Prospettive ecclesiologiche – una chiave di lettura

 

Gesù abbandonato e la Chiesa:

mistero – comunione – missione

 

di Hubertus Blaumeiser

 

 

In questa meditazione teologica, l’autore rivisita le tre dimensioni fondamentali dell’ecclesiologia – mistero, comunione e missione – alla luce del mistero pasquale e le approfondisce dalla prospettiva dell’abbandono di Gesù in croce, così come è stato sviscerato nell’esperienza e nel pensiero di Chiara Lubich. Emergono significativi stimoli per una realizzazione sempre più piena della comunione ecclesiale e della missione del Popolo di Dio in seno alla vita dell’umanità.

 

 

 

Mistero:

“La doglia di un Parto divino” :

 

      La giovane Chiesa, sin dall’inizio, ravvisava nella morte di Gesù in croce il momento della sua nascita. Lo afferma in maniera scultorea Agostino: “Moriente Christo, Ecclesia facta est – per la morte di Cristo, nasce la Chiesa” (Enarr. in Ps. 127, 11). Gesù è il divino chicco di grano che “cade in terra e muore”, e proprio per questo “porta molto frutto” (cf Gv 12, 24). Commenta Pasquale Foresi: “Cristo ha seminato un corpo particolare e risuscita Corpo mistico, risuscita Chiesa”[1].

 

Il mistero pasquale e la nascita della Chiesa

 

      Il mistero pasquale è in effetti – come testimoniano gli Atti degli Apostoli – al centro della vita della Chiesa nascente: l’annuncio di Gesù crocifisso e Risorto è la sintesi del Vangelo che gli Apostoli portano a tutte le genti; la frazione del pane eucaristico, nel quale si rende presente l’offerta del corpo e del sangue di Gesù in croce, è al cuore delle riunioni della comunità cristiana; ben presto, poi, i primi discepoli condividono il destino del loro Signore crocifisso, versando il loro sangue per lui e con lui. E proprio così il cristianesimo si diffonde: “Sanguis martyrum, semen christianorum”, dice l’antico detto cristiano.

      Paolo si muove in questa stessa direzione. Molto suggestivo è Ef 2: versando il suo sangue in croce, Cristo ha abbattuto “il muro di separazione che era framezzo”, per creare in se stesso di Giudei e pagani “un solo Uomo nuovo”. È questa la comunità della Chiesa, così come la concepisce l’Apostolo: molti che, grazie alla partecipazione alla morte e risurrezione di Gesù, sono diventati uno – un solo uomo nuovo, una sola persona in Cristo (cf Gal 3, 28).

      Non meno evidente è il legame fra la morte di Cristo in croce e la nascita della Chiesa secondo il quarto Vangelo. “Quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me”, dice Gesù quando è ormai vicina la sua “ora” (Gv 12, 32); e parla appunto del chicco di grano. È dal suo amore “fino alla fine” (13, 1), fino al dono della vita (cf 15, 13), che nasce la comunità della Chiesa.

      Così Gesù che offre se stesso in croce, secondo l’unanime testimonianza del NT, è all’origine di quella “nuova comunità d’amore”[2] che unisce tra loro vicini e lontani, persone di nazionalità, condizione sociale e sesso diversi (cf Gal 3, 28; Col 3, 11), per far di loro “un cuor solo e un’anima sola”, al punto che essi si sentono spinti a realizzare tra loro anche la comunione dei beni (cf At 4, 32).

 

L’icona della Croce e l’icona della Pentecoste

 

      In sintonia con queste linee bibliche, i Padri della Chiesa, quando si interrogano sull’origine di quella vita di comunione (koinonía) che è la Chiesa, fissano lo sguardo inevitabilmente su Gesù crocifisso. Sangue e acqua che scorrono dal suo fianco squarciato simboleggiano ai loro occhi i sacramenti del battesimo e dell’Eucaristia da cui nasce il nuovo Popolo. E Maria ai piedi della croce è per loro l’archetipo della Chiesa: la nuova Eva tratta dal fianco di Cristo, il nuovo Adamo[3].

      Ma non meno importante per i Padri è il giorno della Pentecoste, quando la giovane Chiesa, ricolma dello Spirito, esce a vita pubblica e inizia la sua corsa per fare di tutti uno. “Ciò che Babele disperse la Chiesa raccoglie”, dirà Agostino. “Molte lingue diventano una: non ti meravigliare: questo lo fa l’amore”[4].

      L’offerta di Gesù in croce e la Pentecoste, dunque, come l’ora di nascita della Chiesa; due momenti apparentemente distanti nel tempo, ma in realtà due aspetti, due facce, dello stesso evento pasquale.

      Così, infatti, li vede il quarto Vangelo quando, con parole cariche di mistero, parla in questi termini della morte di Gesù: “E, chinato il capo, consegnò lo spirito (parédoken tò pneuma)” (19, 30). Commenta la Traduzione ecumenica della Bibbia: “Giovanni ha voluto suggerire che è mediante la sua morte che Gesù può trasmettere lo Spirito”. E Yves Congar: “Gesù soffia su Maria e Giovanni, che sono come la Chiesa ai piedi della croce. Gesù trasmette lo Spirito (…). Molti Padri l’hanno capito così”[5].

 

L’abbandono di Gesù e il dono dello Spirito

 

      Alla luce dell’abbandono di Gesù, Chiara Lubich ci offre un approfondimento di questa prospettiva: vi è infatti un legame particolare fra l’abbandono di Gesù in croce e il dono dello Spirito. “E ciò semplicemente perché quando si dona qualcosa occorre sentirne la privazione”[6]. Gesù ci dona lo Spirito che lo lega in profondissima comunione personale col Padre, e proprio per questo sperimenta nella sua natura umana l’abbandono.

      È questa un’intuizione profonda che Chiara ha avuto già nei primi anni del Movimento e che lei ha espresso in appunti come questi:

      Quando Gesù abbandonato soffrì, “tolse da Sé l’Amore e lo donò agli uomini facendoli figli di Dio. (...) Gesù si fece Nulla; donò tutto e questo tutto non andò perduto [per]ché andò nell’anima degli uomini”.

      “Gesù Abbandonato è amore materno. Il suo grido rappresenta la doglia d’un Parto Divino degli uomini a figli di Dio. In quel momento inizia la Chiesa, [per]ché in quel momento (…) donò lo Spirito Santo che poi cadrà – dopo la sua Ascensione – sugli Apostoli raccolti con la Mamma Celeste”[7].

 

Comunione:

“Pure noi dobbiamo essere piagati”

 

      Ma in che modo ciò che Gesù crocifisso e abbandonato ci ha donato, diventa la nostra vita? E come quello che noi, come Chiesa, da sempre siamo per dono di Cristo, può realizzarsi e manifestarsi con sempre maggiore pienezza?

      Sta qui tutta l’importanza di quello che Hans Urs von Balthasar ha chiamato il “profilo mariano” della Chiesa, ovvero la Chiesa come vita, come santità, come costante eco del duplice “fiat” – quello dell’annunciazione e quello sotto la croce – con cui Maria ha corrisposto ai disegni di Dio[8]. Ciò che il Signore ci dà nella dimensione oggettiva del suo agire salvifico, deve infatti trovare risposta in noi che accogliamo e traduciamo in vita quanto egli ci dona.

 

Tre comunioni

 

      A questo proposito l’esperienza e il pensiero di Chiara ci possono offrire indicazioni preziose. Sin dall’inizio, infatti, lo Spirito ha spinto lei e le prime focolarine a vivere costantemente tre “comunioni” che, a ben guardare, sono comunioni con Gesù crocifisso, abbandonato e risorto: la comunione con Gesù nella sua Parola, con lui nell’Eucaristia e con lui nei fratelli.

      È interessante constatare come, in realtà, su tali comunioni, sin dall’origine, poggiava la vita della giovane Chiesa, come ben fa capire il breve profilo con cui gli Atti descrivono la vita della prima Comunità di Gerusalemme: coloro che accolsero la Parola “erano assidui nell’ascoltare l’insegnamento degli Apostoli [= comunione con la Parola] e nell’unione fraterna [= comunione con i fratelli], nella frazione del pane [= comunione con Gesù nell’Eucaristia] e nelle preghiere” (At 2, 42).

      E non è a caso che queste tre comunioni si rispecchiano pure nelle tre parti dell’assemblea domenicale, così come era vissuta nei primi secoli: alla lettura e all’approfondimento della Parola seguiva la celebrazione dell’Eucaristia che poi sfociava in un pasto fraterno, con la condivisione di quello che ciascuno aveva portato.

      Cerchiamo di maggiormente a fuoco il legame fra queste tre comunioni e Gesù crocifisso e abbandonato.

 

La comunione con la Parola

 

      Secondo 1Cor il Vangelo è “parola della croce” che vanifica ogni gloria umana e trasmette invece la potenza, la sapienza e la santità di Dio che consistono nell’agape (cf 1, 18-31)[9], cosicché per Paolo, e per ogni vero credente, accogliere il Vangelo non è altro che entrare nella vita di Gesù crocifisso: “Io ritenni infatti di non sapere altro in mezzo a voi se non Gesù Cristo, e questi crocifisso” (1Cor 2, 2). “Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me…” (Gal 2, 20).

      Inizia così una vita tutta nuova che trova il suo suggello nel Battesimo il quale ha questo preciso significato: con-morire con Cristo e con-risorgere con lui (cf Rm 6, 3-11, ecc.), seppellire l’uomo vecchio per vivere, in Cristo e ad immagine di lui, come creature nuove nell’amore.

      Sono interessanti i paralleli con l’esperienza di Chiara e delle sue prime compagne quando alla fine degli anni ’40 stavano vivendo con particolare intensità la Parola. La vita di ogni Parola – racconta Chiara – operava in loro un medesimo effetto: infondeva in loro l’amore, al punto che ogni nuova Parola, appena vissuta, si trasformava in fiamma, in amore, e la loro vita interiore parve tutta amore.

      Ad un certo punto vivevano la Parola: “Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato” (Mc 15, 34; Mt 27, 46), ed hanno avuto l’impressione che in essa si riassumessero tutte le Parole della Scrittura. Così Gesù abbandonato parve loro la Parola per eccellenza, la Parola tutta spiegata, aperta completamente.

      Compresero che le varie Parole di Dio, pur diverse nel loro contenuto, tutte erano presenza di Gesù morto e risorto e portavano a un medesimo risultato: la vita di ogni Parola le conformava a Gesù crocifisso e abbandonato, facendole diventare, come lui, un nulla d’amore; nulla di sé per essere tutti per Dio, nella sua volontà, e per gli altri[10].

      Sintetizziamo quanto emerso: è attraverso la Parola e la vita della Parola che Gesù crocifisso e abbandonato ci rende partecipi del suo essere amore; ci fa morire a noi stessi e fa di noi altri Cristo, persone che vivono, come lui, pienamente per Dio e per gli altri. È questo l’inizio, il fondamento di quella vita tutta in comunione che è la Chiesa.

 

La comunione con Gesù nell’Eucaristia

 

      Gesù però non voleva soltanto conformarci a sé, ma  farci un tutt’uno con lui: il suo Corpo che vive la sua stessa vita ed è nel mondo presenza di lui.

      Come i chicchi di grano vengono macinati per diventare pane, e come gli acini d’uva vengono spremuti per diventare vino, così noi per l’Eucaristia – se corrispondiamo alla grazia che essa ci comunica – veniamo fusi in uno con Gesù e fra noi: diventiamo Gesù. E l’Eucaristia ci porta là dove egli è: nel Seno del Padre, in Cielo. “Padre, voglio che anche quelli che mi hai dato, siano con me dove sono io, perché contemplino la mia gloria, quella che mi hai dato” (Gv 17, 24).

      Ma che cos’è l’Eucaristia se non – come afferma il Concilio di Trento – il dono del corpo e del sangue, dell’anima e della divinità di Gesù[11]? Dono che egli ha fatto anticipatamente nell’ultima Cena, ma che trova la sua pienezza di significato a partire dalla sua estrema offerta in croce dove egli dona per noi il suo corpo e il suo sangue e – nel momento dell’abbandono – la sua stessa unione col Padre: lo Spirito.

      Nell’Eucaristia, dunque, è Gesù abbandonato che ci unisce a sé e tra noi; rompe le barriere della nostra individualità che ci separa dagli altri, e così ci fa suo Corpo, Chiesa: “il Cristo totale” (s. Agostino).

      Ma tale dono raggiunge veramente la sua finalità, se accolto e vissuto. Vale a dire: se l’amore del Cristo abbandonato non ci viene solo comunicato dall’Eucaristia, ma diventa vita nostra, la misura e la dinamica dei nostri vicendevoli rapporti. Arriviamo così alla terza comunione.

 

La comunione con il fratello

 

      L’unità con Gesù, suggellata dall’Eucaristia e vissuta, è fonte di una nuova socialità che ha il suo modello nella comunione stessa delle tre divine Persone. “Come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi una cosa sola” (Gv 17, 21).

      Ne è testimonianza eloquente l’esperienza della Chiesa nascente della quale gli Atti ci dicono che “la moltitudine di coloro che erano venuti alla fede aveva un cuor solo e un’anima sola e nessuno diceva sua proprietà quello che gli apparteneva” (At 4, 32).

      Similmente, essere “Chiesa” per Paolo significa – come abbiamo già ricordato – essere come una sola Persona in Cristo (cf Gal 3, 28), essere suo Corpo che lo rende presente e visibile; ma ciò richiede la più piena unità reciproca che è comunione di anima e dei beni (cf 2Cor 8-9), comunione di pensiero e del sentire profondo[12].

      Giacché questo, anche ai tempi di Paolo, non era per nulla scontato, come mostrano le forti divisioni ad esempio nella comunità di Corinto, egli non si stanca di additare Gesù crocifisso come modello decisivo della comunione ecclesiale.

      Dopo aver invocato l’unione degli spiriti, della carità e dei sentimenti come piena attuazione della vita cristiana (cf Fil 2, 2), l’Apostolo si rivolge così ai cristiani di Filippi: “Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù” e parla quindi del radicale spogliamento con cui Gesù per noi uomini ha posposto la sua stessa uguaglianza con Dio e ha affrontato la morte di croce” (Fil 2, 5-8).

      Un amore che, sull’esempio di Cristo, si realizza in un simile svuotamento di sé per vivere l’altro, fino a mettere a rischio la certezza e la percezione della propria unione con Dio: è questa per l’Apostolo la via e la regola-base per giungere alla pienezza della comunione ecclesiale.

      Gesù crocifisso è dunque la “legge” che deve informare tutti i rapporti nella Chiesa, e non solo fra i singoli cristiani, ma anche fra ministri e fedeli, fra carismi, Movimenti, Ordini religiosi, fra le diverse Chiese locali, ecc. “Ognuno di voi, con tutta umiltà, consideri gli altri superiori a se stesso” (Fil 2, 3).

      Quando nacque la spiritualità dell’unità, lo Spirito ha indirizzato Chiara Lubich proprio in questa direzione. Sin dai primi anni, infatti, lei comprese che, per essere uno, bisognava rivivere in qualche modo quella stessa “notte di Dio” che Gesù ha vissuto nell’abbandono. Solo così, infatti, persone diverse tra loro possono innestarsi l’una nell’altra “a corpo mistico”.

      Ma ciò vuol dire: per realizzare in profondità quella partecipazione alla vita trinitaria che è l’essere profondo della Chiesa, ad immagine di Gesù abbandonato dobbiamo essere pure noi – come ha scritto Chiara in un appunto di tanti anni fa – “piagati e cioè vuoti assolutamente di noi, anche di Dio in noi”, amarci gli uni gli altri come Gesù, con un amore che, per il fratello o la sorella, sa posporre persino la propria esperienza d’unione con Dio, per unirsi a Dio nell’altro.

      E qui viene da fare una considerazione. Non è a caso che la giovane Chiesa nasce da quella tremenda crisi che è stata per i discepoli la crocifissione di Gesù. In quell’esperienza loro hanno vissuto un vero annullamento, fino a perdere anche quanto avevano di più sacro. È da persone così – che nella più completa povertà interiore, ad immagine di Maria e di Giovanni sotto la croce, vivono nella reciprocità dell’amore – che lo Spirito può plasmare la prima Comunità che vive come un cuor solo e nella quale è presente Cristo stesso[13].

      Gesù crocifisso e abbandonato è dunque non solo l’origine della Chiesa, ma è anche tutta la sua vita. Solo là dove questa vita è vissuta, la Chiesa si fa riconoscere nella sua vera identità. Rivivendo, nella reciprocità dell’amore, quel farsi-nulla-per-amore che ci è comunicato da Gesù abbandonato, diventiamo lui, Uno in lui, e allora sul volto della Chiesa affiora la sua anima: la vita stessa di Gesù, il suo Amore, lo Spirito che fa dei molti un’anima sola[14].

      Ma allora l’Abbandonato non è più abbandonato e trova la piena risposta al suo dono; e quindi si manifesta in mezzo a noi, nella sua Chiesa, come Risorto. Una Chiesa così dice con tutto il suo essere: Gesù, la Trinità; è tutta vita, un anticipo di Paradiso. E si fa – come dice Chiara con una bella espressione – “ariete della Luce”. Come nel giorno della Pentecoste quando, al cospetto della prima Comunità di Gerusalemme appena nata dallo Spirito del Risorto, i non credenti “si sentirono trafiggere il cuore” (At 2, 37).

 

 

Missione:
“Andrò per il mondo cercandolo…”

 

      Ma il Concilio Vaticano II, come sappiamo, accanto alla comunione, ha messo in luce pure l’aspetto della missione. Il nuovo Popolo di Dio – afferma il Concilio – è “per tutta l’umanità un germe validissimo di unità, di salvezza e di speranza” (LG 9) e come tale “si sente intimamente solidale con il genere umano e con la sua storia” (GS 1).

      Guardiamo anche a questa dimensione dalla prospettiva di Gesù crocifisso e abbandonato.

      Afferma la Lumen Gentium al n. 8: “Come Cristo ha compiuto la sua opera di redenzione attraverso la povertà e le persecuzioni, così pure la Chiesa è chiamata a prendere la stessa via per comunicare agli uomini i frutti della salvezza. Gesù Cristo ‘pur essendo di natura divina... spogliò se stesso, prendendo la natura di un servo’ (Fil 2, 6-7) e per noi ‘da ricco che egli era si fece povero’ (2 Cor 8, 9): così anche la Chiesa...”.

      È questo un cenno che il Concilio, in realtà, nella sua ecclesiologia di comunione ha più presupposto che sviluppato. Ed è qui che la spiritualità dell’unità, forse può contribuire in un modo tutto speciale alla sua attuazione: Gesù crocifisso e abbandonato come chiave, come motore, come anima della missione.

      Ha scritto Chiara ancora nei primi anni del Movimento dei focolari:

      “Ho un solo Sposo sulla terra (…)         

      Perciò il suo è mio (…).

      E suo è il Dolore universale e quindi mio.

      Andrò per il mondo cercandolo in ogni attimo della mia vita. (…)

      Mio il dolore che mi sfiora nel presente. Mio il dolore delle anime accanto (…). Mio tutto ciò che non è pace, gaudio, bello, amabile, sereno…, in una parola: ciò che non è Paradiso”.

      È questa, a ben guardare, una formidabile Magna Charta della missione.

      Sembra risuonare in queste parole il più genuino pensiero biblico, e in modo particolare quello di Paolo. L’Apostolo non si stanca di riflettere su questo mistero: Cristo “si è fatto maledizione per noi” (Gal 3, 13). Vale a dire: nel Cristo crocifisso, Dio ha preso dimora in mezzo ai peccatori, anzi si è fatto un tutt’uno con loro; e proprio così ha effuso lo Spirito sull’umanità intera.

      Nasce da qui l’incondizionata solidarietà dell’Apostolo con ogni essere umano: “mi sono fatto tutto a tutti, per salvare ad ogni costo qualcuno” (1Cor 9, 22). Nella Lettera ai Romani, considerando il dramma del suo Popolo, che non ha accolto il Cristo, Paolo si spinge ancora oltre: “Vorrei infatti io stesso essere anatema, separato da Cristo a vantaggio dei miei fratelli” (Rm 9, 3).

      È questa un’esperienza personale dell’Apostolo, ma che in realtà delinea la chiamata della Chiesa intera. Così come avvenne per Chiara quando scrisse frasi come queste: “Io voglio essere [prendere su di me] la miseria del mondo: la voglio, la faccio mia, onde redimerla in Misericordia”. O ancora: “Ad ogni sbaglio fatto dal fratello chiedo io perdono al Padre come fosse mio ed è mio perché il mio amore se ne impossessa”[15].

      Con Gesù abbandonato, il Popolo di Dio è chiamato a recarsi extra muros: fuori dalle mura del recinto sacro (cf Eb 13, 12-13), per andare incontro all’umanità intera, e specialmente là dove più vive nell’oscurità, nell’angoscia, nella lontananza da Dio; e per sprigionare proprio in questo modo lo Spirito del Risorto.

      Ma – possiamo chiederci – fuori dal recinto sacro, che cosa incontra la Chiesa? E la risposta sorprende: grazie all’abbandono di Gesù, in tutto ciò che sa di dolore e di separazione da Dio non si trova semplicemente il vuoto e il peccato, ma Cristo stesso il quale, come afferma il Concilio, “si è unito in certo modo ad ogni essere umano”. E il Vaticano II incalza: “Agnello innocente, col suo sangue sparso liberamente ci ha meritato la vita, e in lui Dio ci ha riconciliati con se stesso e tra noi. (…) E ciò non vale solo per i cristiani (…). Cristo, infatti, è morto per tutti” (GS 22).

      Ovunque il Popolo di Dio si rivolge, il suo Sposo abbandonato l’ha già preceduta. Cristo, infatti, è – come osserva Tommaso d’Aquino – “capo di tutti gli uomini”, anche se “secondo gradi diversi”[16].  Chiave di comprensione di quest’affermazione è l’abbraccio universale del Crocifisso[17]. Egli ha ormai fatto sua ogni realtà umana. Come la Sposa del Cantico dei Cantici, la Chiesa è chiamata perciò a cercarlo e scoprirlo dovunque; e in questo modo far sì che l’Abbandonato non sia più abbandonato, ma che possa sprigionare il suo Spirito e manifestarsi come Risorto, l’Uomo nuovo che ricapitola in sé tutta l’umanità e il cosmo intero (cf Ef 1, 10).

      Sta qui la radice profonda delle innumerevoli opere per soccorrere coloro che più assomigliano a Gesù Crocifisso: le scuole, gli ospedali, le iniziative caritative; e le più diverse iniziative sociali e di impegno nei vari ambiti della convivenza umana. In qualsiasi campo, la Chiesa trova il suo Sposo e, amandolo proprio in ciò che è più difficile, è chiamata a propagarvi la comunione, la vita trinitaria che fa nuove tutte le cose.

      E sta qui pure la radice e la chiave dei dialoghi inaugurati dal Concilio Vaticano II (cf LG 13-16). Attraverso di essi il Popolo di Dio è chiamato a scoprire e a far fiorire quello che Gesù crocifisso e abbandonato ha seminato in ogni cuore umano ed in ogni cultura.

      Nessuna persona e nessuna situazione umana, in effetti, è estranea allo Sposo. E nessuna persona e nessuna situazione può essere perciò estranea alla Sposa. Ne parla in maniera eloquente un appunto di Chiara Lubich che risale ancora alla fine degli anni ’40: “Io sento di vivere in me tutte le creature del mondo, tutta la Comunione dei santi. Realmente. Perché il mio io è l’umanità con tutti gli uomini che furono, sono e saranno. La sento e la vivo questa realtà: perché sento nell’anima mia sia il gaudio del Cielo, sia l’angoscia dell’umanità che è tutt’un grande Gesù Abbandonato[18]. E voglio viverLo tutto questo Gesù Abbandonato”. È questo, in realtà, l’io della Chiesa, l’io di coloro che hanno spalancato gli orizzonti della propria anima sulla piena dimensione della Chiesa così come è nel disegno del Padre.

      In unione con Gesù abbandonato e conformandosi a lui, la Chiesa è dunque chiamata a percorrere la via del dono più radicale di sé, a svuotarsi, per amore, di ogni ricchezza non soltanto esteriore ma anche interiore, per essere, con Cristo, in seno all’umanità – come dice una suggestiva immagine usata da Chiara – “pupilla dell’Occhio di Dio”: un vuoto pieno d’amore, di Spirito Santo, attraverso il quale Dio può versare la sua vita d’amore sull’umanità e attraverso il quale l’umanità può “vedere” Dio.

 



[1]      Teologia della socialità, Roma 19652, p. 89; cf Durwell, La résurrection de Jésus, Lyon 1961, p. 220.

[2]      È in questa chiave che Benedetto XVI parla della Chiesa nella sua prima Enciclica Deus caritas est.

[3]      Cf. la bella sintesi in CCC 766.

[4]      Sermones, 271: PL 38-39, 1245.

[5]      Je crois en l’Esprit Saint, I, Paris 1979, p. 79. Cf pure le citazioni riportate in: Chiara Lubich, L’unità e Gesù abbandonato, Roma 1984, pp. 86-87.

[6]      Ibid., p. 87. Cf Chiara Lubich, Il grido. Gesù crocifisso e abbandonato nella storia e nella vita del Movimento dei focolari dalla sua nascita, nel 1943, all’alba del terzo millennio, Roma 2000, pp. 23-24 e la citazione di H.U.v. Balthasar ivi messa in nota.

[7]      Per l’immagine delle doglie del parto, che nel NT ricorre in Gv 16, 21, cf Chiara Lubich, Il grido, p. 47 e il brano di H.U.v. Balthasar ivi citato.

[8]      Cf Brendan Leahy, Il principio mariano nella Chiesa, Roma 1999.

[9]      Similmente, pure negli Atti, il contenuto della Parola è essenzialmente l’annuncio di Gesù crocifisso e risorto; e l’effetto di questo annuncio è che coloro che lo ascoltano, si sentono trafiggere il cuore (cf At 2, 37).

[10]    Scrive Chiara in un suo appunto inedito: “Mi è parso allora di capire che in ogni Parola è presente Gesù morto e risorto: nella parte negativa della Parola è presente ed espressa la morte di Gesù, in quella positiva la sua risurrezione. D’altra parte, l’esistenza stessa di Gesù, interamente vissuta nell’amore totale verso il Padre e verso gli uomini, è stata tutta morte e risurrezione: espressione e rivelazione, sulla terra, del non essere ed essere dell’amore trinitario. La stessa realtà è perciò nella sua Parola, in ogni sua Parola. E la stessa realtà è presente e manifesta nell’esistenza di chiunque vive la Parola, quindi nella vita della Chiesa”.

[11]    Decreto sull’Eucaristia, cap. 3.

[12]    Sono costanti nelle lettere di Paolo, gli inviti alla più piena comunicazione e condivisione: “Vi esorto pertanto, fratelli, ad essere tutti unanimi nel parlare, (…) in perfetta unione di pensiero e di intenti” (1Cor 1, 10). Dio “vi conceda di avere gli uni verso gli altri i medesimi sentimenti ad esempio di Cristo Gesù, perché con un solo animo e una voce sola rendiate gloria a Dio” (Rm 15, 5-6; cf anche Rm 12, 15-16 e 1Cor 12, 26).

[13]    Dovremmo soffermarci qui pure su come Gesù abbandonato è in maniera tutta particolare la chiave del rapporto con chi ha l’autorità nella Chiesa; e su come, vivendo questo rapporto con la misura di Gesù abbandonato, si diventa davvero “Chiesa”. Non lo potremo fare in questa sede. Ricordiamo soltanto la toccante testimonianza che Chiara Lubich ne ha dato nel suo libro Il grido.

[14]    Per lo Spirito Santo come “anima della Chiesa” cf Sant’Agostino, Sermones, 267, 4: PL 38, 1231; LG 7; CCC 797.

[15]    Sarebbe difficile comprendere affermazioni del genere se le intendessimo come espressioni di un individuo. A ben guardare, si tratta piuttosto di un io aperto sulle dimensioni della Chiesa, di quella che i Padri chiamavano l’anima ecclesiastica (l’Anima-Chiesa), e quindi del noi della Chiesa che, per la radicale accoglienza della Parola di Dio e per l’azione dell’Eucaristia, si sa immedesimata con Gesù. Cf. P. Coda, Sulla teologia che scaturisce dal carisma dell’unità, in: Nuova Umanità 18 (1996/2), pp. 156-158. Per l’anima ecclesiastica in Origene ed altri Padri cf H. U. v. Balthasar, Sponsa Verbi, Saggi teologici, vol. II, Brescia 1985, pp. 162-168.

[16]    S.Th. III, q. 8, a. 3 c., citato in LG 16 nota 18.

[17]    Non a caso Tommaso, nel brano in questione, cita 1Gv 2, 2: “Egli è vittima di espiazione per i nostri peccati; non soltanto per i nostri, ma anche per quelli di tutto il mondo”.

[18]    Per il fatto che Cristo, nel suo abbandono, si è immedesimato con l’umanità intera.