La via del dialogo all’alba del terzo millennio

di Piero Coda

 

Il teologo Piero Coda, è professore alla Pontificia Università Lateranense, dove insegna teologia trinitaria. Egli ci presenta il cammino percorso dalla Chiesa cattolica sulla via dei quattro dialoghi dal Concilio Vaticano II ad oggi.

 

Bruciano nel nostro cuore la piaga aperta dalla tragedia dell’11 settembre e quella, tuttora viva, della Palestina: segno drammatico delle gravi crisi che travagliano il nostro mondo.

Eppure, l’umanità è incamminata verso l’unità. Lo dicono i segni dei tempi, lo indica la coscienza della Chiesa, lo illuminano gli impulsi profetici dello Spirito.

E per questo il Papa invita: «duc in altum! – prendi il largo!».

Ma come, per quale via, la Chiesa di Gesù è chiamata oggi a prendere il largo, come un veliero con le vele gonfiate dal soffio dello Spirito che abbandona il porto sicuro e affronta, fidando nell’aiuto di Dio, il mare aperto?

C’è una via che lo Spirito ha indicato attraverso il Concilio Vaticano II: la via del dialogo.

 L’insegnamento del Concilio – l’ha ribadito Giovanni Paolo II nella Novo millennio ineunte – è “la sicura bussola” per intraprendere con coraggio e speranza, fedeltà e fantasia, la via del dialogo universale.

Cos’è il dialogo          
per la Chiesa

Cosa ci dicono, a proposito della Chiesa e del dialogo, il Vaticano II e i Papi, Paolo VI e Giovanni Paolo II, che ne hanno attualizzato l’insegnamento per attrezzare il Popolo di Dio al grande compito che l’attende in questo nuovo secolo?

Il Concilio invita i cristiani ad avere uno sguardo nuovo sull’identità e sulla missione della Chiesa. Avverte lucidamente che siamo all’inizio di un’epoca nuova.

Con poche e dense parole, in esordio della Costituzione sulla Chiesa, la Lumen gentium, definisce così la Chiesa: essa è «in Cristo il sacramento, e cioè il segno e lo strumento, dell’intima unione con Dio e dell’unità del genere umano» (n.1).

L’unità, dunque, definisce l’identità della Chiesa: come realtà in cui, grazie a Gesù, si vive l’unità in Dio, che è Padre, tra gli esseri umani che sono tutti fratelli. Ma l’unità definisce anche la missione della Chiesa: inviata per chiamare all’unità, in Gesù, tutti i figli di Dio che sono dispersi (cf Gv 11, 51-52).

Se questa è l’identità della Chiesa: l’unità; se questa è la missione della Chiesa: l’unità , la via per realizzare l’una e l’altra è il dialogo.

Con una parola di sapore profetico, Paolo VI, nella sua prima enciclica, l’Ecclesiam suam, scrive: «Vi è un atteggiamento che la Chiesa cattolica deve assumere in quest’ora della storia del mondo… Andate e ammaestrate tutte le genti: è questo l’estremo mandato di Cristo. Noi diamo a questo interiore impulso di carità il nome di dialogo… La Chiesa deve venire a dialogo col mondo in cui si trova a vivere… La Chiesa si fa parola; la Chiesa si fa messaggio; la Chiesa si fa colloquio» (nn. 60, 66, 67).

Il dialogo viene da lontano. La Chiesa lo impara da Dio, da come Dio s’è messo in comunicazione con noi per offrirci la sua stessa vita: mediante la rivelazione di Sé – insegna il Concilio – «Dio nel suo grande amore parla agli uomini come ad amici, per invitarli e suscitare la comunione con Sé» (DV 2).

 In fedeltà al magistero del Concilio, Paolo VI e Giovanni Paolo II hanno illustrato, con la chiarezza della parola e la forza dei gesti, che cosa significa concretamente il dialogo per la Chiesa, e quali sono i modi e gli strumenti per realizzarlo.

Hanno così esplicitato i quattro cerchi concentrici in cui tale dialogo va sviluppato: quello tra i cattolici; quello tra i cristiani delle diverse Chiese e Comunità ecclesiali; quello con i membri delle altre religioni; quello con tutte le persone che cercano la verità e il bene.

Il dialogo tra cattolici

I primi due cerchi riguardano la costruzione dell’identità della Chiesa come Gesù l’ha pensata e voluta: comunità che vive nel mondo come un sol corpo dalle molte membra, testimone dell’amore di Dio.

Da qui il dialogo tra i membri della Chiesa cattolica, e cioè tra le varie vocazioni, i diversi ministeri, i differenti carismi; tra i laici, i presbiteri e i religiosi; tra il Papa e i vescovi; tra i vescovi, i presbiteri e l’intero Popolo di Dio; tra le Associazioni e i Movimenti ecclesiali.

Realizzare la comunione tra tutte le membra del Corpo di Cristo diventa possibile vivendo una spiritualità di comunione: imparando cioè l’arte bella ed esigente del dialogo.

Il che significa – scrive Giovanni
Paolo II nella Novo millennio ineunte – «capacità di sentire il fratello di fede nell’unità profonda del Corpo mistico come uno che mi appartiene, per saper condividere le sue gioie e le sue sofferenze, per intuire i suoi desideri e prendersi cura dei suoi bisogni, per offrirgli una vera e profonda amicizia… capacità di vedere innanzi tutto ciò che c’è di positivo nell’altro, per accoglierlo e valorizzarlo come dono di Dio: un dono per me, oltre che per il fratello che lo ha ricevuto… saper fare spazio al fratello, portando i pesi gli uni degli altri e respingendo le tentazioni egoistiche che continuamente ci insidiano e generano competizione, carrierismo, diffidenza, gelosie…» (n. 43).

La giornata di Pentecoste del ’98, che ha visto radunarsi in piazza San Pietro un’innumerevole folla d’appartenenti alle nuove realtà ecclesiali suscitate oggi dallo Spirito, forse come nessun altro evento dopo il Concilio ha manifestato agli occhi della Chiesa e del mondo – cito Giovanni Paolo II – «la bellezza di questo volto pluriforme della Chiesa… un’icona appena abbozzata del futuro che lo Spirito ci prepara» (ibid., n. 40).

Il dialogo ecumenico

Ma anche il dialogo ecumenico tra i cristiani delle diverse Chiese, dopo il Concilio, non possiamo più intenderlo né come qualcosa che tocca dal di fuori le nostre 

comunità, né come qualcosa di accessorio nella loro vita.

No. Tutti i credenti in Cristo, per la fede e il battesimo sono già uno in Cristo, anche se non perfettamente, e appartengono al suo Corpo che è la Chiesa, la quale è e resta una – nonostante le incomprensioni anche drammatiche tra i cristiani.

Per questo – amava dire Giovanni XXIII – tra cristiani è più ciò che ci unisce di ciò che ci divide. Occorre dunque vivere l’amore reciproco tra noi, affinché Gesù stesso – scrive Giovanni Paolo II nella Ut unum sint – si faccia «realmente presente» in mezzo a noi, e c’illumini sui passi da compiere per giungere alla piena unità (cf n. 22).

D’altra parte – ed è sempre il Papa ad affermarlo – Dio è capace di «scrivere dritto sulle righe storte» e può essere che gli errori del passato si trasformino oggi, liberati dalle loro unilateralità, in possibilità di mettere in comune i tesori della fede che ciascuna Chiesa, in questi secoli di separazione, ha potuto scoprire e penetrare1.

In ogni caso, i grandi gesti di riconciliazione vissuti da Paolo VI e Giovanni Paolo II coi capi delle altre Chiese – come non ricordare l’abbraccio di pace, a Gerusalemme, tra Paolo VI e il Patriarca di Costantinopoli Athenagoras I? – e il frutto dei dialoghi teologici debbono oggi trovare conferma e sviluppo in un ecumenismo che sia sempre più evento di popolo.

Il dialogo interreligioso

Tra i diversi cerchi del dialogo è però, forse, quello tra la Chiesa e le religioni che più ci ha stupito.

Non solo il Concilio, affermando la necessità di rettificare l’atteggiamento dei cristiani nei confronti dei membri delle diverse religioni, ma anche eventi imprevisti, anzi umanamente quasi incredibili, come l’incontro di preghiera per la pace ad Assisi nell’86 e più ancora nel gennaio di quest’anno, hanno segnato l’inizio di un’era nuova: nel rapporto tra le religioni e, di conseguenza, nella costruzione della pace e della giustizia nel mondo.

Si capisce come Giovanni Paolo II abbia potuto dire che Assisi è diventata l’immagine per tutti eloquente di che cos’è la Chiesa sognata dal Vaticano II (cf Discorso alla Curia romana, dic. 1986).

Questo particolare dialogo è fondato sul fatto che lo Spirito di Dio ha sparso con larghezza semi del Verbo e raggi di Luce in tutte le autentiche tradizioni religiose. Semi e raggi che, con gemiti inesprimibili (cf Rm 8, 26), spingono dall’interno di queste religioni all’incontro con Gesù, Verbo fatto carne e Luce che illumina ogni essere umano (cf Gv 1, 9.14).

Il dialogo con tutti

Infine, il dialogo con tutti, anche non aderenti a nessun credo religioso, ma aperti con sincerità nella ricerca della verità e impegnati nella costruzione della giustizia. Esso pure tocca da vicino, dal cuore stesso della loro fede, i discepoli di Gesù.

Il Figlio di Dio, infatti, insegna il Concilio, facendosi uomo «si è unito, in certo modo, a ogni uomo» (cf GS 22); e lo Spirito Santo, per strade a Dio solo conosciute, offre a tutti la possibilità, nel segreto della propria coscienza, di vivere la propria esistenza sostenuti e illuminati dalla grazia di Dio (cf ibid. 24).

Per questo, ogni creatura umana, nella concretezza e ricchezza del suo essere e del suo agire, è “la via della Chiesa” – secondo la felice espressione coniata da Giovanni Paolo II nella sua prima enciclica, la Redemptor hominis. 

Se scavi dentro ogni autentico valore e ogni autentica esperienza umana, alla fine, vi troverai il divino.

E ovunque si dialoga e si coopera in unità d’intenti, desiderosi di verità e di bene, lì Dio è glorificato nella sua creatura, e prima o poi si manifesterà. 

Oggi, di fronte alle tragiche situazioni di povertà, d’ingiustizia, di guerra, il dialogo è il nuovo nome dell’impegno dell’umanità a diventare ciò che è chiamata ad essere: una famiglia in cui ciascuno è responsabile di tutti, e tutti di ciascuno.

L’atmosfera del dialogo

Termino con due icone evangeliche del dialogo, che tornano di frequente nel magistero della Chiesa.

La prima è quella che San Paolo descrive a partire dal mistero stesso del Verbo di Dio, Parola del Padre, che s’è rivolto a noi non dall’alto e da fuori, ma scendendo dentro la povertà della nostra condizione (cf Fil 2, 1ss.).

Si chiede Paolo VI: come la Chiesa «deve farsi idonea a tutti avvicinare per tutti salvare, secondo l’esempio dell’Apostolo: “mi sono fatto tutto a tutti, per salvare ad ogni costo qualcuno”?». E risponde: «non si salva il mondo dal di fuori; occorre, come il Verbo di Dio che s’è fatto uomo, immedesimarsi, in certa misura, nelle forme di vita di coloro cui si vuole portare il messaggio di Cristo, occorre condividere… Bisogna, ancor prima di parlare, ascoltare la voce, anzi il cuore dell’uomo… Bisogna farsi fratelli degli uomini… Il clima del dialogo è l’amicizia. Anzi il servizio» (Ecclesiam suam, 90).

Modello e forma di tutto ciò è Maria, la Vergine del dialogo, e per questo la Madre dell’unità: così ce la descrive l’evangelo di Luca quando si reca a servire la cugina Elisabetta che è incinta e, nel dialogo con lei, annuncia e dona Gesù che porta nel suo grembo.

La seconda icona è quella dei discepoli di Emmaus, in mezzo ai quali cammina in incognito Gesù risorto e con loro dialoga sino ad accendere in essi la luce della verità e il fuoco dell’amore (cf Lc 24, 32).

Scrive Giovanni Paolo II: «Il frutto del dialogo è l’unione fra gli uomini e l’unione degli uomini con Dio… attraverso il dialogo facciamo in modo che Dio sia presente in mezzo a noi, perché mentre ci apriamo l’un l’altro nel dialogo, ci apriamo anche a Dio» (a Madras, 5.2.1986).

Sì, l’essenziale è che, anche per il nostro farsi uno con l’altro, il Risorto si renda presente, sconosciuto ancora e quasi nascosto, e irradiando il suo Spirito faccia ardere il cuore in petto nel mentre si spezza il pane del dialogo: sino a che, quando e come Lui stesso vorrà, si possa spezzare il pane della Parola di Dio e il pane dell’Eucaristia, perfezione d’unità. E gli occhi si aprano, stupiti e nuovi, sulla sua presenza.

 Anticipo e forma di «cieli nuovi e terra nuova».

Piero Coda

1)     Cf Varcare la soglia della speranza, Arnoldo Mondadori, Milano 1994, p. 167.