Apporto per un capitolo importante di neuropsichiatria infantile

 

La relazione genitori-bambino disabile

di Maddalena Petrillo

 

Persino una delle tragedie più dolorose che la condizione umana può sperimentare, come la nascita di un figlio disabile, può trasformarsi, a certe condizioni, in una riscoperta dei valori più alti e gratificanti.

Il bambino “non sano”

La nascita di un figlio ha il significato di un’offerta d’amore. Il bimbo che nasce si offre all’accoglienza di chi si prenderà cura di lui. La madre che lo dà alla luce offre il proprio dolore al suo bambino, nella speranza, attraverso quel dolore, di farlo ben nascere.

Ma quando invece di una nascita fisiologica accade una nascita patologica (un bimbo malato o malformato) ecco che in brevissimo tempo si rende necessario offrire non solo amore e speranza, ma anche il senso di un limite che a volte si sperimenta come una morte di sé, un sacrificio quasi insostenibile del proprio progetto di vita e del desiderio di salute per quel bambino.

Nell’esperienza di chiunque abbia operato in un centro-nascita sono ben presenti gli effetti immediati sui genitori di un bambino nato “non sano”.

Tali effetti (lo scoraggiamento, la paura, il senso di colpa e di una perdita irrevocabile), dovuti alla discrepanza tra il bambino desiderato e il bambino reale, sconvolgono in un primo momento quello che è il primo compito della coppia genitoriale: l’accettazione del bambino.

Per i genitori è difficile riconoscersi nel figlio e riconoscere il figlio, di cui vedono solo il limite. La nascita del “primo legame” e la “preoccupazione materna primaria” rischiano di essere sopraffatte dal non riconoscimento della madre nel suo bambino, mentre per il padre diventa urgente contenere le ansie depressive della sposa.

La prima impressione, per coloro che sono vicini alla coppia, è che in quella famiglia non sia possibile maturare alcuna accettazione del bambino.

Una storia

Racconto una delle situazioni che ho potuto seguire più da vicino. La mamma di Guido, un bimbo down nato dopo una lunga attesa, non riusciva neanche a tenerlo in braccio. Pallida e sfatta dal dolore, lo guardava tra le braccia del marito. Rivolta poi verso di me, ha chiesto cosa mai avrebbe potuto fare di buono e di “normale” un bimbo così.

Dopo quella prima volta ho rivisto il bambino solo perché sono andata a fargli visita a casa. La madre, infatti, si era chiusa tra le pareti domestiche senza chiedere più aiuto a nessuno.

Il silenzio scese su quella famiglia, sui parenti attoniti, sui conoscenti distratti.

Un’offerta d’amore

Sentivo che dovevo superare quella barriera, fatta soprattutto di timore. Nelle mie parole di medico, la madre non vedeva aiuto, ma la proiezione del suo stesso giudizio negativo. Per lei rappresentavo un mondo, quello sanitario, di cui avrebbe volentieri fatto a meno. Ho vissuto perciò un conflitto tra il ruolo che desideravo avere e quello che mi era attribuito.

Usando altre parole potrei dire che non mi riconosceva, perché non riconosceva l’amore che cercavo di portarle.

Questa è un’esperienza di perdita che chi opera nelle strutture sanitarie fa spesso e che a volte conduce a difendersi, a giudicare il paziente ingrato e, nel proprio cuore, ad allontanarlo.

Portai allora con me, nelle mie visite domiciliari, un’ostetrica, figura professionale che nei nostri servizi spesso segue le donne nel puerperio, ed insieme con lei continuai a portare l’attenzione della madre e del padre alle risorse relazionali che il bambino mostrava ed al grandissimo valore dell’allattamento al seno. Questo nostro agire è stato un vero e proprio cammino di aiuto che, piano piano, ha accresciuto l’attenzione dei genitori verso ogni manifestazione ed espressione del bambino.

L’accettazione

Così si è avviato in loro il primo cambiamento: vedere il bambino non come oggetto di cure, ma come soggetto di relazione.

La madre ricominciò ad uscire di casa e si riaprì alle relazioni sociali.

Una piccola comunità si strinse intorno a lei ed al marito, sostenendoli nell’accettazione del bambino ed aiutandoli concretamente fino ad organizzare, qualche mese dopo, una gioiosa festa di battesimo.

L’essere riconosciuti genitori li aveva portati a riconoscere il figlio. Sentendosi amati sono nati come genitori.

Nel tempo essi sono ancora più cresciuti nell’amore: il loro sacrificio ha trasformato il negativo in positivo, educandoli a vedere le potenzialità nascoste del figlio e soprattutto rendendoli più liberi dai pregiudizi e dagli schemi, più rispettosi del limite, più persone.

Nella sofferenza hanno capito cosa ha veramente importanza nella vita del figlio, fino a ribaltare i valori precedenti e ciò che pareva un male è apparso come “sorgente di bene”.

Ma c’è di più: il riconoscimento del valore di Guido ha portato allo sviluppo di una solidarietà “sociale”, che si è concretizzata nella nascita di un’associazione di famiglie, di cui i genitori di Guido hanno messo il primo seme con la loro sofferenza.

Da questa esperienza di vita è così scaturito qualcosa di nuovo: una realtà di “apertura” tanto più sorprendente perché nata da una iniziale realtà di “chiusura”.

Una nuova scoperta

Questa e tante altre esperienze simili fanno comprendere come nelle famiglie provate dalla disabilità e dove è richiesto un amore particolarmente oblativo perché “potato” nelle sue attese umane, l’accettazione del figlio – primo compito dei genitori – si sviluppi nella scoperta dell’amore degli altri.

Attraverso questo amore, riflesso dell’amore del Padre per le sue creature, i genitori si sentono capaci di generare nuovo amore.

Una volta compiuta la prima fase di accettazione i genitori maturano la forza necessaria per affermare quotidianamente l’eguaglianza del figlio pur nella diversità.

Scrive Chiara Lubich nella sua lezione sul carisma dell’unità e la psicologia: «Solo l’amore rende conto della diversità salvando l’eguaglianza e rendendo così possibile l’unità».

Avendo imparato a posare su di lui uno sguardo d’amore, i genitori, e non solo loro, credono in lui: l’identità del figlio si delinea al di là della malattia.

Il bambino disabile
si trasforma in dono

È esperienza frequente osservare come il bambino disabile, avvolto nel limite fisico, mentale o sensoriale, è vicino al cuore degli altri, pronto a riconoscersi nell’amore degli altri per lui e pronto a ricambiarlo.

Egli aiuta chi gli sta accanto a non ripiegarsi su se stesso, a distaccarsi dai desideri onnipotenti per diventare come lui, profondamente libero proprio perché attraversato dal limite oggettivo che lo aiuta a liberarsi dai condizionamenti tipici delle persone “sane”.

Aggiunge ancora Chiara in quella stessa lezione: «Ogni forma di attaccamento a sé o alle cose distrugge l’Io, lo sgretola, sia perché favorisce l’orgoglio e l’autocompiacenza, sia perché costruisce quel “falso Io” che gli psicologi chiamano Ego».

Oggi che l’infanzia è gravata di condizionamenti imposti dal modello di vita consumistico, i figli disabili richiamano con forza la necessità di «ricostruirsi un Io integro», libero «da ogni sorta di avidità e di possesso».

Essi amplificano l’amore ricevuto attraverso le attenzioni necessarie alla loro crescita ridonandolo a piene mani, insegnando a vivere nella reciprocità.

Per questo le famiglie con un figlio disabile diventano spesso una testimonianza per molti.

Così la relazione tra genitori e figlio disabile può offrire l’immagine più vera della relazione genitori-figli, dove il valore delle persone è un assoluto.

In essa si intravedono in trasparenza la relazione di ciascuno di noi con l’Assoluto e la “comunione” che permette al figlio di trovare la propria identità.


Maddalena Petrillo