Breve percorso storico dalle origini ai nostri giorni

 

Spiritualità di comunione e vita dei sacerdoti

di Silvano Cola

 

Proponiamo ai lettori il testo di una conversazione tenuta nel dicembre scorso a 1.200 sacerdoti e seminaristi. L’autore spiega in sintesi le vicende della spiritualità di comunione lungo i secoli e, nella parte conclusiva, mostra come il carisma dell’unità del Movimento dei focolari abbia aiutato e continui ad aiutare i sacerdoti ad incarnarla nella loro vita, in sintonia con le direttive del Concilio Vaticano II.

Un rapido sguardo alle origini

All’origine della Chiesa abbiamo la parola di Gesù: «siate una cosa sola, affinché il mondo creda», e il modello è «come il Padre e io siamo uno». I discepoli di Gesù, dunque, dovranno essere icona della Trinità. Qui siamo ancora soltanto all’annuncio della Chiesa, perché è l’evento della Pentecoste che verrà sempre più percepito come la vera origine della Chiesa, in quanto un passaggio importante si è verificato: mentre prima gli apostoli e discepoli erano uniti personalmente alla persona di Gesù, alla Pentecoste l’unità avviene come “esperienza comune della effusione dello Spirito sulla comunità dei credenti”. Infatti il termine ekklesìa – a prescindere da due menzioni nel Vangelo di Matteo – non viene mai usato nel Nuovo Testamento prima della morte e risurrezione di Gesù: viene usato per il gruppo che dopo la Pasqua crede nella Risurrezione. Luca non lo usa mai nel Vangelo, ma negli Atti lo usa ben 16 volte. Lo Spirito Santo scende dunque sui “testimoni della Risurrezione”, ossia sugli Apostoli (At 2, 32-37, 40-42) e la Chiesa si va formando per aggregazione alla cellula apostolica (cf ibid. 2, 41.47). È questa l’epifania del popolo nuovo, effetto della Promessa, che cambia il destino del mondo, tanto che i Padri della Chiesa nel racconto della Pentecoste leggono il rovescio del dramma di Babele: dopo la disunione del genere umano inizia il cammino verso la riunificazione dell’umanità.

Ed è sintomatico il fatto che il racconto della Pentecoste sfocia nel quadro sorprendente della “nuova comunità” in tale interazione reciproca da mettere in atto una autentica comunione concreta che arriva persino alla comunione dei beni. Lo Spirito Santo ha infatti il potere di strappare gli esseri umani all’egoismo, alle ingiustizie e alle rivalità, spezzando i legami che rinchiudono individui e gruppi su loro stessi per aprirli alla comunione. La Chiesa è dunque comunione, e ciò vuol dire che la salvezza è vivere in comunione. Lo si può dire tranquillamente anche perché, se per salvezza si intende pure, in senso antropologico, lo sviluppo pieno della propria individualità per arrivare ad essere persona ad immagine e somiglianza di Dio, la stessa cultura moderna sta mettendo in evidenza che la creatura umana può trovare la propria verità e affermare la propria singolarità unicamente nella comunione. Comunione e non divisione, singolarità e non confusione rispecchiano appunto l’essere creato a immagine e somiglianza di quel Dio che la fede ci presenta trinitario.

La stessa visione della Chiesa come comunione è data dalla dottrina paolina del Corpo di Cristo. Infatti la Chiesa, l’insieme dei battezzati, era anticamente considerata il Corpo vero di Cristo, mentre era l’Eucaristia, che significava e operava misticamente l’unità della Chiesa, ad essere chiamata Corpo mistico di Cristo. L’inversione, che è poi avvenuta quando si è cominciato a considerare l’Eucaristia Corpo vero e la Chiesa di persone Corpo mistico, ha indicato storicamente il passaggio dalla spiritualità fondamentalmente comunionale a quella prevalentemente individuale.

Dall’amore scambievole al ruolo

Questa unità trova dunque il suo paradigma nella Trinità stessa, poiché Gesù chiede al Padre che «essi siano una cosa sola come noi» (Gv 17, 23). La comunione del Padre e del Figlio non è però soltanto un modello della comunione fraterna, ecclesiale, ma ne è anche la sorgente, l’origine, il luogo in cui si realizza. E qui si vede come il comandamento nuovo – «amatevi gli uni gli altri come io vi ho amati» (Gv 13, 34) – è il “suo”, l’unico “suo” comandamento.

Queste verità che si direbbero molto ovvie, lungo i secoli, nella vita del popolo cristiano, si sono spesso capovolte, tanto, ad esempio, da credere che fosse la sola Eucaristia a fare l’unità della Chiesa, anche se non c’era amore tra le membra, malgrado san Paolo affermasse che, se non c’era l’amore, chi mangiava l’Eucaristia mangiava la propria condanna; si pensava che bastasse la fede nelle verità proposte dalla Chiesa per essere cristiani; che bastassero i sacramenti operanti ex opere operato a dare la salvezza e non invece la vita di ciò che i sacramenti significavano.

Si ingenerò insomma in molti membri della Chiesa una dicotomia e di conseguenza un individualismo teorico e pratico, per cui ogni fedele pensava a se stesso senza sentirsi per niente corpo dell’altro e degli altri: la preghiera era privata, la spiritualità era privata, e ognuno pensava alla propria salvezza, pur lavorando spesso a moltiplicare il numero dei battezzati.

Si ricreavano così i muri che lo Spirito della Pentecoste aveva abbattuto tra clero e laici, tra maschio e femmina… D’altra parte, ancora vivo san Paolo, persino i singoli carismi che lo Spirito Santo elargiva ad alcuni perché fossero a servizio di tutti, tendevano già a chiudersi in se stessi privilegiando il proprio ruolo al di sopra della carità di cui sono al servizio (cf 1Cor 12, 25-31); e Paolo è costretto a richiamarli all’unico valore, l’amore (ibid. 13, 1-3).

Già fra i primi cristiani, infatti, si erano andati evidenziando gruppi funzionali definiti da scopi specifici di natura organizzativa come, ad esempio, apostoli, dottori, profeti, diaconi, vedove, eccetera, dati dallo Spirito per l’utilità comune.

Essi tendevano a relazionarsi all’interno del proprio gruppo soprattutto per quanto riguardava la loro specifica finalità, favoriti dalla maggiore possibilità di interazione per motivi di competenza, col pericolo però che la coesione del gruppo venisse data unicamente dalla finalità estrinseca, dal ruolo, e che in seno alla comunità cristiana venisse a mancare l’interazione, la comunione fra i vari gruppi, e fra questi e l’insieme dei fedeli.

Ed è per questo che Paolo, cosciente di questo pericolo, si preoccupa che la coesione anche fra gruppo e gruppo resti fondata non su un valore accidentale, ma sul valore e sulla finalità primaria ed essenziale, nonché eterna, ossia sulla Carità, così da farli essere un solo corpo dove ogni organo è interdipendente.

Negli Ordini religiosi

In realtà, dal pericolo di allentamento della comunione nella carità dovuto al prevalere delle finalità estrinseche – finalità specifiche dei diversi carismi – non sono stati esenti, lungo la storia, neppure Ordini e Congregazioni religiose. Pur essendo sorti da grandi personalità carismatiche e pur avendo avuto nei primi anni di fondazione una stretta comunione di vita, questa col passare degli anni spesso si è andata riducendo a favore dell’impegno sociale.

Si pensi soltanto alla Regola di sant’Agostino che servirà da base a molte altre. Essa inizia con queste parole: «Prima e al di sopra di tutto, fratelli carissimi, si ami Dio, e poi il prossimo, poiché questi sono i più importanti comandamenti che ci sono stati dati». Per cui «la ragione prima del vostro ritrovarvi riuniti assieme è che abitiate in questa casa unanimi, e abbiate un’anima sola e un cuore solo in Dio» (Regola terza, I, 1-2).

Secoli più tardi, le Costituzioni dell’Ordine dei Predicatori nel definire la finalità dell’Ordine riprendono alla lettera il passo citato di Agostino: «Come ci insegna la Regola, prima e al di sopra di tutto...» e termina con questa piccola aggiunta: «per essere trovati perfetti nella carità».

La storia successiva, però, ha mostrato come per lo più, negli Ordini, questo fine generale primario abbia lasciato il posto al ruolo estrinseco, e pur vivendo i membri a contatto reciproco, i loro rapporti saranno definiti dal compito che ciascuno ha nel gruppo, finendo così col diventare membri di una società che lavorano per un medesimo fine religioso e che accidentalmente vivono assieme. Insomma, i rapporti trinitari, dove ognuno vive l’altro, spesso non sono più che un ricordo storico. La testimonianza per eccellenza che Gesù chiedeva, di essere «perfetti nell’unità perché il mondo creda» (cf Gv 17, 23), viene a mancare.

Nel Medioevo, colmo di spinte religiose, un cistercense inglese, Baldovino di Ford, dopo anni sembra riscrivere la storia della Chiesa quando, nell’Omelia 15 e altrove, afferma con incantevole semplicità che «la Chiesa primitiva fu fondata sulla vita comune», che «dalla vita comune ebbe inizio l’infanzia della Chiesa appena nata», che «dagli stessi apostoli la vita comune prese l’esempio di come muoversi, il titolo di onore, il privilegio della sua dignità, la testimonianza della sua autorità, la propria sicurezza, il fondamento della propria speranza», fino ad arrivare ad affermare: «questa vita comune che è in Dio, che è di Dio, che è Dio…» ed a sottolineare che «dalla stessa Sorgente della vita (la Trinità) è fluita la vita comune».

Ma cosa comporta la vita comune per Baldovino? La perfezione che ricerca questo monaco è radicale. Scrive: «Avendo un cuore solo e una sola anima, tutto quanto in comune, concordia e unanimità in tutto, anteponendo sempre l’utilità di tutti e il bene comune ai propri comodi, in tanto rinunziano a sé e alle cose proprie se, trovandovisi implicati… sia nei giudizi sia nel dare consigli non presumono di difendere tenacemente il proprio parere né tentare di imporre forzosamente la propria volontà seguendo i propri desideri, né pretendere qualcosa perché era un bene personale; ma rinunziando alla propria libertà e al proprio potere, non sia loro lecito volere ciò che vogliono, aver potere su ciò che potrebbero, né avere sentimenti propri, né essere quello che sono, né vivere spinti dal proprio spirito bensì dallo spirito di Dio dal quale sono fatti figli di Dio, il quale è amore e loro legame di comunione».

Ma in ogni tempo della storia della Chiesa lo Spirito Santo ha fatto sorgere altri carismi che ripartivano con lo slancio di una vera comunità cristiana, poiché se fondatori e fondatrici si sono sentiti chiamati a strutturare i rispettivi movimenti ecclesiali in forme sempre nuove, era perché non potevano che essere, «la risposta dello Spirito Santo alle mutevoli situazioni in cui viene a trovarsi la Chiesa»1.

E i loro inizi erano sempre caratterizzati da una intensa vita di comunione. Basti pensare a San Francesco e a Don Bosco. Nessuno dei due avrebbe voluto lasciare una Regola se avessero avuto la certezza che i loro seguaci si sarebbero sempre amati come Gesù vuole.

Comunione visibile

Che la comunione dei cristiani nella Chiesa debba essere visibile è una precisa indicazione di Gesù: «affinché il mondo creda» (Gv 17, 21); e non è che espressione sociale del mistero trinitario, che a sua volta è ciò che caratterizza il cristianesimo rispetto alle altre religioni; infine, questa visibilità è anche diretta conseguenza dell’incarnazione del Verbo: il Verbo, invisibile, si è fatto carne, visibile.

Dio è invisibile: «Dio, infatti, mai nessuno l’ha visto»; chi ce l’ha rivelato è stato il suo Figlio unigenito incarnato (cf Gv 1, 18). E ancora: «Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede» (1Gv 4, 20).

La Trinità è invisibile: non c’è modo di viverla e di sperimentarla che vivendo l’amore scambievole. «Che tutti siano una cosa sola [rendendola così visibile] (…) affinché il mondo creda» (Gv 17, 21).

Il Padre è invisibile; ma «chi ha visto me (Gesù) ha visto il Padre» (Gv 14, 9).

Dopo l’Ascensione, Gesù nel suo corpo glorioso è invisibile; ma «ogni volta che avete fatto questo a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Mt 25, 40).

Lo Spirito Santo è invisibile; ma i frutti dello Spirito sono visibili: «amore, gioia, pace, pazienza…» (Gal 5, 22).

Nell’Eucaristia Gesù per il mondo è invisibile: se vivo l’Eucaristia lavando i piedi agli altri – «perché come ho fatto io, facciate anche voi» (Gv 13, 15) – e spezzandomi per gli altri, diventa visibile.

La fede è invisibile: solo dalle opere si riconosce (cf Gc 2, 20).

La speranza è invisibile: ma se si supera il dolore con l’amore riconoscendo in ciò che fa male Gesù crocifisso e abbandonato, diventa visibile.

La comunione dei santi è invisibile: ma l’unità della Chiesa creata dall’unica fede, dal battesimo e dall’Eucaristia, diventa visibile se amo ogni membro di essa come me stesso.

Una delle grosse novità portate dal carisma dell’unità sta, fra l’altro, nell’aver aiutato le persone a “rendere concreto” l’amore del prossimo e ad universalizzare questo unico comandamento di Gesù, trascendendo il semplice rapporto interindividuale:

– amare la famiglia altrui come la propria;

– amare l’etnia altrui come la propria
   (abbattere il razzismo);

amare la nazione altrui come la propria
   (abbattere il nazionalismo);

amare il partito politico altrui come il
   proprio (abbattere il partitismo);

amare l’Ordine religioso altrui come il
   proprio;

amare il Movimento altrui come il proprio.

Tutto è conseguenza implicita diretta dell’unico comandamento, e garanzia che la fede (invisibile) in Gesù e nel suo Vangelo non è una dichiarazione astratta, ma verità incarnata.

La comunione insomma deve diventare visibile proprio come il Verbo di Dio si è fatto visibile assumendo concretamente la nostra carne e i nostri limiti e dando concretamente la sua vita per noi.

Ce lo conferma il Concilio Vaticano II: «La Chiesa ha il compito di rendere presenti e quasi visibili Dio Padre e il Figlio suo incarnato... sotto la guida della Spirito Santo» (GS 21; EV 1, 1382).

La spiritualità di comunione
e i sacerdoti

Nel 1965, in pieno svolgimento del Concilio Vaticano II, il 7 dicembre viene promulgato il decreto Presbyterorum Ordinis sul ministero e la vita dei presbiteri. A leggerlo non c’è che da rimanere stupiti: la spiritualità di comunione prospettata dai padri del Concilio per i sacerdoti è la stessa che il carisma del Movimento dei focolari già aveva proposto ai sacerdoti, aiutandoli nell’incarnarla.

Il Concilio, infatti, in questo decreto consiglia: «Per far sì che i presbiteri possano reciprocamente aiutarsi a fomentare la vita spirituale e intellettuale, collaborare più efficacemente nel ministero, ed eventualmente evitare i pericoli della solitudine, sia incoraggiata fra di essi una certa vita comune, ossia una qualche comunità di vita, che può naturalmente assumere forme diverse, in rapporto ai differenti bisogni personali e pastorali: può trattarsi, cioè, di coabitazione, lì dove è possibile, oppure di una mensa comune, o almeno di frequenti e periodici incontri. Vanno tenute in grande considerazione e diligentemente incoraggiate le associazioni che, in base a statuti riconosciuti dall’autorità ecclesiastica competente, fomentano – grazie ad un modo di vita convenientemente ordinato e approvato e all’aiuto fraterno – la santità dei sacerdoti nell’esercizio del loro ministero, e mirano in tal modo al servizio di tutto l’ordine dei presbiteri» (PO 8; EV 1, 1269)2.

Ed è proprio questa la finalità specifica di tutto il Movimento sacerdotale dell’Opera di Maria.

Premesso questo come punto di partenza, il Concilio esorta a vivere la spiritualità di comunione come delineata nel fine generale e fine specifico dell’Opera di Maria. Il Concilio infatti dice: «Ciascuno dei presbiteri è legato ai confratelli con il vincolo della carità, della preghiera e di ogni specie di collaborazione» (PO 8; EV 1, 1267).

Il Concilio poi mette a fuoco le dimensioni fondamentali della vita dei sacerdoti con forti paralleli ai sette aspetti in cui noi cerchiamo di incarnare la nostra spiritualità.

Economia (povertà evangelica)

«Animati da spirito fraterno, i presbiteri non trascurino l’ospitalità, pratichino la beneficenza e la comunione dei beni» (PO 8; EV 1, 1269).

E dopo aver esortato alla comunione dei beni conclude: «Con questo tenore di vita i presbiteri possono mettere lodevolmente in pratica lo spirito di povertà raccomandato da Cristo» (PO 17; EV 1, 1302).

Apostolato

I presbiteri manifestino «quella unità con cui Cristo volle i suoi  resi perfetti in uno, affinché il mondo sappia che il Figlio è stato inviato dal Padre» (PO 8; EV 1, 1269).

«La carità pastorale esige che i presbiteri, se non vogliono correre invano, lavorino sempre nel vincolo della comunione con i vescovi e gli altri fratelli nel sacerdozio» (PO 14; EV 1, 1292).

Spiritualità

Si parla a lungo dei tre voti di castità, povertà e obbedienza – «quella disposizione dell’anima per cui i sacerdoti sono sempre disposti a cercare non la propria volontà...» – oltre alle pratiche di pietà incentrate sull’Eucaristia e al distacco da tutto. E questo per avere Gesù in mezzo a loro (cf PO 15-17; EV 1, 1293-1303).

Salute

«… i beni (materiali) devono impiegarli anzitutto per il proprio  onesto mantenimento…» (PO 17; EV 1, 1301).

«Non trascurino l’ospitalità… avendo speciale cura  di quanti sono infermi, afflitti…, soli…» (PO 8; EV 1, 1269).

Casa

«Sistemino la propria abitazione in modo tale che nessuno possa ritenerla inaccessibile, né debba, anche se di condizione molto umile, aver timore di frequentarla» (PO 17; EV 1, 1303).

Studi

«Ai nostri giorni la cultura umana e anche le scienze sacre avanzano a un ritmo prima sconosciuto; è bene quindi che i presbiteri si preoccupino di perfezionare sempre adeguatamente la propria scienza teologica e la propria cultura, in modo da essere in condizione più opportuna per poter sostenere il dialogo con gli uomini del loro tempo» (PO 19; EV 1, 1308).

Aggiornamento

Tutti i sacerdoti dovrebbero aggiornarsi attuando periodicamente un «proficuo scambio di esperienze apostoliche con i confratelli» (PO 19; EV 1, 1309).

L’apostolato verso il popolo

«I cristiani inoltre devono essere educati a non vivere egoisticamente, ma secondo le esigenze della nuova legge della carità, la quale vuole che ciascuno amministri in favore del prossimo la misura di grazia che ha ricevuto, e che in tal modo tutti assolvano cristianamente i propri compiti nella comunità umana» (PO 6; EV 1, 1258).

«Ma la funzione di pastore non si restringe alla cura dei singoli fedeli: essa va specialmente estesa alla formazione dell’autentica comunità cristiana» (PO 6; EV 1, 1260).

«E la celebrazione eucaristica, a sua volta, per essere piena e sincera deve spingere sia alle diverse opere di carità e al reciproco aiuto, sia all’azione missionaria e alle varie forme di testimonianza cristiana» (PO 6; EV 1, 1261).

«Inoltre… la comunità ecclesiale esercita una vera azione materna nei confronti delle anime da avvicinare a Cristo. Essa infatti [come comunità] viene ad essere, per chi ancora non crede, uno strumento efficace per indicare o per agevolare il cammino che porta a Cristo e alla sua Chiesa» (PO 6; EV 1, 1262).

«(I presbiteri) devono scoprire con senso di fede i carismi, sia umili che eccelsi, che sotto molteplici forme sono concessi ai laici, devono ammetterli con gioia e fomentarli con diligenza. Dei doni di Dio che si trovano abbondantemente fra i fedeli, meritano speciale attenzione quelli che spingono non pochi a una vita spirituale più elevata… Infine, i presbiteri si trovano in mezzo ai laici per condurre tutti all’unità della carità: “amatevi gli uni gli altri con affetto fraterno, gareggiate nello stimarvi a vicenda” (Rm 12, 10)» (PO 9; EV 1, 1272).

Una domanda

Possiamo chiederci: «È stata ascoltata dai sacerdoti la voce del Concilio?». Possiamo rispondere con tutta tranquillità che per molti versi è ancora tutto da scoprire che cosa significhi e che cosa implichi per i sacerdoti, nel loro particolare standard di vita, la “comunione di vita” a mo’ della comunione trinitaria.

D’altra parte, non può sfuggire la benevola iniziativa di Dio che ha dato a Chiara Lubich il carisma dell’unità con cui ha potuto invitare i sacerdoti a vivere, già in anticipo, ciò che il Concilio ha poi promulgato.

Coloro che sono venuti a conoscere, grazie a questo carisma, come si attua la comunione trinitaria – il Gesù in mezzo evangelico del “dove due o più” vivibile sia nella vita comune che nella comunione di vita senza convivenza stabile –, in questo momento storico in cui più che alla teoria si crede all’esperienza, sentono il dovere di impegnarsi, non più settorialmente ma assieme a tutto il popolo di Dio e facendo tesoro dell’esperienza dell’Opera di Maria, a costruire l’ekklesìa su tutta la terra.

Silvano Cola

 

 

 

1)     J. RATZINGER, I Movimenti ecclesiali e la loro collocazione teologica, in Pontificium Consilium pro laicis, I movimenti nella Chiesa, Città del Vaticano 1999, p. 46.

2)     Le osservazioni fatte da due Padri conciliari di porre le associazioni dei sacerdoti sotto la direzione del vescovo (se diocesane) o delle conferenze episcopali (se nazionali), furono respinte dalla Commissione con queste parole: «Tali associazioni non ci sembra che debbano essere sottomesse giuridicamente ai vescovi o alle conferenze episcopali, perché riguardano l’ambito personale della vita dei sacerdoti, nonché l’esercizio della loro legittima libertà».