Spiritualità ecumenica

 

Bisogna «bandire dal vocabolario ecumenico parole come crisi, ritardi, lentezze, immobilismo, compromessi» ed «assumere come parole chiave per questo tempo nuovo quelle di fiducia, pazienza, costanza, dialogo, speranza». È l’invito formulato dal Papa nel Messaggio che egli ha indirizzato nel novembre 2001 al card. Walter Kasper, in occasione della Plenaria del Pontificio Consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani (cf Gen’s 1/2002, pp. 31-33).

La domanda che tanti si fanno è se, pur con le migliori intenzioni, sia possibile un tale atteggiamento di fronte alle difficoltà enormi che, dopo lo slancio iniziale, affronta il cammino ecumenico e che spesso sembrano insuperabili.

Una risposta positiva appare possibile soltanto se – come ha detto Giovanni Paolo II nella conclusione della visita in Vaticano del Patriarca Teoctist della Chiesa ortodossa della Romania – siamo capaci di «superare con coraggio le nostre pigrizie e ristrettezze di cuore» e se ci impegniamo quindi a «coltivare la spiritualità di comunione».

Cosa implica però nella pratica una “spiritualità di comunione”?

Poche volte lo si vede così ben descritto come nella Novo millennio ineunte: «Spiritualità della comunione significa innanzitutto sguardo del cuore portato sul mistero della Trinità che abita in noi, e la cui luce va colta anche sul volto dei fratelli che ci stanno accanto. Spiritualità della comunione significa inoltre capacità di sentire il fratello di fede nell’unità profonda del Corpo mistico, dunque, come “uno che mi appartiene”, per saper condividere le sue gioie e le sue sofferenze, per intuire i suoi desideri e prendersi cura dei suoi bisogni, per offrirgli una vera e profonda amicizia. Spiritualità della comunione è pure capacità di vedere innanzitutto ciò che di positivo c’è nell’altro, per accoglierlo e valorizzarlo come dono di Dio: un “dono per me”, oltre che per il fratello che lo ha direttamente ricevuto. Spiritualità della comunione è infine saper “fare spazio” al fratello, portando “i pesi gli uni degli altri” (Gal 6, 2) e respingendo le tentazioni egoistiche che continuamente ci insidiano» (n. 43).

Oggi sono numerosi i teologi e le personalità di primo piano che parlano della necessità imprescindibile di una spiritualità di questo tipo affinché l’ecumenismo trovi le strade per andare avanti. Affermano il bisogno di un ecumenismo “della vita” che, tra l’altro, sappia fare del confronto delle diversità non motivo di scontro ma di uno “scambio di doni”. Si riconosce la “fraternità ritrovata” come il frutto più importante dei dialoghi ecumenici (cf Ut unum sint, 41), ma anche come condizione affinché il dialogo sia possibile e fruttuoso, perché senza un clima di profonda amicizia e spiritualità le discussioni servono a ben poco: sempre infatti è possibile trovare argomenti per controbattere quelli altrui. Inoltre, si ricorda spesso che già lo stesso Concilio Vaticano II promuoveva un ecumenismo di tutto il popolo di Dio: «La cura di ristabilire l’unione riguarda tutta la Chiesa, sia i fedeli che i pastori, e ognuno secondo la propria capacità, tanto nella vita cristiana di ogni giorno quanto negli studi» (Unitatis Redintegratio, 5). Non solo: si riconosce che senza la croce l’ecumenismo sarebbe una velleità: «La comunità ecumenica non nasce da una visione umana, ma dalla croce… La Chiesa che è nata “sotto la croce”, rinasce “sotto la croce”» (J. Moltmann).

Con questi rapidi cenni vogliamo rilevare che ormai certe idee, l’esigenza di certe realtà di fondo, non mancano, anzi, pian piano crescono nelle Chiese. Come tra l’altro si avverte nella Charta Oecumenica europea, documento “pioneristico”, al quale diamo particolare spazio in questo numero.

 Quello di cui piuttosto si avverte normalmente la mancanza è il “come” metterle in pratica. Sono necessari esperti nella fraternità, nell’esperienza di realizzare concretamente nella Chiesa il suo aspetto di “famiglia” di Dio, nel creare le condizioni che rendono possibile quell’unità trinitaria che Gesù ha chiesto al Padre.

È molto significativo a questo proposito che Giovanni Paolo II, nel discorso conclusivo al Sinodo della diocesi di Roma, abbia parlato della necessità di “scuole di ecclesiologia di comunione”. Scuole, s’intende, non soltanto teoriche, che parlino in modo adeguato della teologia della communio e delle auspicabili strutture di comunione, ma che trasmettano allo stesso tempo quella vita capace di incarnarle.

Chiara Lubich, oltre che per gli accenti propri ed originali del suo pensiero, ha un enorme seguito ed incidenza anche perché percorre il mondo seminando questa realtà tipica del genio femmenile e della caratteristica “mariana” del suo carisma, suscitando cioè la comunione vissuta, pure in ambito ecumenico. Il materiale che offriamo nel presente numero ne è un’ennesima conferma.

Ad esso vogliamo soltanto premettere, a mo’ di chiave di lettura, un paragrafo di una delle sue risposte nella conferenza stampa durante il recente viaggio a Ginevra di cui si rende ampiamente conto in queste pagine: «Prima di tutto, prima di ogni lavoro, prima di ogni viaggio, prima di rivendicare qualche cosa, prima di tutto: il mutuo amore, assicurarsi di essere uno, di essere pronti a dare la vita l’uno per l’altro. È questa la sintesi del Vangelo, è questa la vera spiritualità di comunione».

E. C.