Un modo nuovo di pensare cerca di farsi strada nelle vicissitudini e sofferenze dell’umanità di oggi

 

L’alba di un mondo diverso

di Giuseppe Maria Zanghì

 

Questa relazione s’inserisce in un interessante percorso, essendo stata preceduta nella rivista “Gen’s” da diversi articoli e interviste sullo stesso tema, a mo’ di variazioni di una medesima melodia: Ateismo oggi nella cultura d’Occidente (11/1984), Verso una cultura del post-ateismo (1/1997), Una riflessione sul post-moderno (3-4/1998), La dinamica della Scuola Abbà (6/2000), e infine Per una visione sapienziale della cultura contemporanea (1/2002). La presente conversazione, di cui abbiamo rispettato lo stile diretto e colloquiale, fornisce ulteriori spunti ed approfondimenti. Una versione della stessa, più ampia e articolata, è riportata nella rivista “Nuova Umanità” (2/2001), sotto il titolo Quale uomo per il terzo millennio?

Dal mito al “logos”

La posizione originaria dell’umanità, culturalmente, è stata quella del mito, intendendo con questa parola la condizione dell’umanità quando, per così dire, viveva ancora – uso termini più spirituali che culturali – nel grembo del Padre. Direi quasi che era un’umanità ancora indistinta nella sua caratteristica e nella sua fisionomia; e che per questo si muoveva, per così dire, all’interno di Dio. Infatti qual è l’operazione, l’occupazione principale del mito? È di rendere presente l’Archè, rendere presente il tempo originario nel quale ci si situa e nel quale è importante restare per poter dare un senso alla vita.

Tutte le discussioni fatte dall’ottocento in poi intorno al mito ormai sono cadute. Gli studiosi si sono accorti che esso ha una profondissima logica, diversa da quella che conosciamo con l’avvento di un secondo momento, quando l’umanità si è distinta e si è situata non più dentro, ma di fronte a Dio.

È il momento, direi, del logos, della parola, quando l’essere umano prende coscienza della sua soggettività, si situa davanti all’Assoluto e deve trovare il rapporto con l’Assoluto, che non è più quello del mito. Chi ha una certa dimestichezza con Platone, sa bene come in lui si scontravano queste due realtà: il mito e il logos. Questa emergenza del logos è un fenomeno che io chiamo epocale. Karl Jaspers parlava dei grandi momenti assiali. Verso il 600-700 a. C. l’umanità attraversa questo periodo ed entra in una situazione diversa.

Nell’ambito della Grecia assistiamo al nascere, per esempio, di quelli che vengono chiamati, in maniera impropria, i presocratici. In India abbiamo l’emergere di una riflessione speculativa sulla tradizione indù che è caratterizzata dai testi delle Upanishad. Abbiamo il fenomeno dello Zoroastrismo in Iran, del Buddismo ancora nell’India, del profetismo in Israele. Ci accorgiamo che l’essere umano esce, in qualche modo, da questa unità originaria nella quale si trovava – e che chiamiamo mito – e si trova di fronte ad un Assoluto col quale deve stabilire un rapporto, e questo rapporto lo formalizza proprio nella parola, nel logos. Quindi non è solo dei greci l’emergere del logos; tipico dei greci è la forma che ha preso come filosofia, come amore della sapienza, ma il fenomeno è molto più esteso.

Ancora una nuova epoca

Tutto questo periodo ha sulle spalle più di duemila anni ed ha subíto le sue evoluzioni e trasformazioni, ma adesso sta agonizzando per far posto ad un altro momento storico. Questo me lo conferma un’analisi attenta della crisi contemporanea fatta da tanti spiriti illuminati, dentro e fuori la Chiesa. Insieme a loro non ho timore di definire il periodo che attraversa la cultura occidentale – adesso ci restringiamo un momento all’Occidente – come un periodo di “notte oscura”, cioè di travaglio profondo in cui entrano in crisi certe realtà mentre ne emergono altre.

È il passaggio dalla modernità a quella che si chiama la post-modernità. La modernità è come una punta di un iceberg, sotto cui c’è tutto il periodo precedente (parlo sempre dell’Occidente): la grande cultura greco-latina e quella medievale, finché si arriva alla modernità.

Fra la cultura greco-latina, la cultura medievale e quella moderna non ci sono – e gli studiosi oggi se ne rendono conto – quelle fratture che gli storici hanno voluto individuare. Non è che una mattina l’umanità si è svegliata e si è trovata nell’umanesimo. Il Petrarca era un grande umanista, ma era anche un profondo cristiano; Dante era un autentico cristiano, eppure era anch’egli un umanista; e così via.

Per motivi pratici, gli studiosi hanno bisogno di fare degli scompartimenti, ma la realtà della storia non è così. C’è un’unità di fondo che caratterizza tutta questa grande cultura. La cultura greco-romana s’incontra con la fede cristiana, dà origine a quella che si chiama la civiltà medievale, dove in parte entra e in parte viene modificata; la civiltà medievale, a sua volta, dà origine a un altro grande periodo, la modernità, che ora sta entrando in coma. Adesso cosa verrà?

Seguendo questo velocissimo filo del discorso possiamo dire che il primo periodo, quello del mito, è caratterizzato dallo stare nel seno del Padre, mentre il secondo è caratterizzato dal logos: è il periodo dell’incarnazione del Verbo, del Logos di Dio che si fa uomo. Non esito a dire che il terzo periodo sarà caratterizzato da un’altra realtà che possiamo chiamare quella dello Pneuma, dello Spirito, dell’Amore.

Pensare come agape

L’epoca “logica”, cioè del Logos insiste sul soggetto, sul singolo individuo. Un grande studioso della cultura greca diceva che è forse Socrate il primo uomo dell’epoca moderna, perché in lui emerge proprio la soggettività, quello che con forza dice: io. Egli sapeva perfettamente di essere abitato da un Dio, ma comincia a prevalere la coscienza dell’io in cui Dio abita: c’è quel in me che comincia ad emergere con forza. Che cosa caratterizza la cultura di questi tempi? In Occidente, ma anche in tutti gli altri universi culturali in un modo o nell’altro, il singolo rompe l’unità del mito in cui siamo come un corpo solo.

Per esempio, quando Melchisedech benedice Abramo, in lui benedice tutta la discendenza, perché era il capostipite che riassumeva tutti in sé. Ciò era tipico della cultura mitica. Questo si rompe, si frantuma e comincia un periodo differente e anche di sofferenza. Dice giustamente von Balthasar che se vogliamo capire a fondo la caratteristica della cultura greca, più che i filosofi dobbiamo interrogare i tragici. La tragedia è l’espressione propria della cultura greca: l’essere umano si trova di fronte all’Assoluto, vuol ritrovare il rapporto con lui e non sa come fare, perché è uscito dall’Eden, dall’innocenza che il mito esprimeva in un suo modo, in una sintesi di singolo e collettività e con il resto del creato.

Io credo che il problema ecologico nasce proprio con la cultura del logos, quando il singolo si situa non solo di fronte all’Assoluto, ma anche di fronte alla natura. Si dice giustamente che con il logos nasce la scienza moderna.

Noi siamo nati e cresciuti in questa cultura: ne siamo imbevuti, l’abbiamo succhiata col latte materno, l’abbiamo studiata nei libri. In che cosa consiste, in questa prospettiva, per esempio, l’atto del pensare? Io vado dentro di me e lì mi pongo in relazione con gli altri, col mondo, con l’Assoluto, però il punto di riferimento fondamentale resto sempre io. Sono io che mi pongo in rapporto con l’Assoluto e così via. In questo senso non sono più io dentro Dio, ma egli è dentro di me ed io cerco di catturarlo, di captarlo con i mezzi che ho e lo esprimo con il mio apparato concettuale.

Credo che questo tipo di mondo oggi stia agonizzando, anche a causa dell’emergere della cultura del virtuale, delle immagini e di tantissime altre cose. Spesso noi non ci rendiamo conto di che cosa abbia significato la televisione per un cambiamento epocale di cultura. Quando dal libro e dalla riflessione sul libro e sull’idea si passa al mondo delle immagini, alla televisione, al cinema, all’informatica, cosa avviene nel nostro modo di essere, di vivere, di rapportarci? A che cosa andiamo incontro?

Io sono un siciliano e, come spesso succede ai siciliani, sono portato al pessimismo. Per noi il bicchiere non è mai mezzo pieno, è sempre mezzo vuoto. Se non avessi conosciuto il Movimento dei focolari, avrei detto che stiamo andando incontro ad un tremendo disastro. Il Movimento mi ha fornito gli elementi per pensare diversamente e per questo posso dire che siamo nell’alba di un mondo diverso. Particolarmente a voi, che come studiosi di psicologia siete persone di cultura, voglio dire che dobbiamo abituarci a leggere e a capire il messaggio del carisma dell’unità non solo in senso spirituale, ma anche in senso culturale, altrimenti non siamo capaci di situarci di fronte a quello che accade nel mondo che ci circonda. Questo è di fondamentale importanza.

Ora i punti fondamentali della nostra spiritualità sono due: Gesù abbandonato e Gesù in mezzo, due grossi cardini che sostengono un architrave che si chiama Dio Amore.

Gesù abbandonato e il pensiero

Cosa vuol dire Gesù abbandonato? Gesù sulla croce grida l’abbandono del Padre, chiede perché. In questa domanda c’è la dichiarazione del “fallimento” del Logos. Proprio la Parola, che deve interpretare ed esprimere, chiede. E chiede: “perché”; non sa e non capisce. È la bocciatura della parola. L’evangelista Giovanni, però, dice che proprio nel culmine di questo grido di abbandono, Gesù emette lo Spirito. Un numero crescente di esegeti interpretano questo come: “dà lo Spirito Santo”. Gesù ci dà lo Spirito Santo nel momento in cui Lui, Parola, umanamente fallisce.

Leggiamo nella lettera ai Galati e in quella ai Romani: «Lo Spirito in noi grida: Abbà, Padre!». Eppure il Padre non è il Padre dello Spirito; nella Rivelazione e nella teologia che ha riflettuto sulla Rivelazione, il Padre ha un Figlio unico che è il Verbo, quindi è solo il Verbo che può dire: Padre, rivolgendosi a Dio. Come mai allora è lo Spirito che in noi dice: Abbà, Padre? Io tento una risposta. Voi sapete che nell’impianto trinitario la dinamica delle Persone Divine è regolata da quella che sempre più è chiamata la kenosi intratrinitaria: ogni Persona è completamente nell’altra. Il Padre è tutto e per intero nel Figlio, il Figlio nel Padre e lo Spirito, e così via.

Il Figlio, il Logos, che è Dio, può dire Padre usando una parola? Siccome egli è Dio, se potesse dire Padre, la sua Parola non genererebbe un concetto – come accade con le nostre parole – ma una realtà vivente, una Persona. Il Figlio si metterebbe al posto del Padre; sarebbe la più tremenda idolatria. Voi, da professionisti della psiche umana, sapete cosa significa questo, quali sconvolgimenti, personali e sociali, produce un tale capovolgimento.

Come può allora il Figlio dire Padre? Lo lascia dire allo Spirito. Nella Trinità – che ci perdoni se ne parliamo così tranquillamente, come se potessimo conoscerla esaurientemente – il Figlio per esprimersi non può farlo con una Parola perché è il Padre che si esprime in una Parola. Allora l’espressione vera, compiuta del Verbo, del Logos, non può essere che lo Spirito. Quando lo Spirito dice “Abbà, Padre”, egli sta dando lo spazio perché la Parola si esprima verso il Padre, dicendolo Padre come Parola generata ma nello Spirito. La Parola, arrivata al culmine del suo essere Parola sulla croce, emette lo Spirito, si esprime cioè come Parola nello Spirito.

Una cultura nuova

Che cosa voglio dire con questo? Che stiamo entrando, a mio parere, in un’epoca culturale nella quale non importa più l’apparato concettuale del quale siamo stati finora gelosi custodi, ma sarà determinante restituirci a Dio non in altre parole ma nel dare lo Spirito. Un tipo di cultura in cui quello che io so di Dio non è espresso – anche ma non più primariamente – in un’articolazione di pensiero, in un discorso, ma nella capacità che abbiamo di amarci a vicenda.

Da quanto siamo capaci di amarci, anche semplicemente preparando il pranzo o spazzando la casa, anche parlando delle cose quotidiane più varie, se siamo capaci di amare come Gesù abbandonato ama, noi a questo punto entriamo nel tipo di espressione richiesta dalla cultura che sta emergendo. A questo punto si capisce perché il Movimento dei focolari ha atteso così tanto per fare una sua Università. Solo ora essa sta cominciando a sbocciare. Se l’avessimo fatto prima, noi che veniamo dalla cultura classica, sicuramente avremmo interpretato in maniera sbagliata il messaggio culturale che questo nuovo carisma è chiamato a dare.

L’Eterno Padre, che guida questi processi, ci ha tenuti fermi fino a quando non ha percepito che in noi si è raggiunto un grado di maturità tale che ci consente di muoverci nell’ambito culturale in maniera corretta, cioè secondo una cultura adeguata al carisma. Se dovessi dire a uno della cultura “logica” dov’è la mia cultura, lo dovrei portare nella mia biblioteca e mostrargli tutti i libri che ho letto, gli articoli e i libri che ho scritto e le parole che dico. Se dovessi esprimere la cultura mia, nostra, quella che noi vogliamo portare e nella quale, a mio parere, sta entrando la modernità con la post-modernità che ne è la crisi, allora dovrei mostrargli questa sala e il modo con cui vi rapportate con chi parla, e il modo di rapportarsi a voi di colui che parla, che non si limita a comunicare un universo di pensiero ma cerca di comunicarvi la sua vita in quello che dice. Ecco questa è la cultura nuova: non una biblioteca, ma persone viventi unite nell’amore.

Un discorso, una frase compiuta è fatta da un soggetto e da altre parole ma con un verbo che lega tutto. Se io, per esempio, dicessi: “Io, albero, strada”, non avrebbe senso, ma se dico “Io ho visto un albero sulla strada”, allora il verbo dà significato. Noi giochiamo sulle parole e per chi di voi conosce il tormento della filosofia analitica, sa quello che voglio dire. La filosofia analitica è la crisi tremenda nella quale si trova il pensiero che riflette su di sé ma, volendosi possedere e quindi estenuandosi, praticamente muore. Invece il nostro discorso è un altro. Ognuno di noi è una parola di Dio, messi insieme costituiamo il discorso di Dio che ha significato per la presenza del Verbo in mezzo a noi. È Gesù in mezzo a noi che trasforma il nostro stare insieme in un discorso che Dio fa all’umanità.

Allora il nostro vero parlare di Dio non sarà più quello a cui ci ha abituato l’epoca del logos, cioè dei discorsi formali, dei sillogismi, dei discorsi precisi, puliti, anche duri alle volte, come quelli che faceva, ad esempio, Hegel, il quale poi confessava che sovente quando rileggeva i suoi libri non riusciva a capire quello che egli stesso aveva scritto.

Il nostro parlare sarà presentare un corpo, una realtà di creature che si compongono fra di loro in maniera tale da rendere presente il Verbo di Dio, da essere insieme il discorso di Dio. E Dio non parla mai per concetti, ma per persone, il suo discorso è assolutamente concreto.

Il nostro compito

Noi stiamo entrando in questa fase nuova, ma siamo un po’ rovinati dal tipo di studio e di cultura da cui proveniamo. Dobbiamo avere il coraggio di cambiare il nostro modo di essere, di rapportarci in modo tale da capire in che cosa consiste l’esercizio del pensare. Non nell’entrare dentro di me, facendo ordine nei miei pensieri e componendo un discorso preciso per poi comunicarlo; ma nell’uscire fuori di noi stessi per incontrarci in Gesù in mezzo a noi e permettere che in questa realtà, presente fra noi, il Verbo di Dio si possa esprimere.

Abbiamo detto, parlando di Gesù abbandonato, che il Verbo di Dio quando si esprime non lo fa pronunciando un’altra Parola, perché allora il Verbo diverrebbe una brutta copia del Padre, sarebbe un idolatra. Si esprime nel dare lo Spirito.

La caratteristica di questo tipo di cultura non consisterà quindi tanto nel dire parole, le quali sempre più sono logorate, ma nel dare lo Spirito, cioè nell’amare. Dobbiamo capire – e qui le persone di cultura hanno tanta difficoltà – che l’amore diventa la categoria culturale per eccellenza del modo nuovo di fare cultura.

Un intellettuale direbbe: ma cosa c’entra qui l’amore? Se devo fare cultura, devo studiare, elaborare concetti (concetto poi vuol dire tante cose; può essere una statua, un quadro, un pezzo di musica, cioè qualcosa che io elaboro e che esprimo). Ci sarà anche questo, ma l’espressione tipica della cultura verso la quale andiamo sarà la capacità di amare in modo che quello che noi diciamo come concetto, come statua, come quadro, ecc., esprima quanto di amore c’è nel quadro che io ho dipinto o nel discorso che sto facendo. Questa è la cultura nuova che siamo chiamati a far emergere.

Per riuscirvi bisogna addestrarsi. Da più di 50 anni sono nel Movimento e da 20 in quel corpo di studiosi delle più svariate discipline che compongono attorno a Chiara la Scuola Abbà. Eppure quando Chiara all’inizio dei lavori ci fa rinnovare ogni volta il patto di unità per essere pronti a morire ciascuno alle proprie idee, ci accorgiamo che dobbiamo andare “contro corrente”.

Se vogliamo che nasca questa cultura nuova – che ho cercato di tratteggiarvi a volo d’uccello – dobbiamo essere capaci di condurre la cultura attuale a dei modi d’essere, ad espressioni inedite che essa non possiede ancora. Se io vado a cercare questo nella cultura corrente, cosa trovo?

Nei più attenti trovo la crisi, incontro il bisogno disperato che grida: ma dove stiamo andando, cosa stiamo facendo? Questo a cominciare da Nietzsche, che è stato forse il primo grande profeta della crisi dell’Occidente, e poi avanti con tanti altri.

Per dare il nostro contributo ad una seria risposta a questa crisi, che contiene in sé tante giuste esigenze, non dobbiamo investire solo in nozioni da apprendere, in concetti anche nuovi da scoprire, ma esercitarci in quello che il Nuovo Testamento chiama agape, sapendo che nell’arte di amare viene fatto presente quello Spirito nel quale il Logos si esprime come Logos della cultura contemporanea.

Se da una parte dobbiamo essere estremamente rispettosi di quanto di positivo la tradizione ci consegna, dall’altra dobbiamo anche non avere paura della novità. Paolo VI nella Octogesima adveniens diceva che lo Spirito Santo scompiglia gli orizzonti umani, e lo fa per aprirne dei nuovi, più degni di Lui e più rispondenti alla dignità e ai bisogni della creatura umana.

Per cui vorrei concludere dicendo che finora, molto spesso, abbiamo navigato con la barchetta del nostro pensiero, ciascuno con i suoi concetti, la sua ragione, con la sensazione di avere i piedi sul solido. Adesso dobbiamo ritirare i remi in barca, rizzare l’albero e mettere la vela: lasciamo che lo Spirito Santo ci spinga al largo, a quelle estensioni infinite che solo Dio conosce.

 

Giuseppe Maria Zanghì