Esperienza di vita comune fra sacerdoti diocesani

 

Giocarsi per l’unità

a curia di Enrique Cambón

 

È ben conosciuta l’esclamazione  del Salmo 132: “quanto è buono e soave che i fratelli vivano insieme!”. Oggi si riconosce a tutti i livelli che la comunione costituisce la realtà centrale della Chiesa. Eppure non è facile che i sacerdoti diocesani, anche quelli che ci mettono la loro buona volontà, riescano a vivere in comune facendo un’esperienza positiva e gioiosa. A cosa è dovuto?

La difficoltà ricorrente di instaurare fra sacerdoti diocesani un’effettiva vita di comunione fa pensare  al racconto di quel giovane indiano che va dall’anziano della tribù a domandargli: «Io mi porto dentro un agnello ed un lupo; chi prevarrà nella mia vita?». «Quello che nutrirai di più», fu la risposta. Così succede quando si deve scegliere fra una vita individualistica e un’altra alla ricerca costante di una profonda comunione. L’importante non è tanto parlare astrattamente dei pro e dei contro – a questo livello potremmo essere tutti d’accordo sul valore della comunione –, ma dei perché e dei come, ossia delle motivazioni per una scelta comunionale e dei modi come “nutrirla” concretamente.

Ci si può perciò domandare, in modo tutt’altro che retorico: vale la pena giocarsi e correre il rischio della vita comune fra presbiteri? È vero che quando non si può, per cause diverse, abitare insieme, è sempre possibile “una qualche comunione di vita” attraverso altre forme, come dice il Vaticano II (PO 8). Eppure l’esperienza mostra – quando si è insieme non per motivi di efficientismo o organizzativi ma per la comunione –, che la risposta a quella domanda normalmente non può essere che affermativa. Lo stiamo sperimentando, pur con gli ovvii nostri limiti, nella nostra casa a Grottaferrata, nei pressi di Roma, dove viviamo con giovani sacerdoti mandati dai loro vescovi da diverse parti del mondo per studiare nelle Università romane.

Il privilegio della vita fraterna

Siamo sacerdoti diocesani che da anni viviamo secondo il carisma del Movimento dei focolari. Per cui, in tutte le nostre attività, compresi gli studi, il centro della nostra vita è vivere la spiritualità dell’unità, cercando di mantenere sempre vivo l’amore fraterno del Vangelo, in modo che quella presenza di Gesù promessa in Mt 18, 20 possa manifestarsi il più possibile fra di noi.

Vediamo questa possibilità come un privilegio e la troviamo imprescindibile di fronte alle esigenze del nostro tempo. Basterebbe, uno per tutti, ricordare il famoso passo della Novo millennio ineunte, dove si dice che «occorre promuovere una spiritualità della comunione, facendola emergere come principio educativo in tutti i luoghi dove si plasma l’uomo e il cristiano», menzionando, tra gli altri, esplicitamente quelli «dove si educano i ministri dell’altare» (n. 43).

Infatti, come potrebbero i presbiteri generare la comunione nelle comunità dove svolgono il ministero, se non ne hanno fatto esperienza nella loro formazione e non continuano a farla nella loro vita assieme ad altri sacerdoti?

I frutti di una tale Presenza

La presenza di Gesù in mezzo a noi, nella misura in cui riusciamo ad evidenziarla, vediamo che influisce in tutti gli aspetti della nostra vita e delle nostre persone. Qui vogliamo molto brevemente raccontare solo un periodo particolare che ci è toccato vivere.

È tempo di vacanze e in casa siamo rimasti soltanto in tre: un burundese, un italiano e un argentino. Uno dei momenti che viviamo quotidianamente durante tutto l’anno è fare la meditazione insieme, con la Sacra Scrittura oppure servendoci di scritti o di mezzi audiovisivi con dei pensieri – in genere di Chiara Lubich – che ci aiutano a comprendere sempre meglio la vita d’unità e a cercar di crescere in essa.

Anche in quei giorni lo facevamo, ogni sera prima di cena. In una di quelle occasioni, mentre condividevamo ciò che ci suscitava dentro il testo che avevamo letto, uno di noi ha espresso qualcosa che ci ha impressionato profondamente. Era il responsabile della casa, e nel clima di grande amore reciproco che si era creato, si è rivolto ad uno degli altri due per far notare un aspetto della sua vita, dove poteva senz’altro crescere e maturare.

Si vede che l’osservazione aveva senso e l’altro era così ben disposto, che subito è scattato un momento di nuova comprensione e uno scambio chiarificatore di vedute su diversi aspetti della nostra vita in comune. Il tempo che normalmente dedicavamo alla meditazione si è allungato senza rendercene conto e abbiamo finito – lo avvertivamo tutti e tre – con una profonda gioia e con un senso di pienezza.

Chi ha fatto l’esperienza di vivere insieme ad altri nella ricerca di quell’unità trinitaria che Gesù ha chiesto al Padre anche per noi, sa che si produce questo fenomeno tipico: si va avanti nella vita di tutti i giorni nella normalità, facendo le attività che si devono fare, cercando che tutto sia occasione per attuare la carità reciproca, ma senza che si sperimenti una luce straordinaria e costante; però bisogna essere attenti perché, se si cerca di perseverare nella carità e si sa “perdere tempo” per fare comunione trovando quegli spazi che le attività o lo studio alle volte tenterebbero di far saltare, quando uno meno se lo aspetta scattano dei momenti con le caratteristiche e i frutti tipici dello Spirito. Quello che abbiamo appena raccontato è stato proprio uno di questi momenti preziosi.

Ma con un seguito…

Il giorno seguente, quasi senza ricordarci di quello che avevamo vissuto la sera prima, torniamo a sederci nel salotto alla stessa ora per la consueta meditazione. Dopo aver letto alcuni pensieri, mentre mettevamo in comune ciò che quei testi suggerivano ad ognuno, di nuovo è sorto un commento, non preparato né programmato, su un altro aspetto della nostra vita. Anche lì si vedeva che lo si diceva in un profondo ascolto e apertura reciproci, con riflessioni fatte nella sapienza, accettate senza sforzo perché ognuno le sentiva vere.

Questa realtà è continuata per giorni e giorni, per settimane. Andavamo alla meditazione serenamente, senza aspettarci niente, perché si sa che i doni di Dio non devono per forza ripetersi, succedono quando succedono… Però senza cercarlo continuavamo a vivere ogni volta, quando ci trovavamo, in quel clima e in quella pienezza un po’ speciali.

In quei momenti vedi la realtà ecclesiale e umana rinnovata. Ti trovi a farlo con realismo ma senza pessimismo, con una certezza e una prospettiva positive e magari alternative alle difficoltà o addirittura agli orrori che si vivono nella storia, perché ti avvicini in qualche misura al modo in cui Dio vede la realtà. Senti che veramente Gesù fra noi è l’unico Maestro, che ci aiuta a guardare le cose dal punto di vista di Dio.

Un’esperienza non solo spirituale

Uno dei tanti aspetti che man mano abbiamo sperimentato è come si riesca a mettere al giusto posto chi ha la responsabilità della comunità senza autoritarismo né soggezione, senza complessi né adulazione. La ricerca di uno stile “trinitario” d’unità, modellata per quanto è possibile secondo le relazioni che costituiscono la vita interpersonale in Dio, ha molto da dire anche in questo ambito.

Si sperimenta attraverso la quotidianità di questo tipo di rapporti, ad esempio, che chi è responsabile non si sente “superiore” agli altri. Chi ha la “grazia di stato” per guidare, non potendo “aver sempre ragione”, ascolta tutti e cerca di esprimere ciò che è il disegno di Dio sulle persone e sul momento che vive la comunità.

Si avverte quanto lo Spirito può manifestarsi attraverso ognuno, per cui è importante che tutti possano dire il proprio pensiero, il più possibile con un tono fraterno, avendo la pazienza di cercare i momenti adatti, e così via. Perciò l’autorità la si scopre “policentrica”, perché «chi riassume nell’Uno secondo una prospettiva è riassunto nell’Uno secondo un’altra»1.

Ci siamo accorti in questi anni di vita insieme, sbagliando qualche volta per eccesso altre per difetto, che è un apprendistato da fare, una sensibilità che dobbiamo acquistare per muoverci in quell’unità che non appiattisce né uniforma né toglie libertà e spontaneità. Qui non possiamo dilungarci, ma un episodio che abbiamo vissuto ci ha insegnato qualcosa a riguardo.

In uno di quei commenti che ci scambiavamo, il responsabile dice ad uno di noi: «Senti, c’è una cosa che ho notato, ma forse è soltanto un’impressione mia o si tratta di un dettaglio senza importanza: che quando parliamo insieme con altre persone, spesso tu non ti rivolgi a me direttamente ma agli altri, e anche se devi dire qualcosa che riguarda me, non mi guardi negli occhi…».

La sua risposta è stata: «Non è vero che è solo un’impressione tua o qualcosa di poco importante. È una caratteristica che affonda le radici anche nell’esperienza culturale del mio popolo; da noi non si guarda negli occhi, tanto meno a chi esercita qualche responsabilità; è un gesto come per riconoscere che l’autorità è l’autorità... Ma è vero che quando è l’amore evangelico ad animare i rapporti, ci si può esprimere in modo diverso».

Potrebbe sembrare un episodio piccolo, quasi banale, eppure aver potuto parlarne così, senza maggiori complicazioni, ha fatto crescere la trasparenza e l’uguaglianza fra di noi, e può costituire una spia significativa del ruolo e dei modi dell’autorità in ogni tipo di comunità. «Ci si sente talmente liberi e fratelli, che se si vivesse così l’organizzazione sociale sarebbe una rivoluzione», è stato infatti uno dei commenti spontanei.

Questo e tanti altri episodi simili vissuti insieme, ci hanno mostrato che quando c’è un sincero amore fraterno, ognuno riesce ad esprimersi pienamente, senza maschere, senza timore di perdere la stima degli altri. Per cui vengono fuori i tormenti, le difficoltà personali, ma anche la bellezza di ciascuno e si coglie il dono che egli è per gli altri nel pensiero di Dio.

Ci si sente capiti nel più profondo, anche in aspetti culturali o personali dei quali prima magari non si era mai parlato; è come se cadessero, almeno in buona parte, quelle barriere che spesso fanno così complessa e ardua la comunicazione umana.

Si costata che si tratta di un tipo di socializzazione che fa crescere, in misura direttamente proporzionale, il meglio della personalità di ognuno. Persino gli inevitabili difetti o limiti o diversità personali non disturbano, diventano più leggeri. Per cui altre espressioni che si sono sentite fra noi in certi momenti erano: «questa vita è sanante», «quello che capiamo qui è liberante».

Una realtà permanente

Ad un certo punto però ci siamo detti: «Non possiamo limitare questa intensità di unità a questi momenti in cui ci troviamo per meditare. Dobbiamo avere una tensione serena, un’attenzione, per continuare in questa realtà in tutti i momenti della giornata». Era importante dircelo, perché spesso durante il giorno, anche se c’è un rapporto bello tra tutti, ci si distrae, non ci si mette nella coscienza esplicita o nell’intenzionalità di essere in quell’amore che Gesù ci chiede. Per cui abbiamo cercato di tenerne conto di più dentro ognuno di noi, anche cercando di aiutarci ricordandocelo attraverso qualche trucco, e alle volte superando il pudore che spesso si prova di dichiararcelo apertamente. Questo impegno ha avuto almeno due effetti immediati.

Il primo è stato che quando ci trovavamo a pranzo e a cena o semplicemente nei corridoi, quando ci scambiavamo qualche commento sugli studi o su qualunque altro argomento, nei lavori della casa o nel programmare qualcosa insieme o facendo una camminata per riposare, si avvertiva che l’intensità, il tipo di atmosfera che si creava, aveva un livello e degli effetti diversi.

Il secondo era scoprire, con una chiarezza e una forza nuove, come le strutture (raduni, condivisione delle esperienze di vita a quelle ore e giorni fissati) – pur necessarie perché abbiamo bisogno di spazi d’incontro riservati appositamente e regolarmente –, potessero essere completate ed arricchite dalla naturalezza e semplicità di tutta la vita, che può essere occasione di fraternità in ogni momento e circostanza.

Bisogna perciò aggiungere che non si tratta di qualcosa di solo spirituale, nel senso intimistico che a volte si suole dare a questo termine, ma di qualcosa che tocca tutti gli aspetti dell’esistenza. Ad esempio – soprattutto nel nostro caso dove lo studio è così prevalente – arriviamo a constatare tantissime volte quanto l’unità, supposta la necessaria competenza, sia il “metodo” più intelligente e redditizio anche per la conoscenza, per l’investigazione scientifica, nei riguardi dell’arte, in ogni campo dello scibile umano.

Non è ovviamente qualcosa di magico, ma un’esperienza coerentemente evangelica, perché la comprensione della nostra intelligenza personale viene arricchita, attraverso la comunione, da una maggiore partecipazione alla Luce2.

Inoltre, come sempre succede con le cose di Dio, non è una realtà che si può spiegare solo teologicamente, ma ha una radice antropologica, una totale sintonia con le realtà umane. Questo supplemento di conoscenza che si trova nella comunione, è infatti oggi analizzato e confermato dalle scienze umanistiche (pedagogia, psicologia, sociologia…) e dalla stessa metodologia della ricerca scientifica, come sarebbe facile esemplificare attraverso numerosi studi o comuni manuali delle varie discipline.

Fa crescere la speranza

Quando si fanno queste esperienze di unità, avverti che almeno in quei momenti la vita acquista un altro sapore, un’altra qualità: il divino si sente più vicino e più reale. È talmente forte e bella ed essenziale questa esperienza, che si capisce come mai alcuni dei primi cristiani andassero incontro al martirio cantando.

Nel nostro caso, dove non ci è chiesta la vita letteralmente, senti che vale la pena passare per tutte le scomodità e i sacrifici (la “morte”) che la vita di unità in un modo o nell’altro esige. Si direbbe che una goccia di questa esperienza dà senso e ti ripaga di tutto quello che di doloroso hai potuto provare. Prendi nuova coscienza che è per questo tipo di vita che merita lasciare tutto, condividere tutto, fare l’ascesi e la fatica della vita in comune.

È vero che l’amore include necessariamente una dimensione sacrificale, per cui alla vita in comune non possono mancare degli aspetti martiriali. Tuttavia quelle esperienze positive sono momenti che segnano per sempre. Per cui anche quando poi si è in ambienti o circostanze dove quell’unità non si trova, non puoi negare quello che hai vissuto, sai che è possibile, e ciò è una delle cose che ti danno forza per proseguire anche quando non ti senti capito o non trovi reciprocità.

Uno di noi, Luigi Razzano, artista e poeta, ha scritto nel suo diario personale – con la libertà di linguaggio che possono permettersi i poeti, ma con un fondo di verità spirituale e teologica –, dopo uno di quei giorni dove si sperimentava un’unità così forte:

 

Divinizzandoci,
nel mondo viviamo questa vita,
generando tra gli uomini
la Trinità.

 

Diceva Paul Claudel che «c’è una cosa più triste che perdere la ricchezza; ed è perdere la speranza». Poche cose sono così necessarie all’umanità come la speranza. L’interrogativo ultimo dell’esistenza è se stiamo sprofondando inesorabilmente verso il nulla attraverso la morte, o c’è Dio-Amore che sostiene tutta la nostra vita e ci attende al di là della morte.

Ho trovato in un’opera recente quest’interpretazione (non so se etimologica o figurata) della parola amore: «è toglimento di morte (a-mors3. Una tale affermazione potrebbe essere commentata a non finire, perché effettivamente il contrario della morte non è tanto la vita, che porta in sé costitutivamente la morte, quanto appunto l’amore. E. Morin, con quel tanto di disincanto e minimalismo inevitabili per chi non ha riferimenti religiosi, trovava motivo d’ottimismo nel fatto che, se l’amore non è più forte della morte, almeno aiuta a vivere.

In un’esperienza di comunione secondo la misura lasciataci da Gesù, si aprono o s’intuiscono altri orizzonti. I teologi direbbero che l’agape reciproca rende visibile e anticipa l’eschaton. In linguaggio più esistenziale si potrebbe dire che l’esperienza dell’unità, frutto del reciproco amore evangelico, rafforza la speranza che dopo questa vita ci attendano “cieli nuovi e terre nuove”, dove attraverso l’Amore saremo – per dirla con un’espressione di C. Lubich – «l’uno dell’altro: paradiso».

a cura di Enrique Cambón

 

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1)     G. M. Zanghì, Dio che è Amore. Trinità e vita in Cristo, Città Nuova, Roma 20043, p. 205.

2)     Cf P. Coda, Alcune riflessioni sul conoscere teologico nella prospettiva del carisma dell’unità, in “Nuova Umanità” 21 (1999), n. 122, pp. 191-206; G. M. Zanghì, Il pensare come amore. Verso un nuovo paradigma culturale (con i rimandi agli art. precedenti che l’A. fa nella nota 1), in “Nuova Umanità” 25 (2003), n. 145, pp. 1-19; Id., La terza navigazione. Preghiera di un filosofo, in “Nuova Umanità” 27 (2005), n. 157, pp. 43-56.

3)          U. Galimberti, Le cose dell’amore, Feltrinelli, Milano 20055, p. 17 (facendo riferimento ad un’opera di N. Brown).