L’altro nella psicologia contemporanea: il nuovo paradigma della relazionalità

 

Da una visione individualistica alla reciprocità

di Pietro Andrea Cavalieri e Andreas Tapken

 

I tempi sono maturi – tante teorie, scuole e ricerche attuali lo confermano – per verificare che la persona umana oltre che desiderio e razionalità è anche, costitutivamente, relazionalità.

Il paradigma centrale attorno al quale ruota la cultura moderna e la sua autocomprensione nelle varie scienze è l’idea di soggetto. L’essere umano, attraverso un processo storico e culturale, si è scoperto “individuo”, non più, come prima, totalmente “dentro” la natura o “dentro” la comunità di appartenenza, ma essenzialmente “di fronte” ad esse, distinto e differenziato da esse.

Ovviamente anche la psicologia, nel suo tentativo di comprendere la persona umana, è stata fortemente segnata da questo paradigma della soggettività. La presente riflessione si prefigge di descrivere l’emergere di un nuovo paradigma ermeneutico nella psicologia contemporanea che si potrebbe chiamare il paradigma della relazionalità.

Cercheremo in questo nostro discorso di delineare brevemente come in psicologia ci sia stato uno sviluppo che, partendo da origini individualistiche, ha superato poi tale impostazione ed è pervenuto, oggi, ad un nuovo paradigma centrato sul concetto di relazione. Individueremo, successivamente, varie aree dell’attuale ricerca in psicologia nelle quali tale paradigma ci sembra essere particolarmente percepibile.

Origini individualistiche

La psicologia è oggi una scienza vastissima. È perciò impossibile integrare tutti i vari indirizzi psicologici e le varie scuole in questa riflessione. Ci permettiamo pertanto di iniziarla facendo riferimento al padre della psicologia del profondo, Sigmund Freud.

Il grande merito di Freud ci sembra sia l’aver messo al centro della sua attenzione la singola persona. Aveva colto che spesso l’uomo non è padrone nella propria casa, che vive, cioè, in modo alienato. L’uomo spesso non è libero, ma spende gran parte della sua energia per risolvere i suoi conflitti inconsci o per soddisfare inconsciamente le attese altrui. La psicoanalisi di Freud (alla quale si rifanno tuttora in modo più o meno esplicito la maggioranza delle psicoterapie, almeno quelle orientate a risolvere i conflitti inconsci) mira alla individuazione: aiutare la persona a diventare libera, ad essere quello che veramente è.

Alla base della psicoanalisi di Freud sta una teoria conflittuale secondo la quale vi è un passato, una famiglia o un ambiente che impediscono alla persona di essere veramente se stessa. Individuazione significa staccarsi da questi contesti alienanti. La persona diventa se stessa nella misura in cui si libera da rapporti che la condizionano. Tale teoria conflittuale si può cogliere molto bene nel famoso conflitto di Edipo: Edipo, per raggiungere i suoi scopi e diventare se stesso, deve tragicamente uccidere il proprio padre, liberarsi, cioè, da quell’altro al quale deve la sua propria esistenza.

Questa origine individualistica-individualizzante della psicologia influenza tuttora fortemente la psicologia. Le varie psicoterapie in fondo non fanno altro che cercare di aiutare la persona a diventare se stessa. Il concetto centrale di questo approccio alla persona è quello della autorealizzazione. La persona deve realizzare se stessa e lo fa distinguendosi dagli altri.

La scoperta dell’altro

L’origine individualistica della psicologia rimane tuttora influente, valida ed importante. Nonostante questo, sono però emerse, all’interno della psicologia stessa (e da altre scienze in dialogo con essa, come la filosofia), delle critiche ad una posizione unilateralmente individualistica. Si sono fatti vari tentativi per superare tale posizione o per aprirla ad una visione più relazionale della realtà. Le proposte in questa direzione sono molte. Fra le più significative ci sembra di poter indicare le seguenti:

a) Un importante superamento viene dalla scoperta che l’inconscio stesso possiede una direzionalità, ossia una intenzionalità teleologica. È stata in questo contesto particolarmente importante la famosa lettura e critica di Freud avanzata da Paul Ricoeur. Il filosofo francese riesce a dimostrare che l’inconscio (ossia il “desiderio”) non è chiuso in se stesso, proteso solo alla soddisfazione delle pulsioni. L’inconscio possiede, invece, una struttura relazionale. Il desiderio inconscio cerca un altro, è aperto alla relazione: «Il desiderio ha il suo Altro» (Ricoeur 1965).

b) C’è poi l’approccio sistemico che riprende a livello psicologico tanti elementi della cibernetica e viene sviluppato inizialmente nella terapia famigliare. Più tardi sarà elaborato ulteriormente per comprendere anche strutture e organizzazioni più complesse. Centrale è qui il concetto che non si può capire la persona e risolvere le sue difficoltà a prescindere dal sistema sociale-relazionale nel quale vive.

c) Una simile tendenza si è notata anche nella psicologia dello sviluppo che ha cercato di capire lo sviluppo della persona a partire dalle sue relazioni primarie. È diventata famosa l’affermazione di D. W. Winnicott: «Il bambino non esiste». Secondo questa massima il bambino non esiste mai come essere indipendente, ma sempre in un rapporto di dipendenza da un’altra persona. Autori come Winnicott, Klein, Mahler, Fairbain e Kernberg (e altri rappresentanti della Teoria delle relazioni oggettuali) descrivono di conseguenza lo sviluppo della persona come un progredire da una iniziale dipendenza simbiotica e totale verso una sempre maggiore indipendenza dagli altri. È importante sottolineare come questi autori si pongano in una prospettiva teorico-metodologica, nella quale il rapporto con l’altro continua ad essere considerato soprattutto un derivato, un prodotto dello sviluppo libidico o dell’Io.

Verso un paradigma di reciprocità

Nonostante i suoi grandi meriti, sono chiaramente visibili anche i limiti dell’approccio classico freudiano. Esso si basa su una visione della persona troppo riduzionistica. La persona, infatti, non vive solo per se stessa e la soddisfazione dei suoi bisogni inconsci. Non è sganciata da tutti i rapporti, ma si pone all’interno di una rete sociale che una comprensione completa della persona deve riconoscere. Detto sinteticamente: in questo approccio classico-individualistico manca il concetto dell’altro.

I vari approcci appena elencati hanno cercato di superare tale riduzionismo. Questi tentativi sembrano essere una risposta molto positiva e offrono infatti una varietà di spunti utili, anche in vista di una riflessione psicologica sulla relazione di reciprocità. Sembrano esserci, però, anche qui dei limiti. A volte emerge, ad esempio, un certo romanticismo relazionale, che finisce effettivamente per negare la conflittualità dei rapporti e non vede come certi tipi di relazione facciano più male che bene. Altre volte la persona non sembra essere altro che un prodotto del sistema in cui vive, perdendo le sue caratteristiche individuali e quindi la sua dignità di persona unica e distinta. Detto anche qui brevemente: manca un concetto forte di persona, di identità, di individualità.

Ci pare che ormai si profilino degli studi in psicologia capaci di superare la dicotomia fra identità e alterità, interno ed esterno, individuo e sistema. Tali studi riguardano soprattutto la psicologia dello sviluppo, ma hanno ripercussione anche in altri campi (ad esempio in quello della psicoterapia). Guarderemo un po’ più da vicino tre aree di ricerca della psicologica contemporanea: l’altro come regolatore del Sé; lo sviluppo della relazione intersoggettiva; lo sviluppo dei processi mentali.

L’altro come regolatore del Sé

Molti autori, fra cui Winnicott (1965) e Mahler (1975), attribuiscono grande importanza all’esperienza dell’“essere con la madre”. Come già accennato sopra, essi partono, però, dal presupposto che il bambino non è in grado di differenziare il Sé dall’altro, vivendo così in uno stato fusionale-simbiotico, dal quale solo successivamente e in modo graduale emergerebbero un Sé e un altro separati. Da questo punto di vista l’Io del bambino sarebbe essenzialmente un “Noi” e il suo essere “totalmente sociale”. Al contrario, le ricerche di Stern (1985) portano alla conclusione che le esperienze di “essere con un altro” vanno considerate, fin dall’inizio, “modalità attive di integrazione”, risultato cioè di una interazione attiva fra due entità distinte, il Sé e l’altro. L’interazione dà origine nel bambino ad una esperienza del Sé fatta di stati d’animo (eccitazione, gioie, paura, attesa, ecc.) difficilmente sperimentabili fuori da un contesto di autentica reciprocità. Egli è co-protagonista di una relazione nella quale l’altro “regola” in lui l’esperienza del Sé, è per lui “l’altro regolatore del Sé”.

Negli ultimi venti anni, con il contributo di Stern e di molti altri ricercatori (fra cui Lichtenberg 1983, Dornes 1993, 1997, Beebe – Lachmann 1998) la psicologia dell’età evolutiva ha cambiato decisamente direzione, individuando nel rapporto del Sé con l’altro, nel senso del Sé e dell’altro, il principio organizzatore primario dello sviluppo infantile. Nella teoria evolutiva di Stern la comparsa di ogni nuovo senso di Sé implica, in modo coerente, il contemporaneo delinearsi anche di un nuovo senso dell’altro e il configurarsi di un nuovo tipo di relazione con caratteristiche diverse dalla precedente. Ci troviamo di fronte ad una originale concezione dello sviluppo, nella quale non trova più spazio l’ipotesi di un iniziale stato evolutivo indifferenziato.

Già la teoria dell’attaccamento (Bowlby 1969) aveva evidenziato il ruolo fondamentale che l’altro riveste nella regolazione della sicurezza. L’attaccamento, però, non può essere considerato il solo indice della relazione madre-bambino. L’altro, infatti, regola una molteplicità di esperienze del Sé, come ad esempio l’attenzione, la curiosità, la conoscenza. Queste molteplici esperienze non sono, però, esperienze di “fusione”. Sono, piuttosto, esperienze reali di essere con qualcuno, che in vario modo regola e modifica i sentimenti riguardanti il Sé. Durante questa esperienza reale, il Sé non perde mai i suoi confini e l’altro continua ad essere percepito come distinto. In altri termini, benché l’esperienza del Sé dipenda dall’altro, essa tuttavia appartiene interamente al Sé (Stern 1987).

Il bambino, dunque, appare inserito in una sorta di matrice sociale che scaturisce dal suo mondo soggettivo, dal mondo soggettivo della madre e dagli episodi di interazione ai quali entrambi partecipano distintamente e con intensità diverse. Tale interazione costituisce una interfaccia, una esperienza condivisa, uno spazio comune fra due mondi soggettivi distinti. Nel loro incalzante succedersi, gli episodi di interazione funzionano come un “ponte” fra il mondo soggettivo del bambino e della madre, permettendo ad essi di correlarsi reciprocamente senza per questo confondersi.

La relazione intersoggettiva

L’“essere con l’altro” non si esaurisce negli aspetti di cui si è già parlato e che sono inerenti alla mutua regolazione dell’esperienza, ma riguarda anche altre dimensioni della relazione, come la condivisione dell’esperienza soggettiva stessa, cioè l’esperienza intersoggettiva.

Secondo le ricerche di Trevarthen e Hubley (1978) l’intersoggettività compare quando, tra i sette e nove mesi, il bambino mostra di ricercare una “deliberata”, e quindi intenzionale, partecipazione ad esperienze concernenti eventi e oggetti. Inizialmente le esperienze soggettive, che egli è in grado di condividere, sono quelle che non richiedono il ricorso al linguaggio. Da queste elementari esperienze di condivisione non verbali hanno poi origine, intorno ai nove mesi, le prime forme del linguaggio e della comunicazione intenzionale.

Il grande rilievo che l’intersoggettività assume sul piano evolutivo ha spinto alcuni autori a ritenerla una capacità umana innata, presente sin dai primi mesi di vita, anche se in forma arcaica. Per Bräten (1998) il bambino nasce con un “altro virtuale (virtual other) nella mente” che permette di entrare in una interazione con un altro reale. L’altro esterno e reale entra, per così dire, in uno spazio psichico già preparato dall’altro virtuale. Questo spazio non deve essere creato, ma esiste già ed è piuttosto il presupposto che permette di fare l’esperienza dell’altro reale. Bräten e altri autori come Dornes e Trevarthen delineano quindi una teoria dialogica che non interpreta il protodialogo, la risonanza affettiva e altri fenomeni di reciprocità nell’infanzia come incontro fra due monadi, ma assume che il bambino è già diadicamente prestrutturato. Questa è la base ontogenetica sulla quale Trevarthen, come anche Bräten, sviluppa poi la sua assunzione di una “intersoggettiva primaria”. La relazione intersoggettiva, infatti, appare con sempre maggiore evidenza come bisogno psicologico primario, nella quale si rintraccia il DNA delle relazioni umane, la chiave di lettura necessaria per comprendere, al contempo, lo sviluppo umano, la capacità di empatia e di altruismo, ma anche il disagio psichico, e il significato autentico dei rapporti sociali.

È significativo come anche nella psicoanalisi, che da sempre ha focalizzato la sua attenzione soprattutto sull’esperienza soggettiva individuale, oggi si cominci a delineare una “teoria psicoanalitica intersoggettiva” (Stolorow – Atwood 1992, Orange – Atwood – Stolorow 1997). Anche in passato Vygotskij (1966) aveva già parlato di “intermentale” e Sullivan (1953) aveva teorizzato l’esistenza di un campo interpersonale, ma sembra che solo di recente si sviluppi nel mondo psicoanalitico un’ampia attenzione alle basi intersoggettive della vita psichica (Gill 1994). Ci si accorge che, oltre al Sé e all’altro, esiste un terzo elemento nel lavoro terapeutico: uno “spazio intersoggettivo”, un “terzo analitico” (Ogden 1994), che offre quell’orizzonte ermeneutico senza il quale l’esperienza dei due soggetti in dialogo non possono essere compresi (Cavell 1993).

Da tutto ciò si evince che, così come tra bambino e madre, anche tra Sé ed altro, tra individuo e società, si delinea una dimensione terza per lungo tempo trascurata: la relazione di reciprocità. Quest’ultima costituisce un paradigma relazionale ben definito, con caratteristiche qualitative sue proprie, che lo differenziano e lo contraddistinguono da ogni altro tipo di relazione. Essa non è la relazione vista in funzione dell’individuo (dell’Io, dell’interno, dell’organismo ecc.) o in funzione dell’altro (della società, dell’esterno, del sistema ecc.), ma è la relazione in quanto tale, considerata come dimensione reale a sè stante, distinta dalle altre due, fra le quali si frappone come ineliminabile interfaccia. Essa è lo spazio in cui si producono le differenze ed è possibile la loro accoglienza; è il luogo in cui le due parti in causa possono, a vicenda, riconoscersi e prendersi cura, sperimentando l’altro come termine di riferimento coessenziale alla propria stessa esistenza e al proprio disvelarsi.

Sviluppo dei processi mentali

Un altro interessante filone di ricerca, utile al prosieguo della nostra riflessione, è quello che riguarda lo sviluppo mentale del bambino e la comparsa in lui del linguaggio. Bruner, riprendendo un precedente confronto fra Piaget e Vygotskij, descrive come la mente umana matura la propria organizzazione proprio attraverso l’interazione reciproca con gli altri, con menti diverse. Il riconoscimento reciproco è considerato da Bruner (1992) come uno dei processi psicologici più importanti per l’elaborazione e lo sviluppo del Sé. Senza il riconoscimento reciproco non è possibile il linguaggio, la negoziazione dei significati, lo scambio di interpretazioni; non è, cioè, possibile produrre segni comunicabili, capaci di rendere riconoscibili le intenzioni sottese alle azioni.

Dalle ricerche di Bruner emerge un modello antropologico molto utile alla nostra riflessione. In esso l’altro, il contesto sociale e culturale, non sono antagonisti del singolo individuo, non lo contraddicono, ma al contrario costituiscono i termini essenziali di un processo attraverso il quale egli sviluppa la propria mente, si appropria di se stesso e delle sue potenzialità più nascoste. Dunque, non una relazione di insanabile conflitto, quella che unisce l’individuo alla società (l’io all’altro), ma un rapporto di reciproca implicazione, in cui l’uno risulta indispensabile alla vita dell’altro.

Questo orientamento trova interessanti riscontri anche nell’ambito della psicobiologia e della neurobiologia (Damasio 1995, 2000, Siegel 2001). A dispetto di un luogo comune, che vuole nettamente contrapposti “natura” e “cultura” (nature and nurture), approccio organicistico-biologico e approccio relazionale-sociale, nell’ultimo decennio si sono susseguiti numerosi studi tendenti a dimostrare l’esatto contrario. Sembra, infatti, che le relazioni interpersonali abbiano il potere di influenzare in modo significativo lo sviluppo delle strutture cerebrali nel corso dell’intera esistenza umana e in particolare nei primi anni di vita. Le relazioni con gli altri, le quotidiane esperienze interpersonali, cioè, possono contribuire a plasmare il cervello umano, «provocando l’attivazione di determinati circuiti, consolidando collegamenti preesistenti e inducendo la creazione di nuove sinapsi. Al contrario, l’assenza di esperienza può portare a fenomeni di morte cellulare, in base a quello che è stato definito come processo di “potatura” (pruning), che favorisce l’eliminazione degli elementi che non vengono utilizzati: lo sviluppo del cervello è quindi un processo “esperienza-dipendente”» (Siegel 2001). Siegel teorizza in questo contesto l’esistenza di una “mente relazionale” e di una “neurobiologia interpersonale”.

Anche in questo ambito della ricerca, è stato dimostrato che le relazioni interpersonali più adeguate e funzionali allo sviluppo del cervello sono quelle che creano momenti di corrispondenza, che hanno cioè carattere di “reciprocità”. Le funzioni cerebrali e lo sviluppo della mente vengono attivati meglio da interazioni nelle quali l’adulto e il bambino sono in grado di riconoscersi e influenzarsi reciprocamente (Fonagy – Target 2001). Al contrario, un mancante o distorto riconoscimento reciproco provoca “mentalizzazioni” disfunzionali e sembra essere una delle cause di disturbi gravi di personalità (Gergely – Fonagy – Target 2002).

Attraverso questi contributi, che vengono in prevalenza dalle neuroscienze e dalla psicologia infantile, troviamo dunque un’ulteriore conferma non solo al legame che unisce lo sviluppo della mente alla relazione con l’altro, ma soprattutto all’esistenza di un paradigma relazionale specifico, la relazione di reciprocità, che è alla base dei più importanti processi di integrazione, di evoluzione della mente umana e dei rapporti sociali.

Conclusione provvisoria

Abbiamo cercato, fin qui, di porre in evidenza quale sia lo spazio e l’attenzione riservati dalla psicologia contemporanea alla relazione con l’altro, soprattutto sotto l’aspetto cardine della reciprocità. Essa emerge come elemento nodale e come la condizione indispensabile per lo sviluppo della mente e per la crescita individuale.

La contrapposizione fra io e altro, fra individuo e società, è sicuramente innegabile e perenne, ma l’attenzione alla “qualità” della relazione che fra essi intercorre, può rendere in ogni momento il conflitto sanabile e fonte di crescita vitale per entrambi. Svilupparsi, diventare una persona matura, comporta aprirsi ad un’altra persona, riconoscere ed accogliere l’altro. Il bambino (così come l’adulto che ha bisogno di riprendere uno sviluppo interrotto) può fare questo nella misura in cui sperimenta, a sua volta, l’esistenza di relazioni nelle quali può essere riconosciuto e accolto. Il segno della maturità umana è la capacità di amare, di autotrascendersi verso un’altra persona, facendo ad essa dono di se stesso. Questa capacità si sviluppa meglio, come si evince da questa breve rilettura della psicologia contemporanea, in una matrice relazionale di reciprocità. Dove due persone si autotrascendono a vicenda, si crea uno spazio nuovo, nel quale l’uno fa essere l’altro, afferma massimamente se stesso quando afferma l’altro.

La valenza psicologica di questo particolare tipo di relazione (che è appunto l’amore) si manifesta non solo nel fatto che, amando, “riconosco” l’altro, accolgo sino in fondo la sua diversità, ma soprattutto nel fatto inedito e straordinario che, amando l, lo scopro come colui che “mi fa essere”.

Impossibile non riconoscere qui una forte e evidente convergenza fra quanto emerge nella psicologia contemporanea e il pensiero sulla persona umana offertoci da Chiara Lubich. Lei sottolinea nel suo discorso sulla psicologia tenuto a Malta, in occasione del conferimento della laurea honoris causa, come l’atto stesso di “riconoscere” e “accogliere” l’altro attiva, sul piano psicologico, un processo dinamico attraverso il quale ogni uomo può sperimentare il “riconoscimento” di se stesso, il disvelamento a sé delle sue stesse potenzialità. L’altro, cioè, si rivela a me non come una realtà che mi contraddice, che mi nega o mi condiziona, ma come l’unico termine di riferimento a partire dal quale soltanto è reso possibile il manifestarsi di me a me stesso. Ecco per quale motivo l’altro diventa ora colui il quale “mi fa essere”.

Ci sembra molto significativo poter sottolineare questa forte convergenza fra la psicologia contemporanea e il pensiero della Lubich. Il pensiero psicologico moderno in questi ultimi decenni ruota con sempre maggior decisione attorno ai concetti di “altro”, di “relazione” e di “reciprocità”, avvicinandosi a quella visione della persona umana comunicataci da Chiara.

Ci pare però necessario dire che intravediamo nella sua comprensione della persona  una “novità” che finora, così ci sembra, non ha trovato una formulazione corrispondente nella psicologia odierna. Per Chiara io non solo sono costituito dall’altro (cosa che afferma anche la psicologia), ma mi realizzo pienamente solo in quanto faccio un dono di me stesso all’altro, quando mi autotrascendo verso di lui morendo a me stesso. La relazione di “reciproca costituzione”, come la intende Chiara, ha un’altra profondità: richiede che io mi “annulli” proprio per far vivere l’altro. E dove anche l’altra persona fa lo stesso, si crea una relazione che raggiunge  la  totale pienezza umana, proprio perchè rivive in analogia i rapporti delle tre persone divine.

Perché la psicologia contemporanea fa ancora fatica a pensare questa dinamica? Forse perché  non riesce ancora a perdere la posizione della soggettività individuale. La dinamica psicologica descritta da Chiara non è nient’altro che la verità ontologica della persona. Entrare in essa richiede però sempre un “rischiare se stessi”, un perdersi per ritrovarsi. Forse è proprio questa la vera dinamica relazionale che dobbiamo capire e descrivere sempre meglio da un punto di vista psicologico.

Pietro A. Cavaleri eAndreas Tapken

 

 

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