Amare ed essere amati: fondamento della propria identità

 

L’affermazione «Dio è amore» e la psicologia

di Pasquale Ionata

 

Oggi si riconoscono sempre di più i valori umani e sociali veicolati dalle Scritture bibliche. Infatti se il nostro vissuto evangelico è genuino, esso produce l’affermarsi ed il fiorire della nostra vera identità.

Vorrei agganciarmi ad una considerazione che abbiamo ascoltato nell’intervento di Silvano Cola e cioè che non esiste nessuna distinzione esistenziale tra il dato teologico e quello psicologico nel senso che la dimensione spirituale è essenzialmente una “esperienza” psicologica, e non qualcosa di astratto, impalpabile e lontana dalle vicende umane e concrete. In altre parole la fede o la religiosità solo per il fatto che sono nella loro essenza “esperienze vissute” non sono categorie solamente spirituali ma anche psicologiche.

Spesso si tende a considerare la spiritualità e la psicologia, come due realtà radicalmente diverse fra loro, ma le cose in realtà non stanno così: esse non solo sono inestricabilmente collegate, ma hanno anche pari dignità fenomenologica. Basterebbe pensare all’affermazione della fede cristiana che riconosce Gesù, in modo inscindibile, vero Dio e vero Uomo. Considerare la spiritualità come qualcosa di sganciato dall’esperienza psicologica significa fare dello “spiritualismo”: equivarrebbe a negare la parte umana di Gesù e la sua vicenda terrena.

Identità spirituale e umana

Questo nostro intervento partirà proprio dalla constatazione che l’identità spirituale non può non camminare di pari passo con quella umana.

Scrive il teologo Herman Haering: «L’identità religiosa comincia quindi lì dove l’identità umana “normale” scopre in se stessa una profondità insondabile e la esprime. Forse la storia di Gesù divenne la storia di una nuova identità religiosa, perché attuò la possibilità dell’immaginazione umana in una maniera inattesa, senza dissolversi in essa. Dio è un “Deus humanissimus”. Forse per questo Gesù divenne il simbolo del veramente divino e, nello stesso tempo, del veramente umano che tutti noi similmente e senza rivalità speriamo (di diventare)»1.

Qualcuno potrebbe pensare che stiamo già tirando delle conclusioni, per cui è bene andare cauti e sottolineare invece un dato oggettivo e incontrovertibile, cioè che da parte di ogni essere umano è fortissima l’esigenza di avere un’identità. Cito lo storico Crane Brinton che fa la seguente osservazione psicologica: «Per essere provocante dirò che ogni individuo è un metafisico; ogni individuo ha il desiderio di situarsi in un “sistema”, in un “universo”, in un “processo” che trascenda i rapporti immediati tra l’individuo e l’ambiente; in ogni persona normale la mancanza consapevole o la frustrazione di tale forma d’intelligenza darà luogo ad una specie di angoscia metafisica»2.

Quello che Brinton chiama “angoscia metafisica” è quel brivido dell’Io che lo psichiatra Ronald Laing nel suo famoso libro L’Io diviso definiva come “insicurezza ontologica”, caratterizzata appunto da ansietà e pericoli, al posto di certezze e sicurezze tali da permettere ad una persona di affrontare la vita e le sue difficoltà con un forte senso di identità di se stessa e degli altri.

La maggiore autorità sul tema dell’identità come noto è Erik Erickson, la cui teoria di fondo è che esistono ben otto stadi dello sviluppo dell’identità, e molti dei problemi relativi ad essa si accentrano sulla parte svolta dalle identificazioni sia nellche nel diminuire il senso d’identità stesso. Per esempio si ritiene che non riuscire, durante l’infanzia, a identificarsi coi genitori, in particolare col genitore del proprio sesso, diminuisca il senso d’identità, ma ha un effetto simile il non riuscire a disidentificarsi da loro nell’adolescenza. Per Erickson, il senso d’identità è probabilmente sinonimo di consapevolezza di sé e si può considerare come l’equivalente soggettivo dell’Io, anche se non è del tutto chiaro se la ricerca dell’identità sia una accresciuta consapevolezza di sé oppure una ricerca di un ruolo.

Fin qui quanto ci dice Erickson, e non ci sembra che la ricerca sul fondamento della propria identità venga sufficientemente sviluppata da parte della psicologia ericksoniana. Per questo abbiamo ritenuto più utile rivolgerci a varie e diverse scuole psicologiche, diverse soprattutto tra loro, tipo quella cognitiva, quella esistenziale, quella analitica, ecc., proprio per vedere come sia possibile sostenere psicologicamente tutto il nostro lavoro caratterizzato espressamente da aspetti spirituali. Inoltre, citeremo due brevissime liriche del poeta neoclassico tedesco Fried-rich Hölderlin memore di quanto Freud stimasse i poeti quali veri scopritori dell’inconscio prima ancora di lui, perché quello che egli aveva scoperto e messo a punto era a suo avviso soltanto il metodo scientifico con cui poter studiare l’inconscio. Freud arriva persino ad invidiare ai poeti la capacità «di ricavare senza una vera fatica, dal vortice dei propri sentimenti, le più profonde intuizioni, mentre a noialtri non resta che farci la strada a tastoni, senza posa, in tormentosa incertezza, verso le medesime verità»3.

Qualche scuola psicologica

E seppure a tastoni, come dice Freud, anche noi ci rivolgiamo alle diverse scuole psicologiche e in primis alla cognitiva con il concetto di “base sicura” avanzato dal grande Bowlby: base sicura, dove s’ipotizza l’importanza fondamentale dell’attaccamento del bambino alla figura materna tale da permettere al bambino l’allontanamento da essa, senza particolari problemi psicologici. Sia l’attaccamento che la separazione dalla madre, darebbero al bambino quel senso della propria identità, o meglio, della sua presenza nell’ambiente come persona viva, tale da incontrare gli altri bambini con atteggiamenti di esplorazione, sempre certo della possibilità di ritornare alla base sicura della madre. Insomma l’attaccamento e la separazione darebbero al bambino non solo il senso dell’identità, ma anche della certezza esistenziale.

Però, se interpelliamo la scuola cognitiva è perché vorremmo andare oltre Bowlby e in particolare agganciarci alla recente proposta di Blatt dove viene elaborata una teoria cognitiva dello sviluppo della personalità in cui si citano due motivazioni psicologiche, fra loro correlate:

a)  Reciprocità: la capacità di stabilire delle relazioni interpersonali sempre più mature e mutualmente soddisfacenti.

b) Definizione di sé: lo sviluppo di una identità consolidata, realistica, sostanzialmente positiva, differenziata e integrata4.

Motivazioni cognitive che già negli anni ’60 furono anticipate, seppure in un altro ambito psicologico, quello esistenziale, dallo statunitense William Glasser, il quale sottolineava che per la costruzione di un sano senso d’identità era necessario appagare due bisogni umani fondamentali, che sono rispettivamente:

a)  il bisogno di amare ed essere amati;

b) il bisogno di sentire che abbiamo un valore per noi stessi e per gli altri5.

Per quanto riguarda il primo bisogno, quello del dare e ricevere amore, esso è costantemente presente lungo tutto l’arco della vita umana; e non basta essere amati da una madre, un amico, uno sposo o una sposa; è indispensabile anche amare. Amare soltanto o soltanto lasciarsi amare non è sufficiente; dobbiamo fare ambedue le cose. Se non potremo soddisfare il nostro totale bisogno di amore, senz’altro soffriremo e reagiremo con molti sintomi che vanno da un leggero disagio all’angoscia e alla depressione e, infine, al completo ritiro dal mondo che ci circonda.

Altrettanto importante quanto il bisogno d’amore è quello di sentire che abbiamo un valore per noi stessi e per gli altri. Nonostante i due bisogni siano distinti, una persona che ama ed è amata di solito sentirà di avere un valore; ed una persona che ha un valore generalmente sarà amata e potrà ricambiare l’amore. Per avere un valore dobbiamo mantenere una norma comportamentale soddisfacente. Quindi dobbiamo imparare a correggerci quando siamo in torto e a riconoscere il nostro merito quando ci comportiamo bene. Se non valutiamo criticamente il nostro comportamento, oppure se non miglioriamo la nostra condotta, qualora sia inferiore al modello che ci eravamo prefissati, non appagheremo il nostro bisogno di avere un valore e avremo le stesse acute sofferenze di quando non riusciamo ad amare o ad essere amati.

Prospettiva spirituale

Parecchio tempo prima, negli anni ’40 in Italia si delineava uno stile di vita, ed implicitamente anche una dottrina dai risvolti psicologici, che soddisfaceva già egregiamente i due bisogni evidenziati da Glasser, grazie al contributo spirituale di Chiara Lubich e alla sua avventura comunitaria del Movimento dei focolari, con la scoperta iniziale di Dio Amore sullo sfondo di un contesto esistenziale in cui tutto parlava di odio e di distruzione, e cioè la seconda guerra mondiale.

Scrive Chiara Lubich: «Un fatto. Facevo ancora scuola. Un sacerdote di passaggio… chiede di dirmi una parola. Mi domanda di offrire un’ora della mia giornata per le sue intenzioni. Rispondo: perché non tutta la giornata? Colpito da questa generosità giovanile… mi dice: “Si ricordi che Dio la ama immensamente”. È la folgore. “Dio mi ama immensamente”. “Dio mi ama immensamente”. Lo dico, lo ripeto alle mie compagne: “Dio ti ama immensamente. Dio ci ama immensamente”. Da quel momento scorgo Dio presente dappertutto col suo amore: nelle mie giornate, nelle mie notti, nei miei propositi, negli avvenimenti gioiosi e confortanti, nelle situazioni tristi, scabrose e difficili. C’è sempre, c’è in ogni luogo e mi spiega. Che cosa mi spiega? Che tutto è amore: ciò che sono e ciò che mi succede; ciò che siamo e ciò che ci riguarda; che sono figlia sua e Lui mi è Padre; che nulla sfugge al suo amore. La novità è balenata dinanzi alla mia mente: so chi è Dio. Dio è Amore. È questa la nostra grande, grandissima scoperta. Mentre la guerra sottolineava la precarietà di ogni cosa, noi sceglievamo Lui come ideale della nostra vita»6.

Un dato strettamente psicologico che si può cogliere dall’esperienza della Lubich è questa: la novità di Dio Amore è balenata dinanzi alla sua “mente” e lei, forte di questa “grandissima scoperta”, può capire delle realtà decisive che coinvolgono tutta la realtà. Capisce, ad esempio, che la natura, l’umanità, la singola persona, tutto l’universo porta l’impronta dell’amore. Tutti gli esseri sono sostenuti da un’armonia di rapporti d’amore in cui ciascun essere è in dono per l’altro, tale da trovare così la propria identità.

È alla luce di questa prospettiva che comprendiamo la seguente esperienza raccontata da Chiara: «Avevo l’impressione di percepire, forse per una grazia speciale di Dio, la presenza di Dio sotto le cose. Per cui, se i pini erano indorati dal sole, se i ruscelli cadevano nelle loro cascatelle luccicando, se le margherite e gli altri fiori ed il cielo erano in festa per l’estate, più forte era la visione d’un sole che stava sotto a tutto il creato. Vedevo, in un certo modo, credo, Dio che sostiene, che regge le cose. E Dio faceva sì che esse non fossero così come noi le vediamo; erano tutte collegate fra loro dall’amore, tutte, per così dire, l’una dell’altra innamorate. Per cui se il ruscello finiva nel lago era per amore. Se un pino s’ergeva accanto ad un altro era per amore. E la visione di Dio sotto le cose, che dava unità al creato, era più forte delle cose stesse; l’unità del tutto era più forte che la distinzione delle cose fra loro»7.

L’annuncio dell’ amore di Dio

Come si sa il nucleo centrale dell’evento-Gesù è rappresentato dal suo annuncio dell’amore di Dio verso l’umanità, ed ecco una riflessione in proposito di un noto teologo studioso di psicoanalisi:

«Sia ben chiaro che Dio non ci ama eventualmente perché ha bisogno di noi, ma proprio al contrario: siamo necessari a Lui perché ci ama. Solo attraverso l’amore siamo in grado di formarci come persone, cominciando innanzi tutto a credere alla nostra importanza. Probabilmente l’azione vera di Gesù, per tutto il tempo che dimorò su questa terra, consistette proprio nell’insegnare e far capire agli uomini (che sino allora si erano considerati meno che foglie portate dal vento) che essi erano invece per Dio qualcosa di essenzialmente irrinunciabile. Nell’amore si raggiunge il punto nel quale si capisce tutto; e si capisce anche come a Dio sia potuto venire l’idea di creare tutto ciò che esiste e consente a noi di esistere. Perciò chiamiamo questa forza (che sta dietro ogni cosa, che non conosciamo ma alla quale tuttavia crediamo) amore. Infatti, solamente questo sentimento umano postula se stesso come infinito ed è in base ad esso che comprendiamo alla fin fine ogni cosa, la quale altrimenti ci dovrebbe apparire quasi un non senso, come la negazione di ogni logica e una mera assurdità. Solo nell’amore ogni cosa si inquadra»8.

D’altronde tutte le ricerche della scuola freudiana hanno evidenziato il bisogno vitale dell’amore, della tenerezza e della protezione che ha il bambino nella sua ostinata ricerca d’identità. Qualsiasi frustrazione d’amore diventerà ostacolo al suo naturale sviluppo e potrà impedirgli, più tardi, di diventare maturo. Della “nevrosi da abbandono”, descritta dai freudiani, riscontriamo, in varia misura, i sintomi nell’umanità intera perché, per quanto grande possa essere l’amore dei genitori, presenta pur sempre qualche lacuna. La Bibbia perciò ci descrive l’umanità eternamente inquieta, chiusa, dura e sviata, in preda ad un’amara nostalgia del Paradiso perduto. Unica risposta è l’amore di Dio. E a questo proposito ne sapeva qualcosa lo psicologo svizzero Paul Tournier che ha scritto di se stesso: «Rimasto orfano di entrambi i genitori, non sono riuscito a superare i traumi di questa disgrazia se non quando ho capito l’immensità dell’amore di Dio»9.

Un’esperienza sconvolgente

Tra l’altro la scoperta di Dio Amore si esplica in un atteggiamento psicologico “nuovo” che trova motivo di esistere nell’esperienza profonda dell’essere amati da un Padre, dalla sensazione unica di essere preziosi agli occhi del Padre, e dalla certezza che tutti i propri sforzi per una vita produttiva e buona sono sostenuti da un provvidente e protettivo Padre. E con ciò si raggiunge una non indifferente maturità psichica perché chi è convinto che Dio perdona le sue debolezze è più disposto ad accettare le imperfezioni, le mancanze e i difetti del proprio comportamento. La convinzione che Dio lo può ancora amare al di là di tali imperfezioni serve da difesa di fronte alle domande dell’inesorabile e insaziabile Super-Io.

Spesso e giustamente si parla di amare per primi, cioè di amore “attivo”; ma per eseguire bene ciò, è necessario ricordarsi dell’amore “passivo”, cioè dell’amore ricevuto dall’essere amati da qualcuno, dell’esperienza di gioia e di libertà che riempie ogni essere umano quando si sente amato. Non a caso, solo in forza di questo amore passivo è possibile crescere e restare addirittura in vita, come accade ai bambini.

Ma anche se nell’infanzia non si riceve sufficiente amore è sempre possibile amare per primi ricordandoci dell’amore passivo dell’esperienza travolgente di Dio Amore, perché come dice la Sacra Scrittura: «Dio ci ha amati per primo» (1Gv 4, 19). Quindi amare per primi presuppone la convinzione interiore e forte dell’essere amati da Dio in maniera personalissima. Lo dice anche questo detto: «È necessario sentire la mano di Dio sulla propria spalla per poter essere la sua mano sulla spalla degli altri». L’esperienza della mano di Dio su di noi, il sentire nel più profondo di noi stessi d’essere amati personalmente da Dio Amore, è forse l’esperienza più sconvolgente che possa capitare all’essere umano, perché va ben oltre l’esperienza dell’amore-naturale di cui tipica espressione è l’amore materno, già di per sé abbastanza grande, cosa che il sacerdote psicanalista Marc Oraison conferma con queste parole: «Un giorno nello sguardo dei genitori chini su di me, mi sono reso conto che io esistevo. E ho riso di gioia. Un giorno, nello sguardo che mi rivolgeva il Verbo incarnato, mi sono reso conto che io esistevo in modo ben più grande di quanto supponessi»10.

Amore materno e Amore divino

Ma l’amore di Dio rispetto a quello naturale dei genitori, e in particolare della madre, non è soltanto più grande ma antecedente ad esso, viene prima. C’è una lirica di Hölderlin, intitolata All’Etere, che nei versi iniziali ce lo ricorda:

«Fido e amorevole come te     
nessuno fra gli dèi e gli uomini           
m’allevò, o Padre Etere!        
Prima ancora che la madre      
nelle braccia mi prendesse      
e mi nutrisse al suo seno,                    
Tu già mi reggevi teneramente
e un filtro celeste,      
col sacro alito mi versavi        
nel germogliante petto»11.

 

L’identità dell’essere umano può paragonarsi per analogia all’identità di un libro: sappiamo dove e quando è stata terminata la stampa di un libro, ma non è certo nella tipografia, sotto le dita esperte dell’operaio che l’ha composto, che ha preso la nascita, perché è il genio umano dell’autore che l’ha generato. Così è l’essere umano: sappiamo dove e quando è stata terminata la gestazione, ma non è certo dal grembo materno, sotto le dita esperte della natura che l’ha composto, che ha preso la nascita. È il soffio divino, “l’amorevole sacro alito”, direbbe Hölderlin, che l’ha fatto nascere.

Ma perché, a differenza di gran parte della psicologia, l’amore della figura materna a nostro avviso non corrisponde totalmente al fondamento della propria identità, mentre lo è la scoperta di Dio Amore?

Vorrei citare un brano di Jung che ci servirà per offrire utili considerazioni in merito. Egli scrive: «Tra tutti i miei pazienti nella seconda metà della loro vita, non ve n’era uno i cui problemi in ultima analisi non riguardassero la ricerca di un senso religioso della vita. Non è esagerato dire che ognuno di essi era ammalato perché aveva perso ciò che una religione vitale è in grado di dare ai credenti, e nessuno di loro è stato veramente curato senza un ritorno ad una visione religiosa»12.

Qui Jung parla della famosa “crisi della mezza età” e precisamente della seconda metà del processo di “individuazione” (dove per individuazione intende quel processo che crea un individuo psicologico il quale realizza il Sé inteso come senso della nostra vita). A questo proposito uno psicoanalista junghiano come E. Edinger13, ha tracciato di recente un’utile caratterizzazione delle differenze tra la prima e la seconda metà dell’individuazione, nei termini di una relazione dialettica tra l’Io (inteso come Io inferiore, personale e cosciente) e il Sé (inteso come Io superiore, sovrapersonale e supercosciente), per spiegare come si snoda lo sviluppo evolutivo dell’identità:

a) L’Io identificato con il Sé (nella nascita e nella prima infanzia).

b) L’Io alienato dal Sé (nella crescita e nell’adolescenza).

c) L’Io riunito con il Sé (nell’età adulta).

Secondo questo schema, la prima metà della vita vede un graduale distacco dell’Io dal Sé e la seconda il loro graduale riavvicinamento. Senza entrare nei dettagli tecnici della psicologia junghiana, possiamo dire che nella terza relazione, quella dell’Io riunito con il Sé, ci troviamo di fronte al raggiungimento di quella realtà psicologica che il filosofo P. Ricoeur chiamava seconde naïveté (seconda innocenza), cioè di una specie di “infanzia spirituale” dove viene ripristinato un atteggiamento tipicamente infantile: fatto di totale e fiducioso abbandono nelle mani di un “Altro” con il quale si ha un rapporto d’amore; fatto di meraviglia e di candore davanti alle cose vedendole sempre nuove; fatto di tranquilla sicurezza e di assenza d’artificiosità nel giocare creativamente con la realtà affrontandola con semplicità.

Questo è l’essere umano maturo, che diventa innocente per la seconda volta nella sua vita, dopo l’innocenza vissuta da bambino. D’altra parte Gesù non ci ha invitati a restare bambini ma a diventare come bambini.

E questa seconda innocenza, questa infanzia spirituale, è possibile solo se l’Io viene perso, lasciato andare, affinché diventi tutto dono per amore di Dio. Insomma la vita umana è un continuo emergere da una fase iniziale di simbiosi e dipendenza con la madre, su su fino all’autonomia e all’individualità dell’età dello sviluppo. Questa evoluzione però raggiunge la vera maturità quando nell’età adulta si accede alla dimensione del sentirsi dipendenti da Qualcuno, che non è certamente la figura materna di un tempo bensì Dio-Padre che è Amore. In altre parole, si può quindi dire che dei tre momenti evolutivi ora citati:

1) fusione e dipendenza con la madre nell’età infantile;

2) individualità e autonomia nell’età dello sviluppo;

3) dipendenza da Dio Amore-Padre come infante spirituale nell’età adulta,

il primo e il terzo si rassomigliano ma non sono la stessa cosa.

“Essere unità è divino e buono”

Comunque è interessante constatare come un’altra brevissima lirica di Hölderlìn confermi intuitivamente questa sorta di ripartizione dello sviluppo dell’essere umano in tre fasi, dove nei primi due ci sono tratti problematici, mentre nel terzo essi sono assenti.

Questa lirica si intitola Radice di ogni male e dice:

«Essere unità è divino e buono.           
Da dove viene allora il malanno umano?          
Dall’essere soltanto uno e una cosa»14.

Dove per una cosa (nell’originale tedesco è eines) si intende la prima fase, quella della simbiosi con la madre, dove per uno (nell’originale einer) si intende la seconda fase, quella dello sviluppo e dell’autonomia dell’individuo, e infine per unità (nell’originale einig) si intende la terza fase, quella della scoperta di Dio Amore.

Ma anche dal versante più espressamente psicologico numerose sono le conferme a questa ripartizione dello sviluppo in tre fasi.

Per esempio lo psicologo statunitense di scuola esistenzialista Paul Vitz quando critica negli ambienti psicologici la tendenza al “selfismo”, cioè al culto di se stessi, tratteggia in tre fasi lo sviluppo psicologico del sé:

1) il sé ingenuo o il sé come oggetto (esperienza fusionale inconsapevole);

2) il sé selfista o il sè come soggetto (indipendente, ribelle, autonomo, ecc.);

3) il sé trascendente o il sé come oggetto  di Dio.

Scrive Vitz: «Il tipo di pensiero caratteristico della fase terza o trascendente si esprime perfettissimamente in Gesù Cristo. In prospettiva psicoanalitica si può intendere il pensiero della fase prima come il processo di pensiero primario; quello della fase seconda come il processo secondario: l’esame della realtà dietro lo sviluppo dell’ego. Spingendo questa logica un po’ più oltre, affermo che esiste ciò che si può dire pensiero terziario, che trascende qualitativamente il pensiero secondario»15.

Ma anche la scuola analitica adleriana si colloca sulle medesime conclusioni: mi riferisco a Fritz Kunkel, allievo di Adler negli anni ’50, e alla sua dialettica dell’egocentrismo. Anch’egli distingue tre tappe nello sviluppo della personalità:

1) l’Io sperduto ancora tra gli altri, poco differenziato;

2) la crescita dell’Io quale lotta contro gli altri: l’Io contro il mondo;

3) il consolidamento della personalità tramite il trionfo del noi, che è superamento dell’egocentrismo in una forma di vita corale, che egli ha chiamato “nostrismo”16.

Insomma questa terza fase psicologica dello sviluppo umano, che abbiamo dedotto partendo dall’ “Io riunito con il Sé” di Edinger, per passare alla seconde naïveté di P. Ricouer, poi all’ “unità divina e buona” di Hölderlin, ed al “sé trascendente, espresso perfettissimamente da Gesù” secondo Paul Vitz, non solo è Dio Amore a fondamento della propria identità, ma il “nostrismo corale” di Kunkel, è anche essenzialmente “comunitaria”, come ha sottolineato nitidamente Chiara Lubich quando a Malta, parlando degli aspetti psicologici di Dio Amore, termina proprio con un riferimento alla “comunione sociale”.

Dice infatti Chiara: «In psicologia si sa per certo che il bisogno fondamentale di una persona è di essere riconosciuta nella sua propria identità unica e irripetibile, di non essere considerata un numero o un oggetto. Normalmente in genere questa sicurezza viene dai genitori, dalla famiglia, dalle doti, dalla educazione ricevuta, per cui si sente se stessa, distinta dagli altri; ma tutte queste cose possono venire relativizzate (gli altri non la riconoscono, non la capiscono, non la apprezzano, e perciò cade nel senso di insignificanza e nella depressione). Ora, la scoperta e il raggiungere la certezza che Dio l’ha voluta e l’ama (che non è abbandonata al caso o a un destino cieco), è la base perché abbia quella sicurezza psicologica che dà senso alla sua vita e uno scopo nel mondo. Solo la certezza che Dio è amore-anche-per-lei, le dà la forza di continuare a uscire da sé, a vivere, ad amare e a creare comunione sociale»17.

Revisionare
la psicologia dell’identità

A Malta, con questo passaggio, Chiara Lubich ha posto le basi per una vera e propria revisione di tutta la psicologia dell’identità, evidenziando una prospettiva con cui cogliere il nostro vero e autentico senso dell’identità. Al punto che non dovremmo più dire, come ha esposto Silvano Cola, il cartesiano “Penso dunque sono”, bensì: “Amo dunque sono”.

È significativo, a questo proposito, anche quest’altro brano della Lubich: «Il nostro destino è come quello degli astri. Se girano sono, se non girano non sono. Noi siamo (nel senso che non la nostra vita, ma la vita di Dio vive in noi) se non smettiamo d. L’amore ci stanzia in Dio e Dio è l’Amore»18.

Soltanto l’amare, dunque, mi rivela chi sono, soltanto in Dio Amore trovo il fondamento ultimo della mia propria identità, quell’identità umana che, come si è anticipato nelle righe introduttive, corrisponde all’identità fornita dalla figura di Gesù, perché il mondo è “in Cristo” dall’inizio (cf Col 1, 15).

Vale la pena soffermarci ancora su questa prospettiva che ci viene offerta dalla spiritualità dell’unità e che è di valenza anche psicologica. Con una splendida immagine, Chiara parla in questi termini del legame del mondo creato (tra cui c’è l’umanità e quindi anche la propria identità umana) con Gesù, legame che trova origine e fondamento in Dio Amore: «Quando dal sole vedo proiettato un laghetto sulla parete e vedo il gioco dell’acqua nella parete che trema in accordo col brivido dell’acqua vera, penso alla creazione. Il Padre è il sole vero. Il Verbo è l’acqua vera. Il laghetto riflesso è il creato. Il creato è il nulla rivestito del Verbo: il Verbo riflesso. Solo che, mentre sulla parete il laghetto è falso, nella creazione il Verbo è presente e vivo: sono la Vita”»19.

Insomma tutto parte dal sole (Dio Amore), il sole che si rispecchia nel laghetto (Gesù), ma che invia dal laghetto i suoi raggi sulla parete, una parete dunque sulla quale il sole produce la realtà del creato (in particolare l’identità umana) sul modello di Gesù.

C’è però – osserva Chiara – una differenza tra l’immagine e la realtà: l’immagine sulla parete non ha consistenza, perché non c’è il laghetto reale sulla parete, mentre nella creazione la presenza di Gesù è reale ed Egli dà al creato (quindi anche all’identità umana) la sua identità propria, appunto come dice Chiara: «Il nulla rivestito del Verbo».

Più bella definizione psicologica dell’essere umano non l’ho mai incontrata: solo con la scoperta di Dio Amore si raggiunge il vero fondamento della propria identità, solo identificandosi in Gesù il “Dio umanato”, come lo definisce Chiara20, si realizza il pieno umanesimo.

L’essere umano dunque come “nulla d’amore”, amore che ci viene comunicato dal Verbo e senza il quale l’essere umano rimane solo un nulla e basta, un nulla che è disperatamente alla ricerca di qualsiasi cosa dove poter poggiare la propria identità.

 

Pasquale Ionata

 

 

 

 

 

1)   H. Haering, La storia di Gesù fondamento e origine di identità religiosa, in “Concilium” 36 (2000) p. 154.

2)   In E. Erickson, Il giovane Lutero, Armando Ed., Roma 1976, p. 116.

3)   Disagio della civiltà, Opere, vol. 10, Boringhieri, Torino 1976, p. 619.

4)   Blatt-Zutoff, in Chadwick e altri, La terapia cognitiva, Ed. Astrolabio, Roma 1997, p. 25.

5)   Terapia della Realtà, Ed. Astrolabio, Roma 1971, p. 26.

6)   Cit. in M. Cerini, Dio Amore nell’esperienza e nel pensiero di Chiara Lubich, Città Nuova Ed., Roma 1991, p. 16.

7)   Cit. da G. Rossé, La Creazione, in “Nuova Umanità” 23 (2001/6) p. 830.

8)   E. Drewermann, in I. Baumgartner, Psicologia pastorale, Borla Ed., Roma 1993, p. 524.

9)   Problemi di vita, Ed. Paoline, Roma 1984, p. 19.

10) Una morale per il nostro tempo, Borla Ed., Torino 1970, p. 35.

11) Tutte le liriche, Mondadori Ed., Milano 2001, p. 651.

12) I rapporti della psicoterapia con la cura d’anime, in Psicologia e Religione, Opere, vol. 11, Boringhieri, Torino 1979, p. 315.

13) In M. Palmer, Freud, Jung e la religione, Ed. Centro Scientifico, Torino 2000, p. 198.

14) Op. cit., p. 773.

15) Psicologia e culto di sé, Ed. Dehoniane, Bologna 1987, p. 139.

16) In G. Torellò, Psicoanalisi o Confessione?, Ed. Ares, Milano 1989, p. 34.

17) Lezione per la Laurea Honoris Causa in Lettere (Psicologia), Università di Malta 26-2-1999, in “Nuova Umanità” 21 (1999/2) p. 185.

18) Disegni di luce, Città Nuova Ed., Roma 1996, p. 78.

19) Cit. da G. Rossé, art. cit., p. 826.

20) L’attrattiva del tempo moderno, Scritti Spirituali/1, Città Nuova Ed., Roma 19974, p. 49.