti per strada, che avrei dato loro tutto quello che avevo, ecc.

Non avrei mai immaginato di svegliarmi alle sette del mattino e lavorare fino alle nove della sera piegando ferri. Non capivo quando il responsabile mi diceva di non fare regali agli abitanti del luogo; non capivo perché non prendevamo con noi i bambini che incontravamo per strada e ci chiedevano di venire con noi al villaggio; non capivo perché i bambini che scappavano dal villaggio non potevano più tornare…

I giorni passavano e a poco a poco comprendevo che quei bambini avevano un loro equilibrio, che, seppure per me fosse assurdo, amarli significava rispettarli, perché quello era comunque il loro equilibrio, il loro mondo. Quelli che per me erano tempi e distanze interminabili, erano i loro tempi ed amarli significava anche rispettare i loro tempi…

Situazioni come quelle delle missioni umanitarie ci pongono davanti a noi stessi in maniera molto forte.

Può una caramella guarire le ferite della nostra coscienza? I bambini forse più che di una caramella hanno bisogno di un esempio, di regole; di veder fare; più che di regali e cappellini del ricco che in buona fede si lava la coscienza, hanno bisogno di ferri piegati, cemento, gesti d’amore a modo loro e non a modo nostro.

È difficile capire, accettare la frustrazione, il proprio egoismo; capire cosa e come dare per non rompere un equilibrio così fermamente instabile e allo stesso tempo per creare un nuovo equilibrio, forse migliore.

Amare la diversità

L’Africa mi ha insegnato a distinguere quello che è il mio bisogno di amare da quello che è “amare”.

“Farsi uno”, “amare Gesù nel prossimo”, “amare il prossimo come se stessi”, sono concetti che si collegano a quelli legati al sentire psicologico inteso nella sua vera essenza. Il termine sentire, nella sua accezione tedesca, “Ein-fühl-ung”, significa “sentire l’altro simile a me, come me”, in un processo di “riconoscimento” ed “accettazione” dell’altro. Concetti che sono strettamente legati con la congruenza o la genuinità, il rispetto positivo incondizionato, l’atteggiamento non giudicante e la comprensione empatica di cui parla Rogers.

Amare l’altro significa amarlo nella sua unicità, con le sue differenze. Amare l’altro così com’è e non amarlo per cambiarlo. Il cambiamento non deve essere l’obbiettivo dell’amore, ma una naturale conseguenza di un incontro e così ci rendiamo conto che il cambiamento dell’altro non è il solo: anche dentro di noi qualcosa cambia, benché spesso sia molto più difficile leggerlo.

Lo stesso ricorso alla valutazione può essere considerato un meccanismo di difesa, perché esonera dall’operazione rischiosa e difficile del comprendere. Secondo Rogers, una delle ragioni principali della resistenza a comprendere è la paura del cambiamento: «Se veramente mi permetto di capire un’altra persona posso essere cambiato da quanto comprendo. Tutti abbiamo paura di cambiare».

Capire come amare:
«non sradicare le sue radici»

Capire come amare significa anche accettare un cesto di frutta da chi è oggettivamente più povero di noi, ma con quel gesto vuole avere il diritto e la gioia di poter donare. Capire che la dignità dell’altro vale molto di più di pochi spiccioli.

Per amare l’altro non è sufficiente aiutarlo, ma bisogna aiutarlo ad aiutare (per esempio insegnare a fare il pane, allevare ed uccidere il maiale, coltivare la terra: renderlo indipendente). È da questa idea che nasce il titolo che ho scelto di dare a questo mio intervento: “Non sradicare le sue radici ma aiutalo a crescere nella sua terra”.

Pensare globalmente
 e agire localmente

Gente di passaggio con la pretesa di cambiare il mondo; gente che fugge dai propri problemi con l’ambizione di risolvere i problemi degli altri; gente che probabilmente cambierà il mondo solo se si rende conto dell’importanza di una caramella non data, di un “no” detto col cuore, di un dono negato, di un sorriso semplicemente regalato lavorando…

Eppure a piegare i ferri con me c’è un ragazzo italiano che vive in una comunità di tossicodipendenti, ma che a dispetto della nazionalità aveva vissuto in un furgone, per strada e che sogna di ritornarci a vivere: così lontani e così vicini; così misteriosamente e semplicemente complicati; così liberamente costretti…

L’esperienza con i ragazzi tossicodipendenti mi ha messo di fronte ad una realtà forse ancor più dura, facendomi cogliere l’importanza del “pensare globalmente e agire localmente”.

L’insegnamento più grande

È l’ultimo giorno! Come consuetudine, ad essere protagonisti sono i saluti… Uno dei bimbi del villaggio “San Francesco”, uno dei tanti mi dà l’insegnamento più grande. Il significato tanto cercato era così vicino…

Quanto c’è di orrendo in quest’espressione “uno dei bambini”, “uno di loro”, “uno dei tanti”: espressioni tante volte ripetute, inconsapevolmente usate, modi di dire che cancellano un nome, che ci battezzano con un numero. Lui, un bimbetto  di più o meno otto anni, mi chiede: «Ora che stai andando via ti ricordi il mio nome?». Non lo ricordo! Mi strappa una promessa prima di partire e con essa due occhi lucidi e lacrime che mi cadono dentro... «Mi prometti una cosa?». «Cosa?». «Promettimi che quando sarai in Italia ti ricorderai che mi chiamo Denis… Io pregherò per te!». «Sì, Denis, te lo prometto». È a te che voglio dedicare questi appunti distrattamente scritti, eppure così profondamente scolpiti dentro di me, insieme alla speranza e all’augurio che ognuno possa essere “chiamato per nome” e non essere più uno dei tanti bambini dell’amato continente nero.

Chiamare per nome!

È il primo passo nel riconoscimento dell’altro. Il nome individualizza. Il nome personalizza. Il nome responsabilizza. Il nome dà possibilità di essere chiamati a un dialogo di intimità, affetto, risonanza. Papà e mamma chiamano per nome, gli amici chiamano per nome, tutti gli intimi chiamano per nome, anche Dio ci chiama per nome. Nome che è progetto e programma, identità e missione: Adamo, Eva, Abramo, Mosè, Maria, Gesù, Pietro-Simone...

«Ti ho chiamato per nome» (Is 43, 1). Dio chiama l’uomo. Dio ama e quindi chiama; Dio chiama perché ama.

«D’ora in poi ti chiamerai..., che vuol dire…» (Gv 1, 42).). «I vostri nomi sono scritti nei cieli» (Lc 10, 20). «Tu mi hai detto: Io ti conosco per nome e tu hai trovato grazia ai miei occhi» (Es 33, 12).

Nel mondo biblico chiamare per nome è, quindi, pieno di significato. Il popolo cristiano è il “popolo del nome”.

Un’espressione del libro della Genesi potrebbe essere molto significativa in questo senso: «Allora il Signore Dio plasmò dal suolo ogni sorta di bestie selvatiche e tutti gli uccelli del cielo e li condusse all’uomo, per vedere come li avrebbe chiamati: in qualunque modo l’uomo avesse chiamato ognuno degli esseri viventi, quello doveva essere il suo nome...» (Gn 2, 19). È Dio che crea gli animali della selva e gli uccelli del cielo ma poi li mette davanti all’uomo perché l’uomo se ne prenda cura, individuandoli, chiamandoli per nome.

Il nome che una persona porta non si riduce ad una semplice funzione nominale e indicativa, capace cioè solo di alludere praticamente ad una distinzione di individuo da individuo in una società che per tanti aspetti presenta forti rischi di omologazione e di appiattimento.

Dietro la “spiritualità cristiana del nome”, si cela il mistero irripetibile della persona, in tutta la sua dignità di essere umano unico ed irripetibile.

Scegliere il nome di un bambino che viene al mondo ci appare oggi come un fatto casuale, affidato al gusto dei genitori o, al più, motivato da certe tradizioni familiari.

Comunque, una volta che il nome è stato scelto e assegnato, accade anche per noi una sorta di miracolo: quel piccolo essere esce dall’anonimato, può essere “chiamato”, ci si può rivolgere a lui con determinazione, come se egli avesse finalmente un volto. E quel nome ci diventa caro come colui/colei che lo porta.

Il nome: in una parola
l’essenzialità di una persona

Il nome che una persona porta non è una etichetta imposta casualmente. È una componente essenziale di essa, tanto che si potrebbe dire che l’uomo è composto di anima, corpo e nome (Lévy Bruhl).

Il nome in certo senso è la stessa persona. È l’anima, per chi lo porta, per chi lo pronunzia. Il nome è distintivo: individua, separa, distingue. Ma è anche comunionale; riallaccia, mette in comunicazione. Attraverso di esso ogni soggetto è identificato e distinto, ma anche conosciuto e riconosciuto. Conoscere, pronunziare, ascoltare il nome permette a chi nomina di entrare dentro la personalità dell’altro che è nominato.

Non per nulla di solito dare il nome è unito a un rito ogni volta diverso e complesso, privato o pubblico: cercare, trovare, decidere, scegliere, dare un nome, il nome, quel nome, riceverlo e portarlo, esserne distinto.

Poi il nome resta e accompagna, realtà e simbolo. Avere un nome è avere un mezzo con il quale identificarsi e essere identificati, dirsi a sé e poi essere chiamati per nome. Nome che di volta in volta mentre lo si dice di sé, mentre lo dicono gli altri, raccoglie ed esprime, comunica nel simbolo tutto ciò che uno è, vale, vive.

Il nome “è l’essenzialità ridotta a una parola” (Van der Leeuw). Solo chi ha un nome acquista una personalità. Solo chi conosce il nome e chiama per nome, comunica con intimità. Il nome è simbolo della identità individuale, personale. La identità è dentro il nome, ha un nome. Dire il proprio nome è identificarsi. Dire il nome dell’altro, pronunciarne il nome, è identificarlo, personalizzarlo davanti a sé.

Pensiamo a quanto sia importante il nome nel processo di identità. Vale per tutti, per bambini e adulti. Vale soprattutto per adolescenti e giovani nelle fasi di identificazione, di ricerca, di costruzione di una identità in parte ancora fluida, labile, insicura, aperta, cambiante e complessa, come è la loro. Nome e volto sono quanto del giovane emerge a sé e agli altri. Vi si esprime e vi si nasconde, assume e comunica una identità, sviluppa un discorso ogni volta vario e complesso. A volte dice di sé solo “io” e all’altro solo “tu”. Ma ogni tanto sente il bisogno di rafforzare la comunicazione e aggiunge “io,  Mario, Maria”, o “tu, Aldo, Carla”. Si ha l’impressione che ciò sia necessario per identificare meglio sia la soggettività irriducibile propria e altrui, sia la pienezza attuale e crescente dei contenuti vitali e affettivi. Dire il nome è possedere in pienezza, identificare, entrare dentro quello che all’altro e dell’altro è più caro. Anche a Dio e a Gesù si dà un nome, qualcuno lo dà all’angelo custode, i Santi si invocano con il nome.

Il nome dice la persona

Dare un nome a..., dire il nome di...! Il nome designa la persona. “Uno è come si chiama”. La storia d’ognuno è in qualche modo la storia del nome. Il cognome dice l’appartenenza a un gruppo, il nome segna e dice la individualità, poi la personalità. Attorno al simbolo del nome il giovane vive un processo e progresso di costruzione, cambio, perfezionamento della propria identità. Attorno al proprio nome il giovane gioca alcuni processi importanti. È cosciente di sé, responsabile di fronte a sé e agli altri, protagonista, distinto e appartenente, conosciuto e riconosciuto nella identità irripetibile. Il nome fissa la centralità di un Io personale, stabile e continuo, permanente, soggetto unificatore sotto il fluire delle pur proprie periferie complesse e variabili, esterne e successive. L’impersonalità è sofferta e temuta, l’anonimato dell’uno qualunque, degli elenchi, delle serie, delle massificazioni..., ordinarie nella scuola, nella vita, nella chiesa.

Non si dà il nome solo per chiamare, ma per stabilire e indicare rapporti (diritti e doveri) d’intimità, proprietà, cura, amore, progetto, comunicazione. Il potere sul nome è potere sull’essere, ma potere dell’amore. Presso gli ebrei ognuno era designato come figlio di..., a sua volta figlio di..., fino a figlio di Dio: identità, appartenenza, continuità.

Ricevere donando

Esperienze come quelle che ho potuto vivere in Kenya ci permettono di cogliere l’essenza dello scambio nell’amore, del dare ricevendo… Ero andata con la pretesa del dare, ritorno con la ricchezza che ho ricevuto. 

Mi viene in mente la frase del vangelo di Luca: «Date e vi sarà dato…» Non parlo di un dare materiale, ma di “un dare che va al di là”, che ci libera dai pregiudizi, che ci apre verso l’altro, che ci fa vedere l’altro non come qualcuno da aiutare o qualcuno cui dare né tanto meno qualcuno da cui ricevere. Un dare reciproco che ci fa cogliere la ricchezza della relazione, dell’incontro. Si ha un passaggio da una visione lineare ad una sistemica.

F. Nietzsche dice che «bisogna avere il caos per partorire una stella danzante». Per la prima volta nella mia vita ho bisogno di non fare niente per capire quello che ho fatto; di stare sola per capire quando stavo con gli altri… A primo impatto sembra che quello che si ha non abbia più un significato, ma forse semplicemente ha perso il significato che aveva per assumerne uno diverso, più bello. Quando guarderemo con occhi diversi quello che abbiamo sempre avuto, quello stesso oggetto, quella stessa persona, è allora che forse siamo noi ad essere cambiati; e avremo imparato l’arte di amare…

«Sé come un altro»

È il titolo di un recente volume di Paul Ricoeur, che può aiutarci a riflettere sulla necessità di dialogare con se stessi per crescere nella disponibilità al dialogo con Dio e con l’altro. Non esiste prima il dialogo con sé e dopo il dialogo con Dio, o viceversa; in realtà non si dà l’uno senza l’altro: creati in Cristo Gesù, aprirsi a Lui significa affacciarsi sulla verità di se stessi ed interrogarsi sul senso della propria singolarità; è già un’implicita disponibilità alla novità del Vangelo.

L’espressione di P. Ricoeur è comunque di grande utilità in quanto associa l’esperienza del “sé” con la constatazione di una “alterità interiore”: suggerisce che occorre prendere atto di uno “scarto” all’interno del proprio essere, che è necessario accogliere l’esistenza di una “struttura dialogica” nelle proprie fibre più intime.

Quanto tutto questo può trovare dei riscontri in professioni come le nostre mi piace sintetizzarlo con una frase che mi è stata detta all’inizio della mia formazione personale come terapeuta e del mio “viaggio” in terapia: «non possiamo accompagnare l’altro per una strada che non conosciamo».

Maria Frandini