Dialogo interreligioso

Intervista di Leandro Fanlo a Natalia Dallapiccola

 

Natalia Dallapiccola è una delle prime focolarine. Per molti anni ha diffuso la spiritualità del Movimento dei focolari nella ex Germania dell’Est e attualmente è incaricata al Centro del Movimento per il dialogo interreligioso.

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Sono attualmente poche le parrocchie rimaste con una popolazione omogenea e con un’unica fede religiosa.  I fenomeni dell’immigrazione, della mobilità della popolazione, dell’urbanizzazione, del turismo ed altri ancora stanno creando una società pluralistica dove le varie culture e religioni si trovano a convivere. Nasce di conseguenza l’impegno per la parrocchia di offrire ai cristiani, che ne fanno parte, gli elementi per saper dialogare anche con persone di altre fedi. Può essere per questo di aiuto l’esperienza fatta dal Movimento dei focolari. Vuoi dirci quali sono le caratteristiche tipiche del dialogo interreligioso portato avanti dal Movimento?

Il nostro dialogo interreligioso si è sviluppato secondo le quattro forme descritte nel documento1 della Chiesa, fondamentale a questo riguardo: dialogo della vita, dell’esperienza religiosa, di esperti e delle opere.

È un dialogo che trova proprio nella spiritualità dell’unità la sua ragione d’essere e la sua spinta vitale.

Ecco un po’ di storia.  Molte sono state, fin dall’inizio del Movimento, le occasioni d’incontro con fratelli e sorelle di altre fedi.  Però l’esperienza in certo modo fondante che ci ha fatto scoprire la connaturalità col suo carisma è stata l’avvenimento del Premio Templeton ricevuto da Chiara nel 1977 a Londra.  Nel suo discorso di accettazione del Premio, di fronte a molti rappresentanti di altre religioni, Chiara fece un esplicito riferimento a queste religioni, citando con grande stima i loro maestri spirituali e parlando dei nostri primi passi in questo dialogo.

L’accoglienza, specialmente da parte dei non cristiani presenti in quell’occasione – ebrei, buddisti, sikhs, ed altri – fu calda e spontanea.  Chiara intuì da questa circostanza che il nostro spirito, il nostro amore, il nostro stile di vita era condiviso anche dai fedeli di altre religioni.

Due anni dopo, nel 1979, Chiara incontrò a Roma Nikkyo Niwano, fondatore di un movimento buddista del Giappone, la Rissho Kosei-kai, che conta sei milioni di membri. Questi nel 1981 invitò Chiara a Tokyo per donare la sua esperienza cristiana davanti a 12.000 buddisti. Fu un inizio storico.

È difficile riassumere ciò che poi è accaduto in 25 anni di dialogo, prima con questi buddisti della Rissho Kosei-kai, poi con i buddisti in Tailandia, con gli ebrei in Sud America, con i musulmani negli USA e con gli indù in India.

Sono ora circa 30.000 i fedeli di altre religioni che condividono, come è loro possibile, la spiritualità e gli scopi del nostro Movimento.

Ci si potrebbe domandare quale sia la chiave del nostro dialogo e come mai abbia avuto una evoluzione così rapida e feconda. Dopo anni di esperienze si potrebbe rispondere che l’elemento decisivo e caratteristico è la centralità dell’amore nella spiritualità del Movimento che trova un’eco spontanea e immediata nelle altre religioni e culture.  Ciò che i fedeli di altre religioni si aspettano da noi è soprattutto una testimonianza concreta di questo amore attinto direttamente dal Vangelo, che tutti accolgono quasi fosse la risposta alla connaturale vocazione all’amore di ogni essere umano.

Impressiona sempre come Chiara Lubich  sa “farsi uno” con i gruppi delle varie religioni con cui dialoga, cercando di conoscere la loro cultura, di scoprire e mettere in rilievo i “semi del Verbo” in esse contenuti. “Farsi uno”. Che cosa significano e cosa esigono queste due parole così importanti per il dialogo?

C’è un’arte di cui il mondo attuale ha un estremo bisogno: l’arte di amare. Un grande psicologo del nostro tempo dice: «La nostra civiltà molto raramente cerca d’imparare l’arte di amare e, nonostante la disperata ricerca di amore, tutto il resto è considerato più importante…»2.

Chiara ha riassunto in alcuni punti quest’arte d’amare, che sono condivisibili da tutte le tradizioni religiose. Uno di questi punti è appunto farsi uno.

Farsi uno con gli altri significa far propri i loro pesi, i loro pensieri, le loro sofferenze, le loro gioie. È quello che domandava san Paolo, quando diceva di farsi tutto a tutti.

Il farsi uno vale anzitutto nel dialogo interreligioso.  È stato scritto: «Conoscere la religione dell’altro implica entrare nella pelle dell’altro, vedere il mondo come l’altro lo vede, penetrare nel senso che ha per l’altro essere buddista, musulmano, indù, ecc.»3.

Farsi uno non è solo atteggiamento di benevolenza, di apertura, di simpatia, di stima e di rispetto. Farsi uno è tutto questo e qualcosa di più.

Questa pratica di farsi uno con gli altri, dice ancora Chiara, «non è una cosa semplice.  Essa esige il vuoto completo di noi: togliere dalla nostra testa le idee, dal cuore gli affetti, dalla volontà ogni cosa per immedesimarci con gli altri»4.

Per farsi uno occorre annientarsi per amore di Gesù crocifisso e abbandonato.

Questo vivere l’altro abbraccia tutti gli aspetti della vita ed è la massima espressione dell’amore perché vivendo così si è morti a se stessi, al proprio io e ad ogni attaccamento; si può realizzare quel nulla di sé che, come ha detto Chiara, ha un fascino tutto particolare proprio sui fedeli delle altre religioni.

Dunque non è tanto il parlare della croce, quanto il morire a se stessi, per farsi uno con gli altri, che dà testimonianza e colpisce.

Farsi uno, in queste due semplici parole sta il segreto di quel dialogo che può generare l’unità.  Tutto nasce da un amore che è pronto ad affrontare fallimenti e chiusure, dove si ricerca sinceramente ciò che ci unisce e dove è certamente all’opera lo Spirito Santo, il quale solo fa sì che "tutti siano uno".  È quel dialogo di cui Giovanni Paolo II ha parlato a Madras, durante il suo viaggio in India: «Il frutto del dialogo è l’unione fra gli uomini e l’unione degli uomini con Dio...  Attraverso il dialogo facciamo in modo che Dio sia presente in mezzo a noi, perché mentre ci apriamo l’un l’altro nel dialogo, ci apriamo anche a Dio»5.

Partendo per l’India Chiara  ha detto che andava anzitutto per "ascoltare".  È stato importante questo atteggiamento?  Quali i vantaggi e i frutti?

Andando in India Chiara ha voluto soprattutto ascoltare i nostri fratelli e sorelle indù, per conoscere i loro principi, la loro cultura, quindi fare il vuoto, accoglierli.

In quella occasione lei diceva in un’intervista alla Radio Vaticana: «Dialogare significa pure ascoltare ciò che l’altro ha in cuore, aprirsi del tutto…  Spostare tutto per poter entrare nell’altro. Dopo, naturalmente, chiedere anche all’altro di ascoltare noi. Si colgono così quegli elementi comuni che si hanno e, nel caso del dialogo che noi portiamo avanti, si può metterci d’accordo di viverli insieme.  Questo dialogo realizza la fratellanza universale, per la quale vogliamo agire».

Riporto l’impressione di un professore indù dopo l’incontro a Bombay: «Chiara Lubich ha riassunto in modo eccellente l’intero pensiero di questo paese, elaborato nel corso dei secoli. Noi crediamo nell’unità e nella diversità delle religioni e delle culture, ma il concetto che sottostà a tutto è l’unità e la fratellanza universale. Il suo messaggio sarà molto apprezzato dalle masse di questo Paese».

Può apparire sorprendente che si sia potuto dire questo di lei dopo così poco tempo di permanenza in quel grande Paese. Ciò può essere spiegato come conseguenza di quel suo atteggiamento di amore e di profondo ascolto nei riguardi della cultura, tradizioni e religiosità di questo popolo.

Nell’ultimo incontro d’Assisi fra le religioni per la pace, sia il Papa, sia il Patriarca Bartolomeo, sia Chiara stessa hanno accennato alla "regola d’oro" come elemento fondamentale per il dialogo interreligioso. Che cosa richiede da parte nostra perché diventi elemento di dialogo?

La regola d’oro è un altro punto dell’arte d’amare. Essa viene recepita come un elemento proprio e connaturale dai credenti delle fedi più diverse perché è iscritta nel loro DNA: amare gli altri come se stessi, fare agli altri quello che vorresti fosse fatto a te, non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te (cf Lc 6,31).  Questa regola, se vissuta, basterebbe da sola per fare di tutto il mondo una grande famiglia.

Nell’ebraismo, ad esempio, e nella ricca tradizione rabbinica, l’amore del prossimo è detto addirittura «il grande principio della Torah» (Rabbi Akiba), perché avendo Dio creato l’essere umano a sua immagine, ciò che è fatto a qualsiasi persona è come se fosse fatto a Dio stesso.

Nella tradizione islamica incontriamo una “regola d’oro” che riguarda addirittura il cuore dell’Islam: «Nessuno di voi è vero credente se non desidera per il fratello ciò che desidera per se stesso»6. 

Nell’induismo la “regola d’oro” è espressa così: «Questa è la sostanza del dovere, non fare agli altri ciò che a te farebbe del male» (Mahabharata).

E come non ricordare la toccante espressione di Gandhi: «Io e te siamo una sola cosa. Non posso ferirti senza fare del male a me stesso»7?

Allora noi diciamo ai fratelli di altre religioni: dobbiamo amare, dobbiamo amarci, trattarci come fratelli. Insieme possiamo lavorare alla fraternità universale.  E loro sono d’accordo, direi affascinati.

Per quanto riguarda noi cristiani, avvertiamo che Dio vuole che perfezioniamo l’amore, ogni giorno. A volte è faticoso ed estenuante, ma è sempre vitale e fecondo.

Un esempio. In Tailandia siamo entrati in contatto con vari monaci buddisti.  Due di loro sono stati ospiti nella nostra cittadella di Loppiano, vicino a Firenze.  Lì hanno visto l’amore fraterno vissuto ed hanno capito che il cristianesimo è la religione dell’amore, e che la morte di Gesù sulla croce, vista dalla loro cultura come simbolo crudele, è in realtà la più alta manifestazione d’amore.

Il Santo Padre ha parlato di “rispettoso annuncio”. Come conciliare il dovere dell’evangelizzazione secondo il mandato di Gesù: «Andate e predicate il Vangelo a tutte le genti» col rispetto delle altre convinzioni religiose? Avete nel Movimento qualche esempio da presentare?

Gli amici di altre religioni a contatto con la nostra spiritualità approfondiscono la loro fede, scoprono quelle verità che  ci sono comuni, presenti nella loro tradizione, e si crea una profonda intesa fra di noi.

Ogni mese noi cristiani del Movimento viviamo la Parola di vita, cioè una frase biblica; i nostri amici musulmani cercano nei loro libri sacri qualcosa di simile da vivere insieme a noi.

Perciò il nostro stile di dialogo è anche annuncio, evangelizzazione, perché con amore offriamo la nostra esperienza di vita cristiana che veicola le verità della nostra fede, e c’è un sincero apprezzamento per quei semi di Verità che sono sparsi abbondantemente in queste religioni.

È un “rispettoso annuncio”, come ha detto appunto recentemente il Papa e come ce l’ha ampiamente spiegato Chiara in questo congresso.

In tale senso è molto significativa la testimonianza di una dottoressa indù in stretto contatto col Movimento. In un incontro con Chiara svoltosi in un’università di Bombay ha dato la sua esperienza di medico, il cui motivo ispiratore è l’amore evangelico che ha trasformato la sua vita. «Noi parliamo di reincarnazione – ha detto – ma, vivendo la spiritualità di Chiara, ho imparato che ogni volta che amo, muoio e rinasco».

Una professoressa indù ci ha sorpresi con una singolare intuizione: «Penso – diceva alla fine di un colloquio con Chiara – che sia Lei, Maria, che sta operando. Per fare le ghirlande di fiori occorre un filo che li lega tutti, così Maria sta legando tutti questi fiori».

 

1)     Segretariato per i non cristiani: L’atteggiamento della Chiesa di fronte ai seguaci di altre religioni. EV 9 (1983-85), pp. 938-940. 

2)     E. Fromm, L’arte di amare, Il saggiatore, Milano 1971, p. 18.

3)     Cf F. Whaling, Christian Theology and World Religions: A Global Approach, Londra 1986, pp. 130-131. 

4)     C. Lubich, L’unità e Gesù abbandonato, Città Nuova, Roma 1984, p.35.

5)     Il dialogo interreligioso nel Magistero Pontificio, Libreria Editrice Vaticana 1994, p. 385.

6)     Hadith 13, secondo Al-Bukhari.

7)     Cf W. Mühs, Parole del cuore. 365 pensieri sull’amore, San Paolo, Milano 1996, p. 82.