Notiziario GEN’S n. 36
 
TESTIMONI

sulle vie

del

MONDO

 

È nota l’affermazione di Paolo VI secondo cui «l’uomo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri, o se ascolta i maestri lo fa perché sono dei testimoni» (Evangelii Nuntiandi 41). In realtà, ciò è valido sì per l’attuale situazione socio-culturale, ma è iscritto nello stesso codice genetico, se così si può dire, dei primi apostoli. Quello che li qualifica, secondo il Nuovo Testamento, non è soltanto un incarico, un solenne invio in missione, ma è innanzi tutto il fatto che essi “sono stati con Gesù” (cf Mc 3, 14), uniti con lui nella grande prova e poi testimoni della sua risurrezione. Lo dicono con chiarezza i criteri della scelta di Mattia per sostituire Giuda (cf At 1, 21–22). Ma ovunque negli Atti – come del resto negli scritti giovannei – l’idea della testimonianza è fondamentale, è allo stesso tempo ciò che abilita alla missione ed è l’anima della missione.

Realtà che non può non interrogare chi viene ordinato al ministero, per essere “apostolo” nella Chiesa, nel mondo di oggi. Colpisce il fatto che Gesù, nei suoi discorsi d’addio, non trasmette ai Dodici una serie di raccomandazioni pastorali, ma comanda loro innanzi tutto: «rimanete nel mio amore»; e ancora: «amatevi gli uni gli altri come io ho amato voi» (cf Gv 15, 9. 12). Poste queste premesse, assicurati cioè – per dirlo nei termini dell’ecclesiologia di comunione – il vitale inserimento nel mistero trinitario e la vita di comunione reciproca, il portare frutto, e frutto duraturo (la missione!), è assicurato (cf Gv 15, 6). Successione di priorità che, dopo la Pasqua, emerge nuovamente nella ben nota – e per nulla casuale – triplice domanda a Pietro quale premessa del suo incarico pastorale: «Mi ami tu più di costoro?» (cf Gv 21, 15-17).

Viene in mente un episodio dei nostri giorni. «Nonostante le difficoltà – racconta un seminarista dell’America Latina – lo sforzo di stare ogni momento alla presenza di Dio è stata la nota di fondo di questi giorni. Ho incontrato un signore che non conoscevo, ed egli mi ha detto: “Mi rallegro con lei per il suo modo di guardare. Si sente purezza, serenità”. Da allora cerco di avere un tale sguardo verso tutti. Oggi, quando mi sono nuovamente imbattuto in quel signore, questa volta accompagnato dalla sua famiglia, ancor prima che potessi rivolgergli la parola, mi ha detto: “Incontrare lei significa incontrare un pezzetto di Paradiso”».

Pietro, Giacomo, Giovanni, Andrea, uomini della Galilea. Ed oggi: giovani del Pakistan, del Brasile, dell’Italia e di tanti altri paesi, impegnati in quella medesima avventura, mentre si preparano al ministero sacerdotale, con esperienze come quelle che riportiamo su queste pagine.

 

 

La forza

del

primo passo

 

Un mussulmano fondamentalista

Pakistan. «Prima di entrare in seminario, lavoravo in una fabbrica di bibite, assieme a tanti mussulmani. Un giorno un

fondamentalista che non voleva che un cristiano lavorasse nella stessa fabbrica, ha rotto una bottiglia e l’ha lanciata verso di me, ferendomi in faccia, tanto che porto

tuttora le tracce di quell’incidente. Tempo dopo, è venuto in seminario un focolarino e ci ha parlato della spiritualità dell’unità. Delle sue parole, una frase mi ha colpito in maniera particolare: “Tutto vince l’amore”. Pensando a quanto mi era accaduto,

sembrava difficile crederci. “L’amore potrà vincere anche questa situazione?”, mi sono chiesto. Ho deciso di provarci e con grande amore ho scritto una cartolina a quel mussulmano, dicendo che forse mi ero comportato male e l’avevo provocato, e chiedendo perciò perdono. Tre settimane dopo, egli suonava alla porta della nostra casa. Aveva in mano la mia cartolina. Tutto rosso in faccia per l’emozione, mi chiedeva: “Perché hai scritto questa cosa?”. Intimidito, ho cercato di rispondergli con calma e di farlo sentire a suo agio. “Non era colpa tua, ma mia. Tu sei un bravo cristiano”, ha ribadito. Ed io: “Non sono bravo da solo e neanche tu lo puoi essere da solo, ma insieme possiamo essere bravi”. Da quel momento siamo diventati amici ed ora anche lui condivide l’ideale dell’unità». (A.N.).

 

Dal barbiere

Italia. «Un giorno, assieme ad un altro seminarista che vive la spiritualità

dell’unità, siamo andati a farci tagliare i capelli. Mentre aspettavamo il nostro turno, il barbiere, un uomo di circa 35 anni, ci guardava incuriosito, ed ogni tanto lanciava qualche battuta un pò ambigua. Per non farlo sentire a disagio cerchiamo di “farci uno” con lui ma senza cadere nella

volgarità. Più tardi, mentre mi taglia i

capelli, mi chiede cosa studio, e alla mia risposta impallidisce e comincia a chiederci scusa per le cose poco belle che ci ha detto prima. Continuiamo ad amarlo, dicendogli che non deve preoccuparsi e che non lo

giudichiamo. Ci confida che ha deciso di fare una convenzione con il seminario e di far pagare un euro in meno ai seminaristi. Noi gli promettiamo di fargli pubblicità con i nostri compagni. Nel giro di qualche

settimana numerosi seminaristi vanno da lui. Quando torno per la seconda volta, non

finisce di ringraziarmi, mi chiede di salutare l’amico con cui quella prima volta sono stato da lui e dice che è rimasto colpito da qualcosa di “particolare”. Un terzo incontro e, mentre mi taglia i capelli, inizia a

raccontarmi di sua nonna che è morta

qualche giorno prima. Lo ascolto a fondo ed egli mi confida tutto il suo dolore per questa scomparsa e per quella del padre avvenuta qualche anno fa. Continuo a “farmi uno”. Alla fine gli dico che un giorno avrebbe

rincontrato il papà e la nonna. E lui: “Sai, pensavo che i preti portano solo filosofie. Le tue parole mi sono scese nell’anima, non so perché ma provo una grande gioia”. In realtà, io avevo detto ben poco, penso che a scuoterlo è stato soprattutto il profondo ascolto. Da quel giorno, ogni volta che ci incontriamo è una festa!». (A.T.)

 

Messaggio per la Quaresima

Brasile. «Vi è più gioia nel dare che nel ricevere (At 20, 35). È l’invito che Giovanni Paolo II ha rivolto a tutta la Chiesa per questa Quaresima. Volendo metterlo in pratica, ho deciso di dare uno sguardo al mio guardaroba, per vedere se non c’era qualcosa di superfluo che poteva servire a qualche fratello nel bisogno. Mentre passavo in rassegna i vestiti superflui, sono capitati da me alcuni compagni. Mi chiedevano che cosa stessi facendo. E allora li ho messi al corrente. In seguito, due di loro hanno fatto altrettanto. In totale, sono stati cinque

sacchetti di vestiti e scarpe che abbiamo destinato ai poveri. Ora, ogni volta che apro il mio armadio, sento una grande gioia». (J.N.S.)

Dalla stessa diocesi ci scrive un diacono: «Assieme al parroco, nella comunità in cui lavoro, abbiamo invitato la gente a mettere in comune quanto loro avanza, per venire in aiuto alla parrocchia vicina dove vivono molte persone che non hanno casa ed a volte neppure il necessario per mangiare. La risposta ha superato ogni previsione, con mille piccoli fatterelli. Una signora ci ha detto: “In casa siamo solo mio marito ed io. Abbiamo due caffettiere, ma ce ne serve solo una. Ecco l’altra da mettere in comunione!”. Ed un’altra: “È con questa macchina da cucire che ho guadagnato la vita ed ho dato da mangiare ai miei figli. Ora loro sono ben inseriti nella società e non ho più bisogno della macchina. Ho pensato che potrà essere utile ad altri”. Vedendo come il parroco ed io

raccoglievamo il superfluo dalle nostre stanze, ha voluto fare qualche cosa anche la signora che ci prepara da mangiare, piuttosto povera, e ci ha portato un frigo che aveva in casa sua. Abbiamo realizzato su tutto questo un clip audiovisivo di 4’ su CD e l’abbiamo fatto vedere mercoledì scorso a tutte le persone che in sette orari diversi sono venute per la novena alla Madonna del perpetuo soccorso (sono ca. 600 persone ogni volta). Sono rimaste entusiaste, e così questa corrente di comunione tocca sempre più i cuori di tutti». (M.S.)

 

 

 

Sete d’autenticità

 

Si ripete spesso, oggi, che il nostro secolo ha sete di autenticità. Soprattutto a proposito dei giovani, si afferma che hanno orrore del fittizio, del falso, e ricercano sopra ogni cosa la verità e la trasparenza.

Questi segni dei tempi dovrebbero trovarci all’erta. Tacitamente o con alte grida, ma sempre con forza, ci domandano: Credete veramente a quello che annunziate? Vivete quello che credete? Predicate veramente quello che vivete? La testimonianza della vita è divenuta più che mai una condizione essenziale per l’efficacia profonda della predicazione. Per questo motivo, eccoci responsabili, fino ad un certo punto, della riuscita del vangelo che proclamiamo. (…)

Il mondo, che nonostante innumerevoli segni di rifiuto di Dio, paradossalmente lo cerca attraverso vie inaspettate e ne sente dolorosamente il bisogno, reclama evangelizzatori che gli parlino di un Dio, che essi conoscano e che sia a loro familiare, come se vedessero l’Invisibile. Il mondo esige e si aspetta da noi semplicità di vita, spirito di preghiera, carità verso tutti e specialmente verso i piccoli e i poveri, ubbidienza e umiltà, distacco da noi stessi e rinuncia. Senza questo contrassegno di santità, la nostra parola difficilmente si aprirà la strada nel cuore dell’uomo del nostro tempo, ma rischia di essere vana e infeconda.

(Evangelii Nuntiandi 76)

 

 

Carissimi diaconi

 

Ci è giunta questa lettera di un sacerdote brasiliano, rivolta ad alcuni seminaristi dell’arcidiocesi di San Paolo (Brasile), all’indomani della loro ordinazione diaconale. La riportiamo qui perché ci sembra che rispecchi bene l’essenziale di quel momento.

 

Carissimi fratelli diaconi,

di ritorno dalla vostra ordinazione, non posso non condividere con voi la grande gioia che provo e che mi pare un po’ di quella gioia che è uno dei frutti dello Spirito Santo.

All’arrivo alla cattedrale, la vostra accoglienza… Colpiva il fatto che vi eravate recati con anticipo sul posto per salutare con tanta serenità quanti venivano. Ciò ha dato a questa festa un senso di “casa”, di “famiglia”.

La celebrazione, nella sua semplicità, ha fatto trasparire Dio. Alla fine veniva da dire al vescovo ausiliare e ad alcuni sacerdoti: «Niente e nessuno ha preso il posto di Dio». E loro acconsentivano. In tutto veniva glorificato solo Lui: nell’armonia dei canti ai quali ha potuto partecipare tutta l’Assemblea, nella sobrietà della decorazione, nell’atteggiamento e nelle espressioni di voi, del cardinale, dei sacerdoti e seminaristi, del popolo. Tutto parlava di Dio. Tutto era grazia.

Un momento molto alto e toccante è stato quando avete fatto la promessa d’obbedienza. Dal posto in cui mi trovavo potevo vedere come lo sguardo del cardinale si incrociava con lo sguardo di ciascuno di voi. Più che una domanda ed una risposta, pareva Gesù che vi guardava e vi amava, così come aveva fatto con il “giovane ricco”, e vi invitava a lasciare anche voi ogni cosa. E voi avete risposto, dicendo: “Prometto”, con un sorriso che sembrava l’espressione naturale della libertà soprannaturale di chi sceglie solo Dio. Nient’altro. Nessun’altro.

Poi, il silenzio durante la prostrazione e l’imposizione delle mani, anch’esso sacro. Sentivamo che una goccia (o una cascata?) di Cielo scendeva sull’anima vostra. E su quella di tutti noi. Tutto grazia!

Dopo il semplice e conciso ringraziamento fatto da uno di voi, è stato bello il vostro gesto di andare uniti, come un corpo, a ringraziare la gente. In quel momento dentro di me è nata una certezza: «Questi fratelli si sono fatti veramente poveri». Poveri di tutto per avere solo Dio come ricchezza.

Alla fine i volti dei presenti esprimevano quella gioia che il mondo non sa dare. Poche volte ho trovato una gioia così adamantina nelle persone che partecipavano ad un’ordinazione. Gioia soprannaturale che può suscitare solo chi sta in Dio.

Ma da dove è venuto tutto ciò? Ricordo ancora come avete conversato per ore, per decidere insieme i passi da fare per preparare bene la celebrazione. Uno comunicava un’idea, un altro la completava. Anzi, avete lasciato che anche altri partecipassero a questa “dinamica”. E ricordo la vostra prontezza al servizio, a dare la vita per il fratello. Sono convinto che questo essere fra voi “un cuor solo e un’anima sola”, e quindi espressione dell’unità trinitaria, è stato il segreto della presenza di Dio che noi tutti abbiamo sperimentato.

Un grazie di cuore! Voglio proseguire assieme a voi nel cammino della santità, per diventare “sacerdoti mariani”. Come Maria, in Dio, santi e servitori. Costruttori di quella Chiesa-comunione alla quale Giovanni Paolo II ci chiama. (R.P.)