Don Pino Poretti: una vita con Dio in unità con i fratelli

 

Un cammino di santità

di Natale Monza

 

Come può un sacerdote oggi coltivare l’unione con Dio, se viene continuamente sollecitato ad impegnarsi in molteplici attività spesso frenetiche? E poi, come può parlare all’umanità del nostro tempo la figura del prete? L’esperienza di don Pino Poretti, apre uno spiraglio di luce e infonde speranza. Sì, anche oggi il prete dice qualcosa, anzi può dire molto a condizione che sia esperto in comunione. Questo sacerdote milanese, sovraccarico di impegni, dovunque è passato, ha lasciato un segno, perché nella vita di comunione con i fratelli ha fatto una profonda esperienza di Dio e l’ha donata a piene mani a chi gli stava intorno.

 

Sacerdote dal 1954, conobbe una svolta significativa quando dieci anni dopo incontrò la spiritualità dell’unità.

Ne rimane affascinato, la fece subito sua e da quel momento la comunicava agli altri con la propria vita.

Così egli ricordava questo avvenimento: «Ho sempre avuto una gran voglia di lavorare, di organizzare, di portare avanti un cumulo di attività».

«Ad un certo punto – così continua – mi sono accorto che tutto quel lavoro e quelle molte cose che occupavano il giorno e parte della notte mi assorbivano e mi svuotavano. La scelta di Dio-Amore mi portò a rivedere tutto come occasione di amare, quindi di incontro con Lui: così i rapporti con le persone e i lavori che facevo. Ma soprattutto vidi che l’apostolato è produrre la presenza di Gesù in mezzo agli uomini, vivendo tra noi l’unità nel suo nome».

E questo divenne il filo conduttore del suo servizio pastorale nei diversi e significativi compiti a lui affidati: fu coadiutore in parrocchia, pro-rettore in seminario, assistente universitario alla Bocconi, assistente spirituale al Centro Don Gnocchi per disabili.

La varietà dei suoi incarichi e l’unità dei suoi intenti ci induce a pensare che ogni ambito della vita può costituire un luogo propizio per costruire la comunione.

Fu il primo sacerdote dell’arcidiocesi di Milano a conoscere la spiritualità dell’unità. Dopo di lui e grazie a lui molti altri, sacerdoti e laici, scoprono la bellezza di questo nuovo carisma nella Chiesa.

Oltre agli incarichi diocesani, egli svolse con umiltà e sapienza il suo servizio all’Opera di Maria aiutando i sacerdoti nella vita di comunione tra loro e con i rispettivi vescovi e poi facendo fiorire la stessa vita nelle loro parrocchie.

Aveva fatto sue le parole di Giovanni: «Se viviamo nella luce, noi siamo in comunione gli uni con gli altri» (1Gv 1, 7). Era la sua Parola di vita, il suo programma.

Le varie tappe del suo cammino

Ma ancor prima di conoscere il Movimento dei focolari egli era un “innamorato di Dio”. Scriveva nel 1961: «Devo essere un uomo di Dio. È Dio che opera ogni cosa: il mio posto è quello dello strumento sempre disponibile. Quindi intelletto teso a conoscere il modo di agire di Dio, e saper sempre meglio ciò che vuole. Quindi volontà pronta a qualsiasi cosa, se così a lui piace. La preghiera è la naturale atmosfera dove un uomo di Dio può vivere, È una meta da raggiungere. Occorre però che ne sia profondamente convinto: è questa la mia vita. O così o una vita senza senso. Che la mia vita diventi preghiera e la preghiera diventi la mia vita».

E alimentava il desiderio di farsi santo come emerge da un appunto del 1957: «Fare la volontà di Dio con perfezione, con costanza, con amore. Non bisogna aver paura della santità eroica. Avere il coraggio, la costanza, l’amore di ricominciare ogni giorno da capo, sempre con energia. Signore, ti prego, non guardare alla mia superbia, stammi vicino, concedimi di poter veramente incamminarmi sulla via della santità. I santi non sono stati i meno difettosi, ma i più coraggiosi».

L’incontro con la spiritualità
del Movimento dei focolari

Ne aveva sentito parlare già nel 1959, ma non ne aveva colto l’importanza per la sua vita. Solo nel 1964 durante un incontro internazionale per sacerdoti del Movimento ad Ala di Stura (Torino, Italia) capì la straordinaria novità e bellezza della spiritualità dell’unità e iniziava un cammino di luce che gli faceva dire: «Ogni volta che vengo ai nostri esercizi annuali mi sento avvolto dall’amore di Dio».

Nel 1976 scriveva a Chiara Lubich: «Voglio essere un grazie continuato alla Santissima Trinità per avermi fatto questo dono chiamandomi ad essere non solo destinatario, ma anche in qualche modo coinvolto come parte attiva del dono stesso». Ed esclamava commosso: «Che dono stupendo questa famiglia! Che responsabilità tremenda questa famiglia! Comunque sempre e per sempre grazie».

Non rimaneva però nell’incanto della scoperta, ma s’impegnava a “trasformare in amore-luce” ogni difficoltà per generare la presenza di Gesù ovunque.

Il fratello diventava per lui la “via maestra” per rimanere unito a Dio. Molto forte fu l’esperienza fatta nel 1972: «Un giorno don Vito Chiesa mi condusse da Turnea (allora responsabile del Movimento dei focolari a Milano; n.d.r.) e lì dinanzi a Dio abbiamo fatto un patto d’amore fino a dare la vita l’un per l’altro: ho detto di sì con tutta la disponibilità di cui ero capace, ma mi sono sentito investire da una veemenza d’amore così forte, ma così forte che ebbi una lontana esperienza di Pentecoste».

Gesù abbandonato
e Maria desolata

Don Pino giunse progressivamente ad una profonda comunione con Dio e col fratello, percorrendo un cammino di amore a Gesù crocifisso e abbandonato che chiamava “sposo” della sua anima e al quale cercava di “far festa” ogni volta che gli si presentava nei diversi volti della sofferenza. Gesù che sulla croce aveva gridato: «Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato?» era per lui un riferimento costante, perché in quel grido il Cristo si presenta come la sintesi di tutti i dolori spirituali e fisici.

La precarietà della sua salute in particolare gli offriva continue occasioni di rivivere Gesù abbandonato in un abbraccio sempre più serrato. Vissuta così, la sofferenza non poteva tradursi in lamento, ma fioriva in quell’inconfondibile sorriso stampato sul suo volto fino alla fine.

La figura di Maria, contemplata in tutta la sua bellezza come perfetta discepola di Gesù e come madre di Dio, lo affascinava: «Provo tanta nostalgia dell’Increato, per poter arrivare al Donatore, il più possibile, senza i limiti imposti da me ai suoi doni. E se Maria è in qualche modo la carne “verbizzata”, la mia consacrazione, deposta nelle tue mani, ha voluto essere un vero sposare Gesù abbandonato, perché il divino trovasse in me solo l’originaria “immagine e somiglianza”, da cui trasparire il più possibile».

Maria, nell’esperienza della sua desolazione ai piedi della croce, lo aiutava a capire e a vivere il mistero pasquale di Gesù abbandonato e risorto: «Voglio ripetere: sì, sì, sì... Gesù abbandonato, tu lo sai che ti amo. E tu, Maria, Madre del sacerdote, fa’ che nel calice, assieme a quella di Gesù, non manchi mai l’offerta anche di tutto me stesso».

Don Pino aveva trasmesso la spiritualità dell’unità anche a tanti sacerdoti della sua regione ed era diventato per loro punto di riferimento, ma nel 1987 per sopravvenuta malattia deve passare l’incarico ad un altro e lo fa con serenità: «Mi riconsacro a Gesù abbandonato e alla Desolata, così mi sento più vicino in questi giorni in cui mi è stato chiesto di “perdere” la responsabilità di delegato di zona per i sacerdoti».

Il 24 gennaio è la data in cui Chiara Lubich ricorda il giorno della sua prima scoperta del significato delle parole di Gesù quando sulla croce ha gridato: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato». Don Pino nel 1991 annotava: «Ieri, festa della manifestazione di Gesù abbandonato, avevo la fortissima sensazione di essere sotto una cascata di grazie abbondantissima e senza sosta… tanto che temevo di non riuscire più a contenerne, con la paura di perdere quanto traboccava dal cuore».

La vita nello Spirito

Nel gennaio del 1992, partecipando all’incontro annuale dei sacerdoti focolarini, dopo aver ascoltato una meditazione di Chiara sullo Spirito Santo, scriveva: «Mi sento avvolto dall’amore di Dio… Ma è possibile che non finirà mai di crescere in novità, intensità, forza, dolcezza? Non solo non finirà mai questo stupore, ma sarà sempre più così, trattandosi dì Spirito Santo».

Nell’anno 2000 aggiungeva: «E quando la mia ragione si è arresa alla potenza dell’amore divino, ho visto che esisto solo per questo e per nient’altro».

La Parola vissuta

La vita di ogni membro del Movimento dei focolari vuol essere tutta incentrata nel Vangelo e la Parola di Dio diventa Parola di vita: non basta contemplarla, bisogna incarnarla. Don Pino ne era cosciente: «Mi sono sentito come ripreso e ricreato dalla Parola di Dio, fino alle radici più profonde e più sparse; (...) e mi è venuto in aiuto una citazione di Clemente alessandrino: “Chi ubbidisce al Signore e per Suo mezzo segue la Scrittura, viene trasformato pienamente a immagine del Maestro, egli giunge a vivere come Dio in carne”. È favoloso!».

La sua unità con i pastori della Chiesa si basa sulle parole di Gesù: «Chi ascolta voi, ascolta me». Don Pino la concretizza nella piena obbedienza alle direttive del  Papa e del suo vescovo. In occasione del suo venticinquesimo di sacerdozio scriveva: «Con rinnovata gioia ringrazio Gesù d’avermi chiamato al sacerdozio diocesano e al Movimento dei focolari. In questo Amore irrevocabile voglio fondermi in unità con Lui, col Papa suo vicario e con il mio vescovo, così da non essere più io a vivere, ma Lui a vivere in me in servizio d’amore: tutto va sempre donato...».

Egli, come ogni sacerdote focolarino, anelava alla vita comune ed esprimeva in questi termini questo suo desiderio al proprio vescovo: «Io personalmente sono disponibile a qualsiasi volontà di Dio mi venga espressa da lei, perché quello che conta per me è attuare in ogni momento ciò che il Signore mi chiede. Se fosse possibile, desidererei vivere e lavorare con qualche altro sacerdote che si proponga, ante omnia, la perfetta e mutua carità, così da meritarci l’attuazione della promessa di Gesù: “Dove due o più sono uniti nel mio nome, ivi sono io in mezzo ad essi”. Ma se le sue scelte sono diverse, io sono ugualmente tanto contento perché, comunque, posso sempre dare tutte le mie forze, tutto il mio lavoro e tutta la mia vita per attuare con lei quell’unità che Gesù ha chiesto nell’ultima cena al Padre “affinché il mondo creda”».

L’ultima tappa

Negli ultimi anni, il Signore lo preparava per l’ultimo viaggio attraverso le prove collegate con la sua malattia. Egli le ha affrontate e offerte con spirito di fede per costruire la comunione nella Chiesa. E di prove don Pino ne aveva passate tante.

Diversi anni fa quando la malattia cominciò a intaccare seriamente la sua memoria, egli ebbe un momento di smarrimento, che così ha raccontato: «In un momento in cui ero un po’ affaticato, mi erano capitate delle amnesie solenni. Ciò che mi ha sorpreso era il fatto di non dimenticare solo il passato, ma anche il presente. Accortomi di questo mi assalì una tremenda paura, quella di impazzire. Era la paura di qualcosa di peggiore della morte, almeno per me che penso la morte come un passaggio, come un cambiamento e non come la distruzione della persona... Mi sembrava un momento tanto decisivo per me, perché mi appariva chiaramente che di Gesù o mi fido fino in fondo o non è vero che gli credo. Così fu logica conclusione dirgli durante la messa: “Gesù, se lo vuoi tu, sono contento anch’io”. Questo mi diede un senso di grande liberazione e di pace, perché avevo la sensazione non di aver fatto una cosa importante, ma di aver ricevuto un grande dono».

Da quel momento la sua vita, pur ridotta nelle attività esterne, divenne una continua oblazione a Dio per costruire la comunione tra i fratelli. Scriveva: «Sento di essere debitore in sovrabbondanza con tutti e di voler vivere per essere anch’io un dono a quanti incontro». Egli era profondamente cosciente che, se aveva vissuto questa divina avventura in cammino verso il Padre, lo doveva soprattutto alla comunione con i fratelli. Dopo la sua partenza da questo mondo, avvenuta il 25 ottobre del 2000, egli continua ad essere un dono di luce da quel Paradiso senza veli, verso il quale tendeva con tutte le forze come sua dimora.

Natale Monza